Ad oltre quarantacinque anni dalla sua scomparsa, la controversa figura di Pitigrilli, al secolo Dino Segre, rimane ancora sepolta nel vasto e ben curato cimitero della disinformazione e del pregiudizio e, salvo alcune meritorie e coraggiose opere di rivalutazione (vedi gli scritti e le memorie di Fabio Andriola, Sergio Andreoli, Enzo Magri e Maurizio Bonfiglio e il saggio di Umberto Eco), pochi fino ad oggi sono stati i critici che si sono cimentati nella riscoperta di questo importante giornalista e romanziere.
Scrittore brillante e disincantato, attento osservatore della società italiana, dei suoi costumi e delle sue debolezze, Pitigrilli è stato oltre che un autore di indubbio talento anche e soprattutto un notevole ed atipico talento giornalistico. Un cronista che, complici il suo stile provocatorio, paradossale e anticonformista riuscì – nobile impresa – ad attirare su di sé l’antipatia e persino l’odio di gran parte degli intellettuali e dei potenti d’ogni schieramento e colore.
Dino Segre nacque a Torino nel 1893 da una famiglia borghese («Avrei voluto nascere a Torino al principio del secolo scorso […] invece vi nacqui cent’anni dopo […] Mia madre discende da una famiglia di farmacisti piemontesi, mio padre era ufficiale dell’esercito»). A ventidue anni si laurea in Giurisprudenza, ma non intraprende la carriera forense, preferendo dedicarsi subito alla letteratura, allo studio delle lingue moderne e antiche e al giornalismo. E a neanche ventitré anni inizia a scrivere per importanti testate, tra cui «L’Epoca», evidenziando in poco tempo straordinarie capacità come inviato in Turchia e in altri Paesi. Fondamentalmente scettico circa le possibilità di riscatto di un’umanità perennemente alla ricerca di facili soluzioni alla morte, all’ingiustizia sociale o al dolore mentale; decisamente dubbioso circa le capacità intellettive dell’uomo medio («Ammetto il bacio al lebbroso ma non concepisco la stretta di mano al cretino»), Pitigrilli, nel corso della sua lunga carriera, ha prodotto un numero esorbitante di articoli, servizi ed elzeviri, trovando il tempo per dare alle stampe parecchi romanzi cosiddetti «leggeri», parte dei quali, in realtà, molto profondi ed acuti: ricchi di annotazioni ed osservazioni sulla psicologia del singolo e delle masse, e quasi tutti gradevoli (anche se ad un’analisi attuale, un po’ «datati») sotto il profilo stilistico.
Pitigrilli fu anche un abile e conteso conferenziere, al punto che tra il 1929 e il 1930 egli venne invitato dalle più importanti Università europee, tra cui la Sorbona, a diversi simposi internazionali per disquisire su temi piuttosto complessi ed interessanti: come i concetti di «assurdo» e di «ipocrisia» («Nel collegio dei Barnabiti – scrisse nel suo romanzo Cocaina – aveva imparato il latino, a servire messa e a giurare il falso. Tre cose di cui si può aver bisogno da un momento all’altro. Ma uscendo dal collegio le dimenticò tutte e tre») e quello della «decadenza del paradosso» in letteratura.
L’abilità e la colpa di Dino Segre, in arte Pitigrilli (oltre a questo pseudonimo, utilizzò talvolta anche quello di Mathesis) consistettero nel sapere coniugare l’abilità professionale al gusto estetico e a quello del profitto: un’attitudine piuttosto rara che gli procurò fama, denaro, ma anche molti guai. Contrariamente alla prassi, Pitigrilli utilizzò sempre il suo fiuto giornalistico, letterario e commerciale facendo a meno di assimilarlo e adoperarlo per praticare uno dei più frequenti esercizi di molti intellettuali e giornalisti italiani: la piaggeria nei confronti dei politici e dei potenti di turno. Contrariamente a quanto è stato più volte scritto dai suoi detrattori, di Pitigrilli tutto si può dire tranne che abbia fatto o capito qualcosa di politica, scienza che ben di rado gli rubò il sonno la notte, pur stimolandogli gli insaziabili appetiti della polemica.
