La Lex Salica e la Guerra dei Cent’Anni
La vicenda di Giovanna d’Arco si inserisce in quella di ben più ampio respiro che è la Guerra dei Cent’anni, scoppiata fra il 1337 e il 1453, principalmente fra Inghilterra e Francia, e con il coinvolgimento di molti altri regni dell’epoca.
Le cause furono diverse, ma il pretesto ufficiale fu la successione al trono francese da parte di Edoardo III d’Inghilterra e duca di Aquitania, in quanto nipote di Filippo IV di Francia, in base al diritto di successione della cosiddetta Lex Salica, che ammetteva la linea dinastica solo per eredi maschi.
Fin dal 987 i sovrani Capetingi avevano ereditato il trono di Francia con soli figli maschi, ma nel 1316, con la morte di Luigi X (a soli due anni da quella del padre Filippo il Bello) il trono rimase vacante in quanto il sovrano aveva avuto dalla moglie, Margherita di Borgogna (1290-1315), un’unica figlia femmina, Giovanna II di Navarra (1312-1349), e inoltre, quando la sua seconda moglie morì (Clemenza di Ungheria o D’Angiò, 1293-1328) era in attesa di un maschio, il futuro Giovanni I di Francia, che però visse solo soli cinque giorni dopo la nascita, dal 15 al 20 novembre 1316.
A questo punto, il Consiglio della Corona e il Consiglio degli Stati Generali si imposero e ribadirono il diritto di successione per la sola linea maschile, decretando l’ascesa al trono di Filippo V (1293-1322), fratello del defunto Luigi, soprattutto per ragioni geopolitiche, in quanto, con la legge che impediva alla regina di sposare un non francese, veniva evitato che uno straniero governasse la Francia. Al tempo stesso, fu promulgato un atto che stabiliva la illegittimità di Giovanna di Navarra di assumere il potere, istillando il dubbio che non fosse figlia legittima, ma frutto di un adulterio della madre con il cavaliere normanno Filippo d’Aunay, signore di Moucy-le-Neuf, Mesnil e Grand Moulin.
Per esattezza storica, la legge salica non fu invocata immediatamente dopo la morte di Luigi X, ma trent’anni più tardi, intorno al 1350, quando un monaco benedettino della basilica di Saint-Denis, scrivendo la cronaca ufficiale del regno, citò la legge per rafforzare la posizione del re francese. Dopo il breve regno di Filippo V, che morì anch’egli senza un erede maschio, fu il fratello minore Carlo IV a salire al trono nel 1322, ma anche il regno di Carlo durò poco, perché morì nel 1328 senza eredi maschi, segnando il tramonto della dinastia dei Capetingi.
Il trono francese si trovò così a essere conteso fra due pretendenti, entrambi nipoti di Filippo IV: Filippo VI di Valois, figlio di Carlo di Valois, e il re d’Inghilterra Edoardo III, figlio di Isabella di Francia. Ultima figlia di Filippo il Bello, Isabella aveva sposato il re d’Inghilterra Edoardo II. Grazie al sostegno dei grandi feudatari di Francia, che stabilirono che Isabella non poteva trasmettere un titolo di cui non poteva nemmeno lei fregiarsi, Filippo assunse il potere e inaugurò il regno dei Valois.
Con riluttanza, Edoardo III d’Inghilterra dovette accettare che Filippo VI diventasse re di Francia, aspettandosi però di vedersi riconosciuto il diritto di agire come meglio credeva in Scozia, ma il nuovo re francese confermò il proprio sostegno a Davide II di Scozia, di conseguenza, tale atto venne visto dal sovrano inglese come un atto di ostilità, ed ebbe inizio la guerra.
A lungo la storiografia ufficiale ha condensato le maggiori cause del conflitto nella rivalità fra le dinastie, e solo in epoca più recente si è preso in esame altro materiale, fra cui la questione dell’Aquitania, che sarebbe stata il vero obiettivo di Edoardo III.
L’Aquitania si trovava sotto controllo inglese dal tempo dell’unione fra Enrico II ed Eleonora d’Aquitania, ma secondo quanto stabilito nel trattato di Parigi del 1259, il re di Inghilterra doveva considerarsi formalmente feudatario del re francese e, di conseguenza, doveva riconoscere la sovranità francese su di essa. Il re di Francia aveva dunque il potere di revocare tutte le decisioni, cosa ovviamente inaccettabile per gli inglesi. La sovranità sulla regione fu quindi oggetto di un conflitto fra le due monarchie per diverse generazioni a venire.
Successivamente, nel 1323 Carlo IV di Francia, per riaffermare la propria autorità, fece costruire una fortificazione nei pressi di Saint-Sardos, nel territorio del duca di Aquitania, causando forti proteste da parte degli inglesi che incendiarono la fortezza. Di fronte a questo atto il Parlamento di Parigi, sostenendo che il duca di Aquitania non aveva reso omaggio di vassallaggio al sovrano, confiscò il ducato nel luglio 1324. Il re di Francia invase quasi tutta l’Aquitania, e con riluttanza accettò di restituirla nel 1325. Per recuperare il ducato Edoardo II dovette scendere a compromessi: mandò il figlio, il futuro Edoardo III, a rendere l’omaggio, ma il re di Francia gli offrì il territorio senza l’Agenais. La situazione si sbloccò nel 1327 con l’ascesa al trono di Edoardo III che, nel giugno 1329, rese omaggio al re di Francia, dichiarando tuttavia che non avrebbe rinunciato alla rivendicazione delle terre estorte.
La continua tensione fra i due sovrani, sostenuta da una nobiltà sempre più propensa al conflitto, portò inevitabilmente verso la guerra. Già da alcuni anni il re di Francia aveva offerto aiuto al regno di Scozia, nella lotta contro l’Inghilterra, politica peraltro già perseguita dai re Capetingi, la cosiddetta Auld Alliance. Il re di Scozia, Davide II, era stato costretto all’esilio da Edoardo III nel 1333 e Filippo VI gli aveva offerto asilo a Chateau-Gaillard, fornendogli inoltre sostegno per un’eventuale riconquista del regno. Dall’altra parte, Edoardo III cercava alleati nelle Fiandre, grazie al matrimonio con Filippa di Hainaut. Come risposta, Filippo VI decise di confiscare nuovamente l’Aquitania nel maggio 1337.
