1. Giovanni Morelli, un romantico di fronte alle tecniche attribuzioniste.
Le recentissime discussioni critiche sull’attribuzione a Leonardo di una tavola in noce di un Cristo benedicente – il c.d. Salvator Mundi – venduto all’asta per circa mezzo miliardo di dollari; riaprono la storia di una figura di un critico d’arte italiano, Giovanni Morelli, vissuto in età romantica, padre della moderna ‘scuola attribuzionista di opere d’arte non firmate’ e dunque soggette a qualificazione. Attività spesso difficile, come dimostra la famosa vicenda di 32 anni fa, sulle false teste di Modigliani rinvenute nel fosso Reale a Livorno. Tema, dunque, complesso che ha come indagatore e maestro un personaggio ancora poco noto in Italia, ma, grazie alle sue straordinarie capacità, capace di condizionare uno storico dell’arte di caratura mondiale come il tedesco Aby Warburg. Di origine svizzero – tedesca, cresciuto in una famiglia liberale seguace di Rousseau, mazziniano della prima ora, ad appena venti anni Morelli emigrò in Germania, dove si laureò in medicina a Erlangen, interessandosi nel contempo alla filosofia di Schelling che conobbe personalmente e che gli fu guida per gli studi d’arte in Italia sul Rinascimento. Nel 1839, a Berlino, frequentò il salotto di Bettina Brentano, dove incontrò lo scienziato Alexander von Humboldt e gli artisti Karl Blechen e Wilhelm Stier, campioni dell’arte iconografica romantica. Su di lui ebbe però grande effetto la teoria interpretativa di Karl von Rumohr, che gli fece da maestro del metodo comparativo e stratigrafico connesso alla storia delle tecniche culinarie, di cui il von Rumohr era esperto. Mentre stava sulle barricate nelle 5 giornate di Milano, raffinò un metodo molto singolare per individuare la genesi delle grandi pitture tra Firenze e Milano. Approfittando dell’incarico di rappresentanza che il Governo Provvisorio di Milano gli conferì all’Assemblea costituente del 1849 a Francoforte, Morelli proseguì gli studi di ricerca artistica a Dresda, Berlino e Monaco, non solo rivedendo le correnti storiche del ‘500, ma anche identificando la “Venere” di Giorgione e ricostruendo la carriera del Caravaggio. Intanto, i meriti politici e il favore di Francesco de Sanctis furono tali da ottenere il titolo di senatore di Bergamo al Parlamento italiano dal 1873 al 1891, con permanenza a Roma, fatto che lo avvicinò ai Musei Vaticani. Quindi divenne Presidente del Comitato Nazionale per la conservazione delle opere di Belle arti, progenitore dell’attuale Consiglio Superiore dei Beni culturali. Scrupolosissimo nella gestione del Comitato, eccelso nella direzione dell’Accademia Carrara di Bergamo e il Poldi – Pezzoli di Milano, continuò a combattere nella terza guerra d’indipendenza del 1866, utilizzando l’ottimo conoscenza della lingua tedesca nei rapporti col Bismarck, con quale intrattenne un carteggio interessantissimo sull’unificazione tedesca. La versatilità dell’uomo andò però oltre le già ricordate competenze. Fu infatti autore, spesso in forma polemica, di saggi di critica d’arte pubblicati in tedesco a Lipsia fra il 1880 e il 1893, firmati da vari pseudonimi che testimoniano non solo le sue note bizzarrie, ma anche un certo spirito antagonista, che non era arroganza – come il giovane Warburg ebbe a costatare negli scritti molto approfonditi sui valori e sulle particolarità dell’arte rinascimentale rispetto all’arte umanista, per esempio sulle differenze fra Dürer e Leonardo – ma di adesione al proprio metodo attributivo, modello che lo fece definire dal Warburg, all’inizio del ‘900, come un novello Cartesio. In poche parole, il suo metodo attributivo partiva dall’idea che l’artista, nel disegnare i particolari meno interessanti e secondari – per esempio, i vestiti, le mani, le orecchie, ecc. ecc. – non badava a tocchi particolari, ma li riproduceva meccanicamente. La loro presenza, ribadita opera per opera, sarebbe sembrata quasi una firma. Di qui, il critico potrebbe arrivare con certezza alla paternità. Certo, come riconosceva nei suoi diari, il rischio di attribuire erroneamente un’opera ad un seguace – come nel caso del Caravaggio – era notevole e dunque un epigono, anche a fine dei lucro avrebbe potuto falsare l’autenticità. E qui il carteggio con un altro critico molto noto, il Berenson, alla fine della vita del Morelli, più o meno nel 1890, appare fondamentale: Giovanni, che era anche un buon analista chimico, faceva un’esame tecnico di prima qualità, trovando sponda in un altro famoso critico d’arte, Gustavo Frizzoni, il cui padre Giovanni aveva accolto August von Platen nel 1830 a Bergamo, inoculando al poeta il germe rivoluzionario mazziniano che ritroviamo nei “Polenlieder”. Gustavo Frizzoni, anch’egli legato al De Sanctis, non solo tradusse gli scritti di Morelli in italiano, ma si adoperò per continuare l’opera del maestro, guardando non solo all’età del dipinto, ma anche alle scuole artistiche e alle somiglianze estetiche. Curioso fu però l’effetto dell’uso superficiale del metodo di Morelli: la scelta comparativa e la ricerca delle somiglianze fa i disegni in bozza e l’opera finale, segnalata acutamente alla base del metodo, se usata unilateralmente, portava a conclusioni erronee. Solo Berenson, a fine ‘800. tenterà di correggere gli eccessi, mettendo in evidenza il fatto che l’esagerata meccanicità delle connessioni fra fattori secondari e l’obiettiva volontà dell’Autore di privilegiare un elemento del dipinto, vanno provate con circostanze esterne al dipinto stesso, non basandosi cioè solo sui disegni in bozza, ma con altri documenti e con altri dipinti.