D’altra parte, l’intera storia di Segre fu caratterizzata da un costante e determinato esercizio nei confronti di uno studiato e raffinato «disimpegno»: conflitto che il giornalista torinese ingaggiò a colpi di articoli e di romanzi – come si direbbe oggi – «politicamente scorretti». Ma se i suoi numerosi scritti, che la quasi totalità dei critici (cattolici, marxisti e fascisti) hanno sempre condannato o snobbato giudicandoli superficiali, qualunquisti, vacui e addirittura pornografici, furono forse i suoi articoli (quelli meno noti) a procuragli i più grossi grattacapi. Non a caso, all’inizio del 1919, il grande D’Annunzio, infastidito dalle dolorose punzecchiature inflittegli dal giovane cronista del quotidiano romano «L’Epoca», arrivò addirittura a sfidarlo a duello. In effetti, Pitigrilli – al contrario della quasi totalità dei prudenti ed untuosi cronisti italiani del periodo – non aveva pensato due volte a sputtanare il Vate impegnato nella «grottesca» conquista di Fiume del novembre 1918 («Una nave da guerra mi portò a Fiume, della cui italianità Gabriele D’Annunzio si era appena accorto […] E con l’entusiasmo tipico dei poeti-guerrieri, egli trovò facile scovare qualche migliaio di individui disposti a corrergli dietro»). Incaricato dal direttore della testata di scrivere un servizio sull’impresa dannunziana, Pitigrilli ci era andato dentro con la zappa, infischiandosene altamente della sacralità dell’Eroe del Volo su Vienna e smitizzando le ragioni storiche e i fini politici su cui poggiava la spedizione militare di Fiume. «Giunto nella città, trovai della gente che parlava una strana lingua. Non uno che sapesse l’italiano. Qualche rudere qua e là, qualche impronta lasciata nei secoli dalle nostre repubbliche marinare; qualche leone di San Marco. Non vidi molta italianità ma percepii il colore dell’Oriente: mercanti di tappeti levantini, sigaraie da strada, profumo di cocomeri e di uva moscata, venditori di belzuino, di mirra e di incenso… Mi sedetti sulla banchina del porto e scrissi di getto un articolo intitolato: “Fiume, città asiatica”». Come dire: che c’entra l’Italia e la sbandierata italianità con questo posto? Manco a dirlo la totalità degli intellettuali si scagliò contro il giovane cronista che nel suo polemico pezzo tutto aveva riportato, tranne la menzogna. Il questore di Roma, «che molto probabilmente fino al giorno prima non avrebbe saputo trovare Fiume sulla carta geografica» arrivò addirittura a sequestrare la testata («L’Epoca») sulla quale era comparso l’articolo. Questo episodio la dice lunga sulla spavalda propensione alla libertà che Dino Segre sempre evidenziò nel corso della sua lunga carriera. Sì, perché egli non solo si rivelò una penna vivace ed insubordinata, ma fu anche in grado di «resocontare» con lucidità e coraggio un qualsiasi avvenimento, trasformandolo in dettagliata analisi.