A tale azione Edoardo replicò mettendo in discussione la legittimità di Filippo quale sovrano, fino ad arrivare al culmine quando rivendicò pubblicamente il regno di Francia rinnegando l’omaggio feudale. Nello stesso momento, come d’usanza, un arcivescovo fu inviato a Parigi per lanciare la sfida.
Dopo una prima fase favorevole all’Inghilterra, con le battaglie di Crecy (1356) e Poitiers (1356) dove fu catturato lo stesso re di Francia Giovanni II, con il trattato di Brétigny del 1360 Edoardo III rinunciò alla pretesa ereditaria sulla Francia garantendosi, tuttavia, il dominio di tutta l’Aquitania e di Calais. Otto anni più tardi la tregua fu rotta da Carlo V di Francia che riuscì a riconquistare gran parte del territorio. Tra il 1407 e il 1435 la Francia fu dilaniata da una guerra civile tra Armagnacchi e Borgognoni che, in seguito all’alleanza di Giovanni di Borgogna con Enrico V d’Inghilterra, fece riprendere il conflitto. La battaglia di Agincourt (1415) segnò una delle più gravi sconfitte francesi, gli inglesi occuparono tutto il nord-ovest e nel 1420 entrarono persino a Parigi. Due anni dopo Enrico VI d’Inghilterra si nominò re di Francia. Mentre gli inglesi assediavano Orléans, nel 1429 iniziò la riscossa francese guidata da Giovanna d’Arco che aveva ricevuto dal delfino, Carlo VII, nel frattempo rifugiatosi a sud della Loira, il comando di un esercito, invertendo le sorti della guerra, ed entrando a Reims dove fu incoronato re. Successivamente i francesi cacciarono gli inglesi da tutti i territori continentali, fatta eccezione per Calais, rimasta inglese fino al 1559. Alla conclusione delle ostilità la Francia aveva sostanzialmente raggiunto l’assetto geopolitico moderno.
Nonostante la notevole durata, il conflitto fu caratterizzato da un numero relativamente ridotto di battaglie; ciò nonostante, il territorio francese subì ingenti devastazioni da numerose incursioni (dette “chevauchée”, celebre quella del Principe Nero del 1355), spesso accadute in periodi di apparente tregua, che contribuirono all’impoverimento della popolazione e alla diffusione della peste.
La straordinaria importanza della Guerra dei Cent’Anni, nella storia dell’Europa nel suo complesso, è evidenziata dal fatto che la sua fine, nel 1453, è una delle date convenzionalmente poste dalla storiografia moderna a conclusione del Medioevo europeo, con la contemporanea caduta di Costantinopoli.
Una contadina alla guida di un esercito
Dal punto di vista istituzionale, l’autorità del re d’Inghilterra era più debole e nello stesso tempo più forte di quella del re di Francia. La debolezza risiedeva nei forti poteri del parlamento (fra i quali vi era anche il diritto di veto su qualsiasi imposizione fiscale) mentre la forza era dovuta alla rete capillare di funzionari, detti sceriffi, che controllavano il territorio. Il peso della nobiltà nell’esercito, inoltre, era relativamente basso poiché si preferiva che i feudatari inviassero al sovrano contributi in denaro piuttosto che contingenti di cavalieri. I soldati venivano reclutati in gran parte su base volontaria, con contratti sottoscritti dai loro capitani, in cui si dichiarava il tempo di ferma, la paga e l’eventuale spartizione del bottino.
In questo contesto si inserisce la vicenda di Jean d’Arc, nata nel piccolo borgo di Domremy nel 1412, e morta sul rogo il 30 maggio 1431, dopo avere riportato sotto dominio francese quasi tutto il territorio continentale che gli inglesi avevano occupato, e dopo essere stata catturata dai Borgognoni a Compiegne e venduta alle autorità inglesi. Com’è noto, l’accusa di eresia venne annullata solo nel 1456 da papa Callisto III, e fino alla beatificazione del 1909 da parte di Pio X, e alla santificazione voluta da Benedetto XV nel 1920. Giovanna d’Arco proveniva da una famiglia di contadini della Lorena di forti tradizioni religiose, e fu educata secondo tali principi. Fin dalla più tenera età praticava assiduamente la carità, visitava gli infermi e accoglieva sotto il proprio tetto i viandanti.
L’ambiente familiare profondamente religioso, e la costante pratica, fecero nascere in lei grandi aspirazioni, e a circa 13 anni cominciò a manifestare l’impressione di udire “voci angeliche”, unite a strani bagliori luminosi, sostenendo di avere visioni dell’arcangelo Michele, di Santa Caterina e Santa Margherita. In seguito alle apparizioni, la giovane decise di consacrarsi completamente a Dio, pronunciando voto di castità.
La famiglia d’Arc venne coinvolta in guerra e costretta a fuggire dalla valle della Mosa verso Neufchateau, di fronte alle orde di Antoine de Vergy, capitano delle truppe della Borgogna alleate degli inglesi, i quali erano sul punto di espugnare la fortezza di Orleans, nel gennaio 1429, dopo un assedio iniziato l’ottobre precedente.
La città sulla Loira era un centro economico di grande importanza strategica e commerciale, in quanto crocevia per tutte le regioni della Francia meridionale, e la sua perdita sarebbe stata molto grave per il Delfino di Francia, Carlo VII, estromesso dalla linea di successione al trono. Altrettanto fondamentale, quindi, era il suo possesso.
Come Giovanna stessa dichiarò sotto interrogatorio, in un primo tempo mantenne il più stretto riserbo sulle apparizioni sovrannaturali, che solo successivamente l’avrebbero spinta a lasciare la propria casa per guidare l’esercito. I genitori dovettero intuire qualcosa, perché decisero di darla in sposa. Giovanna rifiutò la proposta e il fidanzato la citò in giudizio dinanzi al tribunale episcopale, ma il tribunale diede ragione a Giovanna, dal momento che il fidanzamento era avvenuto senza il suo consenso.
Finalmente convinti i genitori, la giovane cominciò la propria missione, recandosi a Vaucoulers dove, grazie all’intercessione dello zio, Durand Laxart, riuscì a incontrare Robert de Baudricourt, capitano del presidio, il quale la rispedì a casa deridendola. Giovanna si presentò altre due volte dal comandante militare, che nel frattempo aveva preso informazioni e constatato il grande ascendente che la ragazza aveva fra la popolazione e fra i suoi stessi soldati. Dopo un lungo e approfondito colloquio, de Baudricourt le assegnò una scorta perché fosse portata al cospetto del Delfino, che si trovava in quei giorni a Chinon. Nel frattempo, la fama della giovane si era diffusa in molte parti del Paese, e la popolazione cominciava ad attendersi grandi cose.
