Fino alla fine dell’Ottocento, i viaggi per mare tra il Vecchio e il Nuovo Continente rappresentavano per tutti passeggeri imbarcati su un tre o quattro alberi un’avventura vera e propria: faticosissima, non priva di rischi e soprattutto molto lunga. Un’impresa da ulissidi, che assumeva talvolta i contorni di un vero dramma, soprattutto se a viverla erano semplici e squattrinati emigranti in cerca di fortuna. Prima della fase di imbarco, i pochi che se lo potevano permettere prendevano alloggio nelle luride locande dell’angiporto, mentre gli altri si ammassavano lungo certe banchine o al riparo di qualche capannone. Una volta a bordo, i “passeggeri” finivano, pigiati come sardine e con a presso il loro bagaglio in vasti e bassi dormitori: stanzoni bui e male ventilati dai quali dopo un paio di giorni si levava un fetore pestilenziale. E il viaggio per le Americhe era molto lungo. In condizioni normali, un veloce quattro alberi della seconda metà riusciva a coprire la tratta Genova-Buenos Aires in circa cinquanta giorni, che scendevano a trenta con vento favorevole e costante. Ancora agli inizi del Novecento, i naufragi erano tutt’altro che infrequenti e i loro esiti quasi sempre fatali. A causare l’affondamento di un veliero non era sempre la furia dei marosi, ma molto più spesso la negligenza umana. Gli incendi, provocati ad esempio dalle stufe sulle quali gli emigranti cuocevano i loro frugali pasti, causarono più di un disastro. Durante le traversate, la cronica mancanza di spazio, la promiscuità, il vociare e l’intimo parlottare conferivano ai velieri le sembianze di un microscopico villaggio beccheggiate e in preda al mal di mare. Cosa più che normale dal momento che i quattro alberi della seconda metà del XIX secolo ben raramente arrivavano a stazzare 3.000 tonnellate. Si trattava insomma di piccoli scafi, seppure robusti, filanti e splendidi a vedersi, sui quali venivano imbarcati dai 400 fino ai 1.000 passeggeri: carico che equivarrebbe oggi, nel caso di una moderna nave passeggeri, a circa 10/12.000 persone. Immaginiamo ora di scendere in una “terza” classe di un quattro alberi per dare un’occhiata. Nella luce incerta delle lampade ad olio si intravede nel mezzo un passaggio largo circa un metro e cinquanta. Il pavimento è umido e cosparso di sacchi di iuta e bagagli d’ogni tipo. Agli estremi del corridoio un drappello di topi ci segnala la presenza dei “bagni” riservati alle donne (gli uomini i loro bisogni li devono fare all’aria aperta, lungo il bordo, abbarbicati alle cime per non volare in acqua). Ai lati del corridoio centrale notiamo a stento due lunghe file di rustiche cuccette in legno, lunghe un metro e cinquanta e larghe mezzo. Nessun passeggero ne possiede una. Per tutta la durata del viaggio, ogni lettino serve a rotazione da giaciglio e dimora a sei, dieci inquilini. A turno si va infatti sul ponte, a respirare il vento, a bere un goccio o a fumare una manciata di tabacco, posto naturalmente che il capitano sia un tipo generoso. Ma se il tempo è cattivo e il mare grosso, tutti sotto coperta, spesso per giorni interi. A bordo dei velieri della seconda metà del XIX secolo non esistevano spacci e quindi si dipendeva esclusivamente dalla cambusa, anche perché le provviste che ognuno portava con sé non duravano che pochi giorni. Ogni individuo riceveva la sua razione giornaliera d’acqua, con l’aggiunta di dosi, via via sempre più abbondanti, di aceto per smorzarne l’odore nauseabondo. Poi c’era la zuppa, la sardina e qualche pagnotta. Non di rado, alcuni capitani mentivano agli emigranti circa la durata del viaggio per speculare e per mettere all’asta un cosciotto di carne salata o qualche botticella di acquavite. Il risultato della scarsa alimentazione e soprattutto delle pessime condizioni igieniche assumeva diversi, sinistri nomi: dissenteria, colera, vaiolo, morbillo e più frequentemente “febbre da porti”: patologia tipica di quei tempi d’avventura, cioè imperscrutabile, non di rado fatale e comunque tale da fare finire la nave, una volta giunta in porto, dritta spedita in quarantena. Non sempre, tuttavia, la situazione di bordo era così tragica come ci viene dipinta da certi testi. Se il tempo era buono e il comandante in gamba (e sobrio), l’emigrante aveva buone possibilità di arrivare vivo in Argentina o chissà dove. I casi di epidemia, come quello verificatosi sul veliero britannico April – che su 1.100 emigranti tedeschi ne perse 500 proprio per malattia – erano in effetti abbastanza rari. Tra il 1855 e il 1895, i diari di bordo genovesi raccontano che la mortalità media su un tre o quattro alberi transoceanico risultava di appena il 5 per cento. Percentuale comunque sufficiente per indurre gli emigranti più avveduti a fare testamenti, spesso simbolici, prima dire addio alla propria ingrata terra.
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