Ma come si è detto, Pitigrilli è stato anche un buon imprenditore, oltre che di se stesso, anche di testate. Basti pensare all’enorme successo ottenuto dal suo periodico «Le Grandi Firme», tirato e venduto in decine di migliaia di copie, o agli allori conseguiti nel 1948 quando – essendo dovuto emigrare nel dopoguerra in Argentina per schivare le accuse (per altro mai provate) di collaborazionismo con i servizi segreti fascisti – egli riuscì a fare raddoppiare le vendite del quotidiano «La Razon» (che arrivò a quasi cinquecentomila copie al giorno) con la sua rubrichetta settimanale «Peperoni dolci». Fatti, questi, decisamente straordinari, soprattutto se si considera che Pitigrilli non ebbe mai del giornalismo quella sacrale concezione che sta alla base dell’atteggiamento serioso e spesso spocchioso di molti sedicenti maestri della penna. «La servitù del giornalismo – annoterà lo scrittore torinese alla fine degli anni Quaranta – consiste nell’arrivare alle nove del mattino in un paese sconosciuto, e a mezzogiorno spedire il primo articolo, dopo avere scambiato quattro chiacchiere col primo venuto, e avere visto della città il tratto che va dalla stazione all’albergo». È proprio per sopperire alla noia e alla sostanziale frustrazione che, a parer suo, contraddistinguerebbero il mestiere del giornalista, che Pitigrilli interpretò quest’ultimo sempre a suo modo, con quella incredibile verve surrealista che gli procurò grandi successi, ma anche grandi dolori ed infine l’esilio. «Un giorno il direttore dell’“Epoca” mi disse: “Vada al Lyceum femminile. Il senatore Morello tiene una conferenza sulle bellezze di Roma. Mi raccomando, prenda una carrozzella e faccia presto” – aggiunse. Io presi la carrozzella e, invece di farmi portare al Lyceum femminile, feci una passeggiata di un’ora al Foro, al Gianicolo e al Pincio. Rientrato in redazione feci il racconto della conferenza, passando in rivista tutte le bellezze di Roma che avevo viste e di cui probabilmente quel signore doveva aver fatto l’elenco. Ci vuole una bella impudenza, io pensavo, per parlare a Roma delle bellezze di Roma. Però non lo scrissi. Scrissi invece una pagina di elogi al fine conferenziere, e diedi il nome delle signore intellettuali che erano fra il pubblico. La cosa non mi fu difficile, perché erano sempre le stesse. L’articolo ebbe un successo sbalorditivo, anche perché all’ultimo momento il conferenziere si sentì male e la conferenza venne rinviata di un mese».
Nonostante la sua spiccata propensione all’invenzione scanzonata e al folle rischio (più di una volta fu sul punto di essere linciato dai suoi superiori), Pitigrilli non ebbe mai problemi a dimostrare di essere un preciso e corretto inviato, a tal punto che gli vennero affidati, fin dai suoi esordi, servizi di notevole spessore. Nell’autunno del 1919, Pitigrilli fu a Napoli per seguire l’andamento delle prime elezioni politiche a suffragio universale che si tennero in Italia. E come da copione dalla sua penna ne uscì un saggio godibilissimo e puntuale. «Partii per Napoli e vi rimasi un mese. Scrissi, Dio sa come, trenta articoli stracarichi di colore come dei Van Gogh. “L’Epoca”, di cui prima si vendevano a Napoli tre o quattro copie, salì a centomila. Fu un vero trionfo».
Con il passare del tempo il suo impegno giornalistico iniziò a lasciare sempre più spazio alla narrativa. Ad appena ventisette anni, egli venne inviato quale corrispondente nientemeno che a Parigi, che per un giornalista rampante di oggi sarebbe un po’ come andare a fare un servizio su una delle lune di Giove. Nella viziosa, colta, debosciata e fantasmagorica capitale francese, il giovane scrittore torinese ebbe modo di assaporare tutte quelle trasgressive ed in buona parte fantasiose esperienze che troveremo in seguito nel suo primo e più celebre libro, Cocaina (1920). Romanzo in cui Tito Arnaudi, il protagonista di questa ardita e sensuale fiaba surreale, è proprio un giornalista come lui: atipico, contraddittorio, indagatore e al tempo stesso rassegnato. «Ci si rifugia nel giornalismo come ci si rifugia nel teatro dopo aver fatto i mestieri più disparati e disperati: il prete, il dentista, l’agente di assicurazione». E ancora: «Quanti servi che non parlano ci sono nel giornalismo! Noi non siamo esseri che vivono nella vita. Noi siamo sul margine della vita; dobbiamo sostenere un’opinione che non abbiamo, e imporla al pubblico; trattare questioni che non conosciamo, e volgarizzarle per la platea; noi non possiamo avere un’idea nostra; dobbiamo avere quella del direttore del giornale: ma nemmeno il direttore del massimo giornale ha il diritto di pensare col suo cervello, perché quando è chiamato dal consiglio d’amministrazione deve soffocare la sua opinione, quando ce l’ha, e sostenere quella degli azionisti».