Alla fine del febbraio 1429, Giovanna parti da Vaucolers con la propria scorta, al comando di Colet de Vienne, e con gli ufficiali Bertrand de Poulengy, Jean de Metz e Richard Larcher. All’inizio di marzo giunse al castello di Chinon.
Presentandosi a Carlo dopo due giorni di attesa nella grande sala del castello, durante un’assemblea imponente e alla presenza di circa trecento nobili, Giovanna gli si avvicinò senza indugio e si inginocchiò, sostenendo di essere stata inviata da Dio per portare soccorso a lui e al suo reame. Tuttavia il Delfino, non fidandosi completamente, la sottopose a un primo esame in materia di fede nella stessa Chinon, dove la ragazza fu ascoltata da alcuni ecclesiastici di chiara fama, fra cui il vescovo di Castres, confessore dello stesso Carlo. Appresi i resoconti degli ecclesiastici, la inviò quindi a Poitiers. Qui Giovanna subì un secondo esame, più approfondito, che durò circa tre settimane: fu interrogata da un gruppo di teologi in parte provenienti dalla Università di Poitiers, oltre che dal cancelliere di Francia, e arcivescovo di Reims, Regnault de Chartres. Solo quando la giovane ebbe superato questa prova, Carlo decise di affidarle un intendente, Jean d’Aulon, nonché l’incarico di “accompagnare” una spedizione militare, pur non ricoprendo alcun incarico ufficiale, in soccorso di Jean d’Orléans, mettendo così nelle sue mani, le sorti della Francia.
Sorprendendo i più veterani, la giovane ebbe alcune iniziative che portarono a una profonda riforma dell’esercito, nel quale vigeva una sorta di sbandamento pressoché totale, e riuscì a imporre una disciplina rigorosa e uno stile di vita quasi monastico; allontanò le cosiddette “donne da guarnigione”, decretò severissime pene per violenza e saccheggio, proibì il turpiloquio e la bestemmia, stabilì la regolarità della confessione e l’obbligo di preghiera due volte al giorno, intorno al confessore Jean Pasquerel.
I provvedimenti sortirono l’effetto sperato, fino a un rapporto di intima fiducia fra soldati, ufficiali, la stessa Giovanna e la popolazione. Guadagnato il sostegno degli uomini, Jeanne la Pucelle, come fu soprannominata, cominciò a progettare la riscossa contro gli inglesi, pur non avendo alcuna carica ufficiale, ma divenendo figura di riferimento, poiché condivideva con i soldati ogni aspetto della vita di campo: vestiva in armatura, con cavallo, spada e stendardo bianco che raffigurava Dio benedicente un fiordaliso, fra gli arcangeli Michele e Gabriele.
Orleans era la chiave di volta della guerra in Francia, e principale centro dell’intera Valle della Loira, dalla quale la stessa Chinon (cioè la corte di Carlo VII) non era eccessivamente distante. Dal 12 ottobre 1428 la città era sotto assedio, gli inglesi avevano conquistato anche una serie di avamposti intorno all’abitato, diventati capisaldi, principalmente Cahmp St.Privé, Le Tourelles, St.Augustin, St,Jean-le-Blanc, St.Laurent, Coix Boissée, St.Loup, la bastia di Charlemagne e le fortificazioni soprannominate “Paris”, Rouen” e “Londre”, sulla riva settentrionale della Loira, la cui navigazione era resa impossibile.
Il 12 febbraio 1429, dopo quattro mesi di assedio, Jean la Pucelle tentò una sortita che si risolse in una disfatta, e il 18 dello stesso mese, il conte di Clermont abbandonò Orléans insieme alle sue truppe e ad altri capitani.
Difesa da una guarnigione sempre più esile, stremata dalla carenza di vettovaglie, la popolazione convinse Jean a lasciare che una delegazione guidata da Jean Poton de Xaintrailles raggiungesse il duca di Borgogna, Filippo il Buono, per chiedere la fine delle ostilità, anche se questo avrebbe significato il passaggio della città alla Borgogna. Il duca, interessato all’offerta, la sottopose agli alleati inglesi, che la respinsero, poiché Orleans era troppo importante per lasciarla ai borgognoni.
Fra alterne vicende, malattie e fame, la situazione di Orleans era diventata estremamente critica, mentre le truppe guidate dalla giovane erano costrette ad aspettare i rinforzi raccolti dal Delfino, per dare il colpo definitivo.
Jean d’Arc partì per raggiungere il resto dell’armata, accampata a Blois. Qui trovò l’esercito quasi disperso perché il cancelliere Regnault de Chartres, arcivescovo di Reims, da sempre ostile ai progetti della Pulzella, e alle sue pretese rivelazioni sovrannaturali, non intendeva procedere oltre. Jean minacciò di fare arrestare i capitani se non si fossero messi immediatamente in marcia e dovette, d’altro canto, supplicare l’arcivescovo di proseguire fino alla città assediata. Infine, la mattina del 4 maggio, l’esercito raggiunse finalmente Orleans.
Il 5 maggio 1429, Giovanna rivolse un ultimatum agli inglesi, affinché abbandonassero l’assedio, se non volevano subire una disfatta di cui si sarebbe serbata memoria. Più tardi, Jean d’Orléans, i capitani comandanti e Giovanna tennero un consiglio di guerra per decidere le mosse successive. Pochi giorni dopo avvenne la battaglia di St.Jean-le-Blanc, in cui gli inglesi furono pesantemente sconfitti e la giovane fu ferita da uno chausse-trape, ferro a molte punte di cui il terreno dello scontro era stato disseminato. Il 7 maggio, all’alba, Giovanna guidò l’esercito alla riconquista del ponte e delle Tourelles. L’assalto fu violento, i francesi colpirono i baluardi con l’artiglieria e tentarono di scalarli. Nella mischia, cercando di appoggiare una scala al muro, Giovanna fu trafitta da una freccia. Ritiratasi in preghiera in una vigna per pochi minuti, quando ritornò vide il suo stendardo in mano a un soldato cui il suo attendente, Jean d’Aulon, lo aveva affidato a sua insaputa. Cavalcò fino al ponte di Tourelles, prese lo stendardo, e i soldati, alla vista del gesto, lo interpretarono come un segnale e si lanciarono in un furioso assalto.