2. Un positivista che risolse la questione.
Sicuramente una svolta nelle indagini su opere non firmate e sulle differenze necessarie a capire l’originalità di un quadro tali da escludere falsi o errori, avvenne con l’avvento del maggior critico d’arte del ‘900, Aby Warburg. Partendo invece dalla tesi secondo cui la tradizione classica era alla base della cultura rinascimentale; il critico Amburghese, dopo anni di osservazione dei capolavori dell’arte fiorentina, mise in discussione l’analisi che limitava all’area geografica connessa alla scuola umanista e si pose in viaggio nelle Americhe centrosettentrionali per verificare gli influssi locali sulle opere d’arte. Applicò alla storia dell’arte il metodo etnografico analogo alle narrazioni mitologiche da Bachofen in poi, che superavano gli schemi scientifici positivisti e rilevavano il filo rosso fra paganesimo e la civiltà del ‘400. Erano gli anni delle ricerche antropologiche di Freud e Jung, sugli archetipi della società, quando la psicologia da individuale diventò sociale, come ci insegna la storia della mitologia mediterranea con cui il Pitrè riscopriva le origini tradizionali della civiltà occidentale. Ritornato prima a Firenze con le nuove teorie, rivide le teorie del Morelli e del Frizzoni, ricostruendo la genesi della pittura facendo appello alla psicologia individuale e sociale degli artisti e dei mecenati a cavallo fra il ‘400 e il ‘500, facendo leva sul genere di origine olandese che voleva riprodurre le merci artigiane e artistiche di quell’epoca, negando ogni influenza puramente estetica, ma ritrovando le forme antiche di fede religiosa precristiana e post cristiana, tenendo conto delle interpretazioni della storia dell’arte successive alla Riforma protestante. Inoltre Warburg introdusse il metodo interpretativo di lettura dell’opera d’arte rinascimentale mutuando le scelte innovatrici della nascente scuola storica francese degli “Annales”, aprendosi alla ricerca delle fonti storiche più disparate, non limitandosi ai profili puramente estetici, ma anche allo sviluppo culturale e spirituale dell’occidente di primo novecento, dove emergeva prepotentemente l’espressionismo presente fin dall’età barocca da Leonardo a Michelangelo e a Raffaello, autori in cui rinvenne evidenti tracce di magia e astrologia, trasmigrati da oriente per mezzo dell’Umanesimo. Per corroborare questo singolare progetto interpretativo, che non dimenticava la genesi del Morelli, ma che ne ampliava le prospettive, Warburg fondò ad Amburgo nel 1905 una vastissima biblioteca di cultura d’arte e non solo, dove fino al 1933 nacque la moderna storia dell’arte e la odierna tecnica attributiva. Centinaia di migliaia di volumi, di fotografie e di studi critici trovarono sede in un “Cultural center”, trasferitosi agli inizi degli anni ’30 a Londra, stante il chiaro contrasto con le direttive naziste. E negli anni 2000 il Centro dovette subire il rischio della inclusione forzata nell’apparato amministrativo universitario inglese, correndo il rischio ulteriore della perdita di autonomia e di dispersione della notevole esperienza culturale acquisita anche dopo la morte del grande critico. Pericolo superato per la tenace resistenza di critici e cultori mondiali che credono ancora fermamente al metodo interdisciplinare di Warburg. Dunque, alla prova storica esterna si sommava quella interna del dipinto. Un caso tipico di metodo attributivo contemporaneo frutto della contemporanea presenza del metodo di Morelli arricchito dalla prova di Warburg è quello offerto proprio nella vicenda cui prendiamo le mosse: risalire all’opera di restauro e verificare lo spirito operativo degli eventuali giovani di bottega che vi misero mano fin dagli ultimi abbozzi, fino all’ultima restauratrice prima che l’opera venisse battuta all’asta a New York. Ché forse è valida anche in tale problema la considerazione di Carlo Rovelli, che ha osservato come il “metodo Warburg” derivi dal sottile legame fra il fenomeno scientifico da osservare e l’idea pregressa dal critico. “Osservare, concatenare e risolvere”, aveva già proposto Morelli per individuare le opere di Caravaggio non ancora ben individuate. Una linea di lettura oggi imprescindibile. E foriera di sorprese inimmaginabili, come ipotizzò con acume critico il nostro Roberto Longhi nello studio sempre valido sul Caravaggio.
Bibliografia:
- Su Morelli, vd. CARL BRUN, in Allgemeine deutsche Biographie, Band 52, Leipzig, 1906.
- Su Aby Warburg, vd. SILVIA FERRETTI, Il demone della memoria. Simbolo e tempo storico, in Warburg, CASSIRER, PANOFSKY, Torino, 1984.
- Sull’attribuzione dell’opera d’arte, cfr.. altresì ROBERTO LONGHI, Caravaggio Editori Riuniti, MILANO, 1956.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.