Ma torniamo a parlare della professionalità di Pitigrilli, di quella sorta di innata capacità di coniugare la più assoluta libertà d’espressione al successo di pubblico: una dote che lo rese inviso allo stesso regime fascista. Ridicola, a questo proposito, la vulgata popolare che nell’immediato secondo dopoguerra volle fare di Pitigrilli uno spietato e cinico collaborazionista del regime. A questo proposito giova ricordare che, tra il dicembre del ’26 e il marzo del ’27 due temibili testate – «Il Popolo d’Italia» e «Il Regime Fascista» – avviarono contro il giornalista e scrittore torinese di origine ebraica un’isterica e grottesca campagna denigratoria, accusandolo di essere un anti-italiano, un maniaco sessuale e un cocainomane pederasta. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, il cosiddetto «collaborazionista del regime» Pitigrilli venne perseguitato e costretto ad interrompere la sua attività. E il 10 giugno 1940 fu addirittura mandato al confino di polizia, in un paesino della riviera ligure. Temendo il peggio, Pitigrilli cercò allora di defilarsi, pur continuando a scrivere e a pubblicare i suoi romanzi. Ma anche così facendo proseguì nel procurarsi rinnovati attacchi da parte di tutti gli esponenti di un’Italia che, al di là delle indubbie colpe del regime, evidenziava però i limiti di una vecchia cultura sessuofobica e bigotta.
L’ostentata ammirazione manifestata da Pitigrilli nei confronti della frizzante e cosmopolita cultura francese, oltre che ad irritare gli alfieri di un fascismo proteso alla rivalutazione della romanità, provocò anche forti pruriti moralistici in non pochi intellettuali cattolici e di Sinistra. Ma fu soprattutto il grande, immenso successo commerciale ottenuto dai suoi romanzi e dalle «Grandi Firme» a rendere Pitigrilli, il re dei best-seller piccanti, detestabile tout court. D’altra parte, in una nazione dove sia la cultura social-fascista che quella clericale continuavano bene o male a convivere, impedendo il sorgere di stili letterari affrancati dagli sciatti e provinciali stilemi allora in voga nella cosiddetta narrativa «leggera», non c’era da attendersi nulla di diverso. Ciò che i tromboni della critica proprio non sopportavano di Pitigrilli era il disinvolto anticonformismo stilistico con il quale egli inumidiva la punta della sua penna e, come si è detto, lo strepitoso successo commerciale delle sue iniziative editoriali e dei suoi romanzi. Certo è che a Pitigrilli – uomo gaudente fortemente incline alle spese – il successo e il denaro interessavano parecchio, come pure il consenso dei lettori: «Questo fascicolo ha la pretesa di conquistare il grande pubblico – reciterà l’editoriale del primo numero di «Grandi Firme» –. Per riuscirci userà un solo mezzo: essere divertente. Presenterà novelle dei massimi scrittori, non per lusso e non per feticismo, ma perché essi offrono meno degli altri probabilità di narcosi […] Non miriamo a rigenerare gli uomini, fustigare i tempi, segnare nuovi indirizzi alla civiltà, per mezzo di racconti morali. La letteratura non ha funzione depuratrice, e noi non siamo missionari chiamati a convertire il traviato lettore, né trappisti che ogni quarto d’ora lo riconducano a meditare sulla morte inevitabile. Escluderemo tutto ciò che può avere anche un vago sapore politico. I letterati che fanno della politica sono uggiosi e incompetenti come i politici che fanno della letteratura».
Non stupisce quindi che sia gli intellettuali in orbace che quelli in doppiopetto non potessero nutrire alcuna stima nei confronti del creatore di una simile testata. Manifestando un coraggio che non di rado sconfinava nella temerarietà, Pitigrilli usò «Grandi Firme» come sua privata tribuna dalla quale canzonò gerarchi e critici. Rischiò sempre di persona e di suo (anche dal punto di vista finanziario) per avviare e sostenere le sue spericolate imprese editoriali. Fondò diverse testate, alcune fortunate, altre meno. E senza tema di smentita si può dire che molto raramente nel panorama e nella storia dell’editoria italiana sia possibile annoverare esempi analoghi. Alla creatività e all’intensa produttività di Pitigrilli si deve «Il Dramma» (testata nata negli anni Venti e sopravvissuta, anche dopo il disastro della guerra, fino agli anni Settanta). Curiosamente, di questa creatura del giornalista torinese l’Enciclopedia del Teatro riporta soltanto il nome del suo direttore, Lucio Ridenti, che fu messo al timone della rivista proprio da Segre. Caduti nell’oblio sono anche altri suoi prodotti dai contenuti veramente interessanti, come «Le Grandi Novelle», «La Vispa Teresa» e «Crimen», il primo periodico italiano interamente dedicato al racconto giallo. Meno fortuna ebbe invece «I Vivi», prodotto anticipatore del moderno rotocalco.