Gli inglesi si diedero alla fuga e alcuni, come il comandante della guarnigione, William Glasdale, caddero nella Loira e annegarono. Il popolo accolse l’esercito francese con grande festa e il giorno seguente, 8 maggio 1429, l’esercito assediante demolì le proprie fortificazioni, abbandonando i prigionieri, e si dispose a dare battaglia in campo aperto.
Il successo fu fondamentale per le sorti della guerra, poiché impedì che gli anglo-borgognoni potessero occupare l’intera parte meridionale del Paese e marciare verso il sud fedele a Carlo, ristabilì le comunicazioni tra le due sponde della Loira e, inoltre, diede inizio a un’avanzata culminata nella battaglia di Patay. Dopo due giorni dalla liberazione di Orléans, Giovanna e Jean d’Orléans si misero in viaggio per incontrare il Delfino a Tours.
Il comando dell’armata reale, nuovamente radunata nei pressi di Orléans, fu affidato al duca Giovanni II d’Alençon, principe di sangue, subito raggiunto dalle compagnie di Jean d’Orléans e di Florent d’Illiers di Chateaudun. L’esercito, forte di circa 4.000 uomini, raggiunse Jargeau e qui fu nuovamente Giovanna a risolvere un consiglio di guerra con irruenza, esortando ad attaccare senza esitazioni. Al loro arrivo i francesi erano intenzionati ad accamparsi nei sobborghi della città ma furono quasi travolti da un’offensiva inglese, e Giovanna guidò al contrattacco la propria compagnia e l’esercito poté acquartierarsi. Il giorno seguente, grazie a un diversivo improvvisato da Jean d’Orléans, le mura sguarnite vennero conquistate e così la stessa città. Jean la Pucelle fu nuovamente ferita, questa volta alla testa, da un pesante sasso; tuttavia fu sorprendentemente in grado di rialzarsi.
Con un attacco fulmineo, il 15 giugno venne preso il ponte sulla Loira; l’esercito poi passò oltre, per accamparsi davanti a Beaugency. Gli inglesi si ritirarono nel castello, cercando di mantenere almeno il controllo del ponte, ma furono raggiunti da un pesante assalto di artiglieria. In effetti, in campo inglese era atteso soprattutto il corpo d’armata di rinforzo comandato da sir John Fastolf, uno dei più famosi capitani.
Il 18 giugno 1429 un cervo attraversò il campo inglese, accampato presso Patay, e i soldati, lanciato un grido, si misero al suo inseguimento; gli esploratori francesi, che si trovavano a poca distanza, poterono quindi indicare con rapidità e precisione la posizione del nemico ai capitani, che non si lasciarono sfuggire l’occasione. L’avanguardia dell’esercito, cui si unirono anche le compagnie di La Hire e della stessa Giovanna, attaccò improvvisamente il campo, prima che gli inglesi avessero modo di erigere la consueta barriera di tronchi appuntiti dinanzi a loro, che solitamente impediva alla cavalleria di travolgerli e dava modo agli arcieri di compiere stragi tra le file del nemico. Senza questa protezione, in campo aperto, l’avanguardia inglese fu schiacciata dalla cavalleria pesante francese.
Sopraggiungendo, sir John Fastolf si avvide del pericolo e prese la decisione di ritirarsi, anziché soccorrere Talbot, mettendo in salvo almeno il proprio corpo d’armata. Per gli inglesi si trattò di una sconfitta completa quanto del tutto inattesa; in quella che sarebbe stata ricordata come la battaglia di Patay lasciarono sul campo oltre 2.000 uomini, mentre da parte francese si contarono solo tre morti e alcuni feriti. Gli echi della battaglia giunsero sino a Parigi, nella convinzione che ormai un attacco sulla città fosse imminente; in campo avverso la fama di Giovanna la Pulzella crebbe enormemente, almeno quanto la sua importanza nelle file francesi.
Prigionia, processo, condanna e morte
Le vittorie di Orleans e Patay aumentarono la fama e il prestigio di Jean la Pucelle, e ancor più fece la vittoria nella battaglia di Troyes, che però fu un primo segnale del fatto che la giovane cominciava ad essere fin troppo considerata, non tanto dalla popolazione quanto dall’esercito, che contava ormai oltre 15.000 armati. Dopo la conquista di Troyes, e la promessa di fedeltà di Reims, Sept-Saulx, Chalons, Soissons, Laon, Provins, Compiégne, Chateau-Thierry, Vaucoulers, e la proclamazione al trono di Carlo VII, era chiaro che la figura della pulzella Jean era diventata scomoda, e in particolare si erano risvegliatele pericolosissime lotte intestine all’interno della corte reale e della nobiltà, alla quale l’alto clero non era certo estraneo. La frattura fra i nobili che appoggiavano Giovanna era ormai insanabile, specialmente quando Jean la Pucelle manifestò l’intenzione di marciare su Parigi, e imporre trattative per portare la Borgogna fuori dall’alleanza con gli inglesi. Il Consiglio della Corona, a sua volta, si divise al proprio interno, in due fazioni opposte capeggiate dal favorito del re, La Tremoille, e da Richemont, acerrimo rivale.
Si cominciò a prendere tempo, indugiare, tramare per acquisire potere e influenza sulla politica nazionale e non solo. Nel frattempo l’esercito, partito da Crépy-en-Valois nell’agosto 1429, si trovò dinanzi l’armata inglese, schierata presso Montépilloy. Questa volta, gli inglesi avevano preparato con cura la strategia. La battaglia fu particolarmente accanita, gli inglesi si ritirarono verso Parigi, chiudendo le vie d’accesso, e l’armata francese rientrò a Crépy, quindi raggiunse prima Compiègne e Saint-Denis. Qui, per ordine di Carlo VII, iniziò lo scioglimento dell’esercito, in attesa delle trattative con la Borgogna che, dopo una tregua di quindici giorni, non approdarono mai a quella “buona pace stabile” che Giovanna si augurava.
