“Nessuna gente di mare soffrì, come l’italiana, delle trasformazioni tecniche della industria dell’armamento navale. Il trapasso dal periodo velico, dal sistema delle carature e dal patriarcalismo armatoriale, alle navi in acciaio, alle società anonime di Navigazione legate alle banche, e alla fase del grande armamento, segnò, non solo una crisi di tonnellaggio e di posizione relativa nella marina mondiale, ma una crisi di spiriti”. Con queste amare ma sincere parole il noto giornalista e scrittore Giovanni Ansaldo descriveva in un articolo apparso nel febbraio 1924 su ‘La Rivoluzione Liberale’ di Piero Gobetti la crisi determinata dal rapido passaggio dalla navigazione a vela a quella motore: crisi che determinò in buona misura il declino della marineria genovese rispetto ai suoi antichi fasti. Per Ansaldo il lupo di mare e l’armatore italiano “fu al suo posto” soltanto a bordo dei velieri, ma non seppe o non volle guardare oltre l’orizzonte tecnologico. Non a caso, già nella seconda metà del XIX secolo, con l’entrata in linea delle prime navi a propulsione mista (elica/vela) e a solo vapore che vanno a sostituire i “brigantini a palo”, le “navi goletta” e i grandi “clipper” genovesi (come il famoso Cosmos commissionato dai fratelli Frassinetti ai Cantieri Cadenaccio), furono infatti pochi gli armatori a comprendere appieno la necessità di stare al passo con i tempi. Molti altri, invece, rimasero drammaticamente ancorati ai vecchi brigantini, imboccando la rotta del fallimento e talvolta quella della tragedia.
Nella fattispecie, tra il 1850 e il 1870 (periodo della rinascita della flotta mercantile nazionale e genovese), gli armatori liguri continuarono ad investire denaro per approntare brigantini di stazza e caratteristiche superiori, capaci di avventurarsi anche in Atlantico, alla ricerca di nuovi impieghi più remunerativi, incluso il commercio degli schiavi. E partire dalla fine del secolo XIX – grazie anche ai sussidi forniti dal Regno d’Italia alle piccole compagnie di navigazione – gli armatori della Lanterna diressero le prore delle loro belle unità verso il Sud America: si stava aprendo, infatti, un nuovo mercato. Spinti dalla necessità, decine di migliaia di emigranti italiani affollavano le banchine del Porto Antico, in attesa di essere traghettati verso i nuovi, esotici lidi di speranza: Montevideo, Buenos Aires e Valparaiso. Il fenomeno dell’emigrazione transoceanica favorì senz’altro la cantieristica specializzata in velieri di stazza sempre maggiore ed aprì sicuramente nuove opportunità imprenditoriali. Ma non contribuì ad innescare – se non in minima parte – il processo di modernizzazione ormai indispensabile per fare fronte alle sfide del mercato internazionale. Si rimase ancora aggrappati alla vela e alle sue nobili ma pericolose tradizioni. Dagli scritti di Ansaldo emerge a proposito di una “cultura che fu”, una sorta di rimpianto, ma anche la consapevolezza dell’errore. “Il mondo, io temo, non vedrà mai più italiani così sani di spirito, così appassionati per il loro mestiere, come gli equipaggi velici di Camogli o di Méta di Sorrento, che ci diedero, senza accorgersene, la seconda marina del mondo. Il ritmo domestico e casalingo dell’armamento velico conferiva singolarmente a sviluppare le qualità solide della nostra razza, impreparata psicologicamente alla produzione capitalistica, al razionalismo economico, alla sconsolata aridità della grande industria. Col sistema delle carature si avevano delle navi che erano delle vere cooperative paesane, perché non soltanto l’armatore, ma il costruttore, il veliere, il tozzellaio, il nostromo, il dispensiere, quei che provvedeva i legni o fabbricava i cavi, vi avevano un interesse diretto”. Non a caso, fino a tutto l’Ottocento, gli statuti della “Mutua Camogliese Ligure” contemplavano che tutti i capitani dei bastimenti assicurati dovessero essere di Camogli o delle frazioni vicine. Tutti dovevano conoscersi, tutti dovevano fare parte di un’unica, grande famiglia. Cosicché, chi rimaneva a terra poteva anche “sorvegliare la fedeltà delle mogli lasciate a casa da chi navigava”. Un’immagine troppo idilliaca? Può darsi. Ma la tradizione non affonda forse le sue radici in una sorta di rimpianto del tempo eroico che fu? Continua Ansaldo: “Ora – rifletteva Ansaldo – “dubito che nessun Consiglio di fabbrica riesca a ridarci qualche cosa che somigli allo spirito della aristocrazia di bassa prua: l’ultima, specialissima forma di aristocrazia manuale, artigianesca, in cui degli italiani abbiano trovato appagamento”. Viene da domandarsi se a ferire l’orgoglio italiano (e ligure) di Ansaldo fosse non tanto la conclamata “incapacità di stare al passo con i tempi” – difetto palesato soprattutto dal comparto amatoriale genovese dell’epoca a cui fa riferimento Ansaldo – ma la consapevolezza di avere smarrito per sempre una tradizione e una filosofia marinare sicuramente démodé, ma rispecchianti ambizioni virili e valori morali superiori e decisamente estranei ad un fenomeno troppo veloce, freddo e frettoloso come quello industriale a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Una cosa sembra comunque certa: guardare al passato serve nelle misura in cui ci si rende conto delle esigenze del presente e delle sfide del futuro.
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