Ce n’è abbastanza per sostenere che Pitigrilli, grazie alla sua istintiva vocazione alla comunicazione, seppe rivolgersi ed offrire ad un vasto pubblico non tanto un messaggio o una lezione, ma la suggestione di uno stile di vita sostanzialmente critico e libertario. E tutto ciò in un’epoca caratterizzata da una drammatica e tetra uniformità di pensiero. Dino Segre fu uno dei pionieri della cosiddetta «letteratura popolare», mettendosi in luce come stimolatore di idee e come scopritore di talenti. Parecchi dei quali nel tempo gli sono sopravvissuti, rinnegandolo.
Per sfuggire alla caccia alle streghe del secondo dopoguerra, Pitigrilli visse il tramonto della sua carriera e della sua vita in assoluta solitudine, emarginato dagli stessi pregiudizi che lo avevano perseguitato da giovane e bollato dei più infamanti delitti. Dopo l’epurazione politica del 1945, Dino Segre continuò a lavorare a modo suo, sfornando rubriche ed elzeviri: specialità per la quale riteneva di avere una particolare attitudine: «Se c’è un campo in cui credo di aver scoperto il segreto del successo – confiderà in una delle ultime interviste – è quello della corrispondenza con i lettori. Ecco, io penso di sapere che cosa la gente del popolo si aspetta da queste rubriche. Ho una tecnica per arrivare diritto al cuore di chi legge. E se le lettere che arrivano sono sciocche, non importa, si possono sempre inventare, e saranno proprio le lettere che la maggioranza dei lettori avrebbero voluto avere scritto».
Ma questo suo ultimo impegno non gli fu certo agevole. Convertitosi al Cattolicesimo nel 1948 (con La piscina di Siloe e con Gusto per un mistero Pitigrilli dichiarò pubblicamente questa sua scelta, confermata nella sua autobiografia Pitigrilli parla di Pitigrilli; fondamentali risultano a questo proposito i suoi successivi incontri con Padre Pio da Pietrelcina, Eva Lavallière e con grandi medium dell’epoca) rientra in Europa nel 1957 accompagnato da una nuova raffica di critiche per questa sua scelta.
Nell’Italia del dopoguerra Dino Segre visse come un profugo appestato. Costretto a tirare avanti ai margini di un’editoria libera da vincoli di regime, ma non per questo scevra di pregiudizi. Ormai anziano, Pitigrilli cercò allora di proporsi presso le testate più «politicamente scorrette» del Paese, ma invano. Il sospetto che ch’egli avesse potuto svolgere (come sempre sostennero i suoi detrattori) il fantomatico ruolo di informatore dell’OVRA indusse anche personaggi come Guareschi e perfino Giorgio Almirante a rifiutargli la collaborazione al «Candido» e al «Secolo d’Italia». Obbligato a campare soltanto di piccole collaborazioni, alla fine degli anni Cinquanta egli poté prestare il suo genio e il suo stile, ormai corretti e resi più saggi dal dono della vecchiaia e della fede, al microscopico «Messaggero di Sant’Antonio»: un destino piuttosto curioso (ma forse non troppo) per un intellettuale ribelle che dedicò tutta la sua esistenza al paradosso.
Morirà solo e quasi completamente dimenticato nella sua Torino, l’8 maggio 1975, nella casa di Via Principe Amedeo.
Nota:
Parte dell’articolo è tratto dalla relazione di Fabio Andriola tenuta l’11 agosto 1999 a Madesimo (Sondrio) in occasione del convegno «Stampa e potere – Idee, firme e denaro nel regno dell’informazione».