L’atteggiamento della corte verso la Pulzella era indubbiamente mutato: a St.Denis Giovanna dovette evidentemente avvertire la differenza, e le sue “voci” le consigliarono, in quelle circostanze, di non procedere oltre. L’aura d’entusiasmo stava diminuendo, almeno presso la nobiltà. Il re e la corte, infatti, anziché approfittare del momento propizio per marciare su Parigi, avevano iniziato una serie di trattative con il duca di Borgogna, Filippo il Buono, al quale era stata affidata dagli inglesi la custodia della capitale, rinunciando ad adoperare le risorse militari di cui disponevano.
L’8 settembre 1429 i capitani francesi decisero di prendere d’assalto Parigi e Giovanna acconsentì all’offensiva. La Pucelle si recò con la sua compagnia fin sotto le mura della città, dove fu ferita a una gamba da una freccia, ma non volle lasciare la posizione.
Il giorno seguente, Giovanna si preparò a un nuovo assalto, ma fu raggiunta da due emissari, il duca di Bar e il conte di Clermont, che le intimarono per ordine del re di interrompere l’offensiva e tornare a Saint-Denis.
Il 21 settembre 1429, a Gien, l’esercito venne sciolto definitivamente. Giovanna, separata dalle truppe e dal duca d’Alençon, fu condotta a Bourges, ospite di Margherita di Tourolde, moglie di un consigliere del sovrano, dove rimase tre settimane. Carlo VII, infine, ordinò a Giovanna di accompagnare una spedizione contro Perrinet Gressart, comandante anglo-borgognone; il corpo di spedizione, comandato dal Sire d’Albret, pose l’assedio a St.Pierre-le-Moutier, ma più volte respinto, fu costretto a rinunciare.
Jean la Pucelle era ormai convinta che la Borgogna stesse intensificando i rapporti diplomatici e militari con la corona inglese. Stanca dell’inattività forzata, Giovanna lasciò la corte di Carlo VII, ingaggiando nuovamente combattimenti sporadici con gli anglo-borgognoni. La Pulzella era alla testa di contingenti in parte formati da volontari e in parte da mercenari, tra cui duecento piemontesi agli ordini di Bartolomeo Baretta; al suo comando vi era Arnaud Guillaume de Barbazan, famoso capitano da sempre agli ordini di Carlo VII, appena liberato dalla prigionia inglese. Passando per Melun, Giovanna giunse infine il 6 maggio 1430 a Compiègne, difesa da Guglielmo di Flavy; la città fu posta sotto assedio dalle truppe anglo-borgognone, e iniziò una serie di sortite eclatanti ma con scarso esito. Il 23 maggio 1430 Giovanna tentò un attacco a sorpresa contro la città di Margny, dove trovò una resistenza più forte del previsto; dopo essere stata respinta per tre volte, vedendo giungere al nemico altri rinforzi dalle postazioni vicine comandò la ritirata al riparo delle mura di Compiègne. Ad un certo punto il governatore della città, Guglielmo di Flavy, diede ordine di chiudere le porte delle mura nonostante le ultime compagnie non fossero ancora rientrate; ordine che, secondo alcuni, costituirebbe una prova del suo tradimento, essendosi accordato segretamente col nemico per rendere possibile la cattura della Pulzella. Secondo altri storici, tuttavia, benché questa eventualità sia possibile, non è però dimostrabile.
Mentre l’esercito rientrava nella città, Giovanna, che proteggeva la ritirata, circondata da pochi uomini della sua compagnia, fu strattonata da cavallo e venne catturata da Jean di Wamdonne, vassallo del duca di Borgogna al servizio del re d’Inghilterra.
Giovanni di Lussemburgo, vassallo del re d’Inghilterra, avendo catturato Giovanna d’Arco per mano di un suo capitano, aveva la potestà di metterla a riscatto. Così fece, fissando la cifra in 10.000 lire tornesi (denaro d’argento emesso per la prima volta agli inizi dell’XI secolo dall’Abbazia di San Martino a Tours in Francia. Assieme al parisino e all’angevino fu una delle monete più importanti della Francia medievale). Gli inglesi affidarono quindi l’ingente somma a Pietro Cauchon, vescovo di Beauvais, e quest’ultimo si recò presso Giovanni di Lussemburgo richiedendo la consegna della Pulzella, che fu portata a Crotoy come prigioniera di guerra e affidata alla custodia degli inglesi, con l’attendente Jean d’Aulon e il fratello Pietro.
Giovanna fu condotta in un primo tempo alla fortezza di Clairoix, quindi al castello di Beaulieu-les-Fontaines e infine al castello di Beaurevoir.
Dopo quattro mesi di prigionia, il vescovo di Beauvais, Pietro Cauchon, nella cui diocesi era avvenuta la cattura, si presentò pagando il riscatto e rivendicando il proprio diritto a giudicarla secondo il codice ecclesiastico.
Il pagamento del riscatto di un prigioniero aveva lo scopo di restituirgli la libertà; in questo caso, invece, Giovanna fu venduta agli inglesi, cui fu consegnata il 21 novembre 1430 a Le Crotoy, e trasferita numerose volte in diverse piazzeforti, forse per timore di un colpo di mano dei francesi per liberarla. Il 23 dicembre dello stesso anno, sei mesi dopo la cattura, Giovanna giunse a Rouen.
Carlo VII non offrì un riscatto, né fece passi ufficiali per trattare la liberazione. Secondo alcuni, Giovanna, ormai divenuta troppo popolare, fu abbandonata al suo destino. Secondo altri, invece, Carlo VII avrebbe incaricato segretamente prima La Hire, che fu catturato in un’azione militare, e poi Jean d’Orléans di liberare la prigioniera durante i trasferimenti, come proverebbero alcuni documenti che attestano due imprese segrete presso Rouen, di cui uno datato 14 marzo 1431 in cui Jean d’Orléans conferma la ricevuta di 3.000 lire tornesi per una missione oltre la Senna, che fallì.
L’Università di Parigi, che si riteneva depositaria della giurisprudenza civile ed ecclesiastica, dispiegò a favore degli inglesi le migliori armi retoriche, e fin dal momento della cattura ne aveva richiesto la consegna, in quanto la giovane sarebbe stata “sospettata fortemente di numerosi crimini di eresia”.