Opere di Pitigrilli:
Il Natale di Lucillo e Saturnino, Sonzogno, Milano, 1915. Le vicende guerresche di Purillo Purilli bocciato in storia, S. Lattes e C., Torino, 1915. Mammiferi di Lusso, Sonzogno, Milano, 1920. Ingannami bene, Casa Editrice Italia, Milano, 1920. La cintura di castità, Sonzogno, Milano, 1921. Cocaina, Sonzogno, Milano, 1921. Oltraggio al pudore, Sonzogno, Milano, 1922. La Vergine a diciotto carati, Sonzogno, Milano, 1924. In tribunale col pittore Adolfo Magrini, il Dottor Aristide Raimondi ed altri, imputati di oltraggio al pudore a mezzo della stampa, G.G. Rocco Napoli, 1926. L’esperimento di Pott, Sonzogno, Milano, 1929. I vegetariani dell’amore, Sonzogno, Milano, 1929. Le amanti. La decadenza del paradosso, Torino, Edit. Associati-Tip. Salussolia, 1938. Mathesis, Il lotto come si gioca e come si vince, Torino, Ars, s.d. (1930?). La meravigliosa avventura, Sonzogno, Milano, 1948, contiene anche I cani abbaiano, La carovana passa. Lettera a Mario Mariani e a personaggi minori, Saturno, Sonzogno, Milano, 1948. La piscina di Siloe, Sonzogno, Milano, 1948. Mosè e il cavalier Levi, Sonzogno, Milano, 1948. Il farmacista a cavallo, Sonzogno, Milano, 1948. Lezioni d’amore, Sonzogno, Milano, 1948. Confidenze (conferenza), Monza, Tipografia sociale, 1949. Pitigrilli parla di Pitigrilli, Sonzogno, Milano, 1949. Apollinaria. Poemetto. Seguito da cinque novelle, Sonzogno, Milano, 1950. Adamo (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1951. Peperoni dolci, Sonzogno, Milano, 1951. Il sesso degli angioli (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1952. Dizionario antiballistico, Sonzogno, Milano, 1953. La moglie di Putifarre, Sonzogno, Milano, 1953. Gusto per il mistero, Sonzogno, Milano, 1954. Come quando fuori piove, Sonzogno, Milano, 1954. La danza degli scimpanzé (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1955. L’«affaire Susanna» (Short stories e storie in shorts), Sonzogno, Milano, 1955. L’amore ha i giorni contati, Sonzogno, Milano, 1956. Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno, Sonzogno, Milano, 1957. I figli deformano il ventre (Peperoni dolci), Sonzogno, Milano, 1957. L’amore con la O maiuscola, Sonzogno, Milano, 1958. La Maledizione, Napoli, Rocco, 1958. Sacrosanto diritto di fregarsene, Sonzogno, Milano, 1959. Amore a prezzo fesso (Short stories e storie in shorts), Sonzogno, Milano, 1963. I pubblicani e le meretrici, Sonzogno, Milano, 1963. Lo specchio e l’enigma, Padova, EMP, 1964. I Kukukuku, Sonzogno, Milano, 1964. Odor di femmina, Sonzogno, Milano, 1964. Il dito nel ventilatore, Sonzogno, Milano, 1965. La donna di trenta, quaranta, cinquanta, sessant’anni. (Una croce sull’età), Sonzogno, Milano, 1967. La bella e i curculionidi, Sonzogno, Milano, 1967. Queste, coteste e quelle, Sonzogno, Milano, 1968. Amori express, Sonzogno, Milano, 1970. Sette delitti, Sonzogno, Milano, 1971. Nostra signora di Miss Tiff, Napoli, Marotta, 1974.
Riedizioni:
Pitigrilli, Dolicocefala bionda. L’esperimento di Pott (saggio introduttivo di Umberto Eco), Milano, Sonzogno, 1976. Pitigrilli, Cocaina (introduzione di Giorgio De Rienzo), Milano, Mondadori, 1981. Pitigrilli, La piscina di Siloe (prefazione di Elio D’Aurora), Torino, A&C, 1991. Pitigrilli, La piscina di Siloe (prefazione di Vittorio Messori con un saggio di Agostino Gemelli), Milano, Bompiani, maggio 1999. Pitigrilli, Cocaina (con un saggio di Umberto Eco – 1976), Milano, Bompiani, maggio 1999. Pitigrilli, L’esperimento di Pott, Milano, Bompiani, febbraio 2000. Pitigrilli, Mammiferi di lusso, Milano, Bompiani, febbraio 2000.
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