La prigioniera era rinchiusa nel castello di Rouen, in mano inglese. Qui, Jean la Pucelle fu rinchiusa in cella, guardata a vista da cinque soldati inglesi, tre all’interno della stessa cella, due al di fuori, mentre una seconda pattuglia era stata piazzata al piano superiore. I piedi della prigioniera erano serrati in ceppi di ferro e le mani spesso legate. Solo per partecipare alle udienze le venivano tolti i ceppi ai piedi, che invece, la notte, erano saldamente fissati in modo che la ragazza non potesse lasciare il proprio giaciglio.
Le difficoltà nell’istruire il processo non mancarono: in primo luogo Giovanna era detenuta come prigioniera di guerra in un carcere militare e non nelle prigioni ecclesiastiche come per i processi d’Inquisizione; in secondo luogo, la sua cattura era avvenuta ai margini della diocesi retta da Cauchon; inoltre, l’Inquisitore generale di Francia, Jean Graverent, si dichiarò non disponibile e il vicario dell’Inquisizione di Rouen, Jean Lemaistre, rifiutò di partecipare al processo perché non si riteneva competente che per la diocesi di Rouen. Fu necessario scrivere nuovamente all’Inquisitore Generale di Francia per ottenere che Lemaistre si piegasse, il 22 febbraio, quando le udienze erano già iniziate. Infine, Cauchon aveva inviato tre delegati, tra cui il notaio Nicolas Bailly, a Domrémy, Vaucouleurs e Toul per avere informazioni su Giovanna, senza che essi trovassero il minimo appiglio per formulare alcun capo d’accusa. Sarebbe stato solo dalle risposte di Giovanna agli interrogatori che i giudici, ossia Pietro Cauchon e Jean Lemaistre, e i quarantadue assessori, scelti fra teologi ed ecclesiastici di fama, le avrebbero posto, che la Pulzella sarebbe stata giudicata, mentre il processo iniziava senza che contro di lei vi fosse una chiara ed esplicita imputazione.
Il processo ebbe inizio il 3 gennaio 1431 e, il 9 gennaio 1431 Cauchon, ottenuta la giurisdizione su Rouen (allora sede arcivescovile vacante), iniziò la procedura ridefinendo il processo stesso, iniziato in un primo tempo “per stregoneria”, in uno “per eresia”; conferì infine l’incarico di “procuratore”, sorta di pubblico accusatore, a Jean d’Estivet, canonico di Beauveais che lo aveva seguito a Rouen.
L’interrogatorio di Giovanna si svolse in maniera convulsa, sia perché l’imputata era interrotta continuamente, sia perché alcuni segretari inglesi ne trascrivevano le parole omettendo tutto ciò che fosse a lei favorevole, cosa di cui il notaio Guillame Manchon si lamentò minacciando di astenersi dal presenziare ulteriormente; dal giorno seguente Giovanna fu così sentita in una sala del castello sorvegliata da due guardie inglesi. Giovanna fu interrogata per sommi capi sulla sua vita religiosa, sulle apparizioni, sulle “voci”, sugli accadimenti occorsi a Vaucouleurs, sull’assalto a Parigi in un giorno in cui cadeva una solennità religiosa; a questo la Pulzella rispose che l’assalto avvenne per iniziativa dei capitani di guerra, mentre le “voci” le avevano consigliato di non spingersi oltre Saint-Denis. Questione non trascurabile, fu il motivo per cui la ragazza indossasse abiti maschili.
La trascrizione dei verbali rivela anche una vena umoristica inaspettata che la ragazza possedeva nonostante il processo. L’interrogatorio successivo, sull’infanzia di Giovanna, i suoi giochi di bambina, l’Albero delle Fate, intorno al quale i bambini giocavano, danzavano e intrecciavano ghirlande, non portò nulla di rilevante per gli esiti processuali, né fece cadere Giovanna in affermazioni che potessero renderla sospetta di stregoneria, come forse era negli intenti dei suoi accusatori. Di notevole rilevanza, invece, la presenza, tra gli assessori della giuria, di un prete che si era finto prigioniero e aveva ascoltato Giovanna in confessione mentre, come riferito sotto giuramento da Guillame Manchon, diversi testimoni ascoltavano nascostamente la conversazione, in aperta violazione delle norme ecclesiastiche.
A partire dal 10 marzo tutte le udienze del processo furono tenute a porte chiuse. La segretezza degli interrogatori coincise con una procedura inquisitoriale più incisiva: si chiese all’imputata se non ritenesse di aver peccato intraprendendo il suo viaggio contro il parere dei suoi genitori; se fosse in grado di descrivere l’aspetto degli angeli; se avesse tentato di suicidarsi saltando giù dalla torre del castello di Beaurevoir; quale fosse il “segno” dato al Delfino che avrebbe convinto quest’ultimo a prestar fede alla ragazza; se fosse certa di non cadere più in peccato mortale, ossia se fosse sicura di trovarsi in stato di Grazia. Paradossalmente, quanto più gravi furono le accuse mosse a Giovanna, tanto più sorprendenti vennero le risposte.
Durante il sesto e ultimo interrogatorio, gli inquisitori spiegarono infine a Giovanna che esisteva una “Chiesa trionfante” e una “Chiesa militante”; l’imputata si limitò a riaffermare che Dio e la Chiesa erano una cosa sola. Gli stessi contemporanei che ebbero modo di presenziare agli interrogatori, specialmente i più eruditi, come testimonia il medico Jean Tiphaine, notarono l’accortezza e la saggezza con le quali Giovanna rispondeva; al contempo difendeva la veridicità delle sue “voci”, riconosceva l’autorità della Chiesa, si affidava completamente a Dio.
Il 27 e il 28 marzo furono letti all’imputata i settanta articoli che componevano l’atto di accusa formulato da Jean d’Estivet. Molti articoli erano palesemente falsi o quantomeno non suffragati da alcuna testimonianza, meno che mai dalle risposte dell’imputata; tra essi si leggeva che Giovanna avrebbe bestemmiato, portato con sé una mandragora, stregato stendardo, spada e anello conferendo ad essi virtù magiche; frequentato le fate, venerato spiriti maligni, tenuto commercio con due “consiglieri della sorgente”, fatto venerare la propria armatura, formulato divinazioni. Altri, come il sessantaduesimo articolo, sarebbero potuti risultare più insidiosi, in quanto ravvisavano in Giovanna la volontà di entrare in contatto direttamente con il divino, senza la mediazione della Chiesa, eppure passarono quasi inosservati. Paradossalmente, risultò di sempre maggior rilevanza l’uso di Giovanna di portare abiti da uomo. Si scontravano da un lato l’applicazione formale e letterale della dottrina, che si appigliava a quell’abito maschile come a un marchio d’infamia, dall’altro la visione “mistica” di Giovanna, per la quale l’abito era cosa da nulla se paragonato al mondo spirituale. Il 31 marzo Giovanna fu nuovamente interrogata nella sua prigione e acconsentì a sottomettersi alla Chiesa, purché non le fosse chiesto di affermare che le “voci” non provenissero da Dio.
I settanta articoli in cui consisteva l’accusa contro Giovanna furono condensati in dodici articoli estratti dall’atto formale redatto da Jean d’Estivet; tale era la normale procedura inquisitoriale. La giovane veniva considerata idolatra, invocatrice di diavoli, blasfema, eretica e scismatica.
Alcuni chierici di Rouen ritennero di fatto Giovanna innocente o, quantomeno, il processo illegittimo; tra questi Jean Lohier, che reputò il processo illegale nella forma e nella sostanza, in quanto gli assessori non erano liberi, le sedute si tenevano a porte chiuse, gli argomenti trattati troppo complessi per una ragazzina e soprattutto che il vero motivo del processo era politico, in quanto attraverso Giovanna s’intendeva infangare il nome di Carlo VII. Per queste sue schiette risposte, che oltretutto svelavano il fine politico del processo, Lohier dovette abbandonare Rouen.
Il 9 maggio Giovanna, condotta nel torrione del castello di Rouen, si trovò dinanzi Cauchon, alcuni assessori e Maugier Leparmentier, il boia; minacciata di tortura, non rinnegò nulla e rifiutò di piegarsi, pur confessando la propria paura. Il tribunale decise infine di non ricorrere alla tortura, probabilmente per il timore che la ragazza non riuscisse a sopportare la prova e forse anche per non rischiare di apporre sul processo una macchia indelebile. Il 23 maggio furono letti a Giovanna, presenti numerosi membri del tribunale, i dodici articoli a suo carico. Giovanna rispose che confermava tutto quanto aveva detto durante il processo e che lo avrebbe sostenuto sino alla fine.
Il 24 maggio 1431 Giovanna fu tradotta dalla sua prigione nel cimitero della chiesa di Saint-Ouen, sul margine orientale della città, ove erano già state preparate una piattaforma per lei, in modo che la popolazione potesse vederla e udirla distintamente, e tribune per i giudici e gli assessori. La ragazza fu ammonita dal teologo Guillame Erard che, dopo un lungo sermone, domandò a Giovanna ancora una volta di abiurare i crimini contenuti nei dodici articoli dell’accusa.
A Giovanna fu quindi consegnata una dichiarazione per mano dell’usciere, Jean Massieu; nonostante lo stesso Massieu l’avvertisse del pericolo in cui incorreva firmandola, la ragazza siglò il documento con una croce. In realtà Giovanna, seppure analfabeta, aveva imparato a firmare con il suo nome, “Jehanne”, così come appare nelle lettere che ci sono pervenute.
L’abiura che Giovanna aveva firmato non era più lunga di otto righe, nelle quali s’impegnava a non riprendere le armi, né portare abito maschile, né capelli corti, mentre agli atti fu messo un documento di abiura di quarantaquattro righe in latino. La sentenza emessa era comunque durissima: Giovanna era condannata alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, “a pane di dolore e acqua di tristezza”. Nondimeno, la ragazza sarebbe stata sorvegliata da donne, non più costretta da ferri giorno e notte e libera dal tormento dei continui interrogatori; rimase tuttavia sorpresa quando Cauchon ordinò di rinchiuderla nello stesso carcere destinato ai prigionieri di guerra.
Questa violazione delle norme ecclesiastiche fu con ogni probabilità voluta dallo stesso Cauchon per un fine preciso, indurre Giovanna a indossare nuovamente l’abito da uomo per difendersi dai soprusi dei soldati. Infatti solamente coloro che, avendo già abiurato, ricadevano in errore, erano destinati al rogo. Gli inglesi, tuttavia, persuasi che ormai Giovanna fosse sfuggita loro di mano, poco avvezzi alle procedure dell’Inquisizione, esplosero in un tumulto e in un lancio di sassi contro lo stesso Cauchon. Nuovamente in carcere, Giovanna divenne oggetto di una collera ancora maggiore da parte dei suoi carcerieri; il domenicano Martin Ladvenu riporta che Giovanna gli riferì di un tentativo di violentarla da parte di un inglese, che, non riuscendovi, la percossero con ferocia.
La mattina di domenica 27 maggio, Giovanna chiese di alzarsi e un soldato inglese le sottrasse gli abiti da donna e gettando nella sua cella quelli maschili; nonostante le proteste della Pulzella, non gliene furono concessi altri. A mezzogiorno, Giovanna fu costretta a cedere; Cauchon e il vice-inquisitore Lemaistre, insieme ad alcuni assessori, si recarono il giorno seguente alla prigione: Giovanna affermò coraggiosamente di aver ripreso l’abito maschile di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non, come suo diritto, in una prigione ecclesiastica.
Interrogata ancora, ribadì di credere fermamente che le voci che le apparivano erano quelle di santa Caterina e di santa Margherita, di essere inviata da Dio, di non aver capito una sola parola dell’atto di abiura. Il 29 maggio Cauchon riunì per l’ultima volta il tribunale per decidere la sorte di Giovanna. Su quarantadue assessori, trentanove dichiararono che fosse necessario leggerle nuovamente l’abiura formale e proporle la “Parola di Dio”. Il loro potere, però, era solo consultivo: Cauchon e Jean Lemaistre condannarono Giovanna al rogo.
Il 30 maggio 1431 entrarono nella cella di Giovanna due frati domenicani, Jean Toutmouillé e Martin Ladvenu; quest’ultimo la ascoltò in confessione e le comunicò quale sorte era stata decretata per lei quel giorno.
Giovanna fu condotta nella piazza del Mercato Vecchio di Rouen e fu data lettura della sentenza ecclesiastica. Successivamente fu abbandonata nelle mani del boia, Geoffroy Thérage, e condotta dove il legno era già pronto, di fronte a una folla numerosa riunitasi per l’occasione. Scortata da circa duecento soldati, salì sino al palo dove fu incatenata, sopra una gran quantità di legna. In tal modo, non c’era possibilità per il boia di abbreviare il supplizio della condannata, facendole perdere i sensi per l’impossibilità di respirare e facendo poi bruciare il corpo già morto. Sarebbe dovuta ardere viva, a diciannove anni. Del corpo della Pulzella rimasero solo le ceneri, il cuore e qualche frammento osseo. I resti del rogo furono quindi caricati su un carro e gettati nella Senna, per ordine del conte di Warwick.
Di tante cronache che vedono incrociarsi fedi, mito, storia e superstizione, quella di Giovanna d’Arco è tra le più inquietanti e affascinanti. È impossibile propendere per una direzione piuttosto che un’altra quando, nell’avvicendarsi dei fatti, si percorre il limite che separa follia e santità, visione e allucinazione, fede e politica. Comunque sia, protagonista e coprotagonisti della storia iniziata a Domremy, sono legati tra loro da un filo indissolubile che ha mosso i loro gesti e pensieri, e la storia di una intera nazione. Giovanna, frutto di una Francia attraversata da carestie, epidemie e guerre, riuscì in ciò che i comandanti dell’esercito francese tentavano da tempo senza successo. Guidare la conquista di Orleans, superando il confine a sud della Loira, fino all’investitura del re a Reims, eventi la cui visione anticipata l’aveva obbligata a intraprendere il percorso improbabile di farsi ascoltare da Carlo VII. Superando ogni ostacolo, diciassettenne contadina analfabeta, ottenne il comando dell’esercito, animata da voci e visioni.
Dopo questo servizio reso alla Francia, venne inevitabilmente tradita e consegnata dai borgognoni agli inglesi. Giovanna, a fronte della sua incontenibile evidenza, andava cancellata. Politici, religiosi e studiosi non potevano accettare che un destino così grande avesse investito una ragazzina senza arte né parte, assurta a simbolo della povera gente, ovvero della maggioranza. Così venne imbastito un processo per eresia, al quale teologi e dottori ambivano partecipare per mostrare il proprio asservimento al potere, che di Giovanna aveva già stabilito il destino. Un ipocrita convegno di studiosi che dovevano, in punta di cavillo, stabilire la malignità dei vestiti maschili necessari a Giovanna per convivere con i soldati, o dello stendardo con cui guidava le campagne. I dotti teologi erano interessati a liberare il re francese da una presenza scomoda, che rischiava di metterlo in ombra, e di testimoniare del potere affidato a una giovane di campagna per guidare i suoi eserciti. La condanna era fatale perché aveva mostrato che una visione può ribaltare gli equilibri del mondo e questo non era ammissibile. La pulzella sentiva Dio, o le voci erano lei stessa? Questo non cambia comunque il risultato.
Dall’altra parte, l’Università di Parigi fu la vera ispiratrice del processo. Ne derivò che un ambiente dallo spirito internazionale come dottrina, e anglofilo come interesse, giudicò una causa nazionale e, perciò, con evidente sentimenti aprioristici di incomprensione e contrarietà. L’Università di Parigi, federazione delle facoltà di Teologia, Diritto, Medicina e Arti, era cresciuta d’importanza e d’orgoglio durante il grande scisma, specialmente la facoltà di Teologia, che si attribuiva il potere di giudicare se una dottrina religiosa fosse vera o falsa. Il suo potere, spesso in contrasto con i re di Francia, era andato sempre aumentando. Nella lotta tra Francia e Borgogna aveva preso le parti di Jean Petit, il teologo apologista dell’assassinio del duca d’Orléans, e aveva aderito al Trattato di Troyes delegandovi il vescovo Pierre Cauchon. Ad ogni vittoria inglese l’Università faceva offerte di riconoscenza al tempio e quando, nel dicembre 1431, il giovane Re d’Inghilterra fece il suo ingresso a Parigi, il teologo Nicolas Midi, che fu uno dei giudici di Giovanna d’Arco, venne incaricato di dargli il benvenuto in nome dell’Università.
Pietro Cauchon, vescovo profugo di Bauvais, incaricato di comporre il tribunale e di istruire il processo, chiamò come suoi collaboratori, e nominò membri del Tribunale, alcuni dottori dell’Università scelti tra i più fanatici.
L’Università di Parigi aveva dato in quei giorni una misura del suo zelo e della sua parzialità intervenendo nei processi di due donne: la prima, avendo dichiarato nel corso del processo che la Pulzella era stata ispirata dal diavolo, fu assolta e messa in libertà; la seconda sostenne invece che Giovanna era buona e aveva agito secondo il volere di Dio, fu condannata e bruciata. L’Università incalzava perché il giudizio di Giovanna si svolgesse nel più breve tempo possibile, accusando lo stesso Cauchon di lentezza procedurale. Tra vescovi e alti prelati, vi era Robert Jolivet, già abate del Mont Saint-Michel, che aveva consegnato agli inglesi la inespugnabile fortezza.
Nel 1452, il legato pontificio Guillaume d’Estouteville e l’Inquisitore di Francia, Jean Bréhal, aprirono anch’essi un procedimento ecclesiastico che portò a un rescritto a firma del papa Callisto III con cui si autorizzava una revisione del processo del 1431, che durò dal novembre 1455 al luglio 1456. Dopo aver ascoltato centoquindici testimoni, il precedente processo fu dichiarato nullo e Giovanna fu, a posteriori, riabilitata e riconosciuta innocente.
Bibliografia
“Le beau Dunois et son temps” – Michel Caffin de Merouville, 2003;
“Storia della Francia” (Volume I) – Georges Duby, 2001;
“Dunois le bâtard d’Orléans” – Robert Garnier, 1999;
“La libération d’Orléans” – Régine Pernoud, 1969;
“Réhabilitation de Jeanne d’Arc, reconquête de la France” – Régine Pernoud, 1995;
“Jean d’Arc” – Hilaire Belloc, 2006;
“Giovanna d’Arco” – Giovanni Bogliolo, 2000;
“Giovanna d’Arco. La vergine guerriera” – Franco Cardini, 1999;
“Il mistero della carità di Giovanna d’Arco” – Charles Péguy, 1993;
“La spiritualità di Giovanna d’Arco” – Régine Pernoud, 1998;
“Il processo di condanna di Giovanna d’Arco” – Teresa Cremisi, 2000;
“Il processo di Jeanne La Pucelle” (Manuscrit d’Orléans) Luciano e Marco Verona, 1992.
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