L’11 novembre 1961, nella ex colonia belga del Congo, tredici aviatori italiani del contingente ONU furono massacrati. Oggi, quel tragico evento sembra essere stato cancellato dai cambiamenti geopolitici, e da battute poco felici…
Fra l’11 e il 12 novembre 1961, nei pressi di Kindu, nella ex colonia del Congo belga, furono trucidati 13 militari italiani (equipaggi degli aerei C-119 Lyra e Lupo-33, 46a Aerobrigata di Pisa) parte del Contingente ONU, inviato per ristabilire ordine e sicurezza. Dopo la dichiarazione di indipendenza del giugno 1960, il Paese africano è preda del caos totale, sia a livello amministrativo che soprattutto politico, anche a causa del risvegliarsi delle rivalità tribali, fomentate dai diversi interessi di multinazionali estere, e soprattutto per accaparrarsi i proventi dell’estrazione di preziose risorse minerarie, specialmente nella regione separatista del Katanga.
In breve, si delineano tre fronti in lotta fra loro: quella del presidente in carica, Joseph Kasavubu (1915-1969), con autorità sulle truppe regolari del comandante in capo dell’esercito, generale Mobutu Sese Seko (1930-1997), che controllava la parte occidentale del Paese; quella capeggiata da Antoine Gizenga, legato alle idee di Patrice Lumumba (1925-1961) e con le truppe del generale Victor Lundula (1910-2001) sostenute da Mosca, nella parte orientale; e quella di Moises Tchombe (1919-1969), con milizie mercenarie soprattutto belghe e altri reparti di mercenari bianchi.
Dall’anno precedente, 1960, il Congo era devastato da una sanguinosa guerra civile, soprattutto a causa della secessione del Katanga e dell’attentato costato la vita all’ex primo ministro Patrice Lumumba, che aveva tentato di escludere ogni influenza esterna sul Paese ed era stato ucciso per ordine del leader katanghese Tchombe, segretamente d’accordo con il generale Mobutu, il quale seguiva un suo personale progetto che lo avrebbe portato al potere assoluto per circa 40 anni.
La guerra aveva raggiunto limiti preoccupanti, e fu per questo che l’ONU decise la missione di pace dei Caschi Blu, denominata operazione ONUC.
A peggiorare la situazione, la fragile alleanza interna si spaccò e, il 5 settembre, Kasavubu licenziò Lumumba, il quale, a sua volta, voleva le dimissioni del presidente. Il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito, generale Mobutu, approfittò della situazione e attuò un’ulteriore rivolta prendendo il potere ed espellendo dal Paese ogni rappresentante del blocco sovietico. Nel frattempo, Lumumba fu arrestato e consegnato ai propri nemici, i separatisti del Katanga, dai quali sarebbe stato torturato e assassinato, e il governatore del Katanga, Tchombe, per sostenere la propria guerra, arruolava mercenari provenienti da ogni Paese, fra cui molti europei, fino a formare un esercito piccolo ma ben addestrato e determinato.
Gli equipaggi italiani
I membri della spedizione italiana operavano in Congo da circa un anno, con fine missione prevista per il 23 novembre ’61. I due aerei Lyra e Lupo svolgevano servizio di collegamento interno e l’11 novembre ’61 decollarono da Leopoldville per portare rifornimenti al contingente di Caschi Blu fornito dalla Malesia e assegnato al presidio dell’aeroporto di Kindu, ai confini della foresta equatoriale, territorio da diversi mesi preda di razzie e violenze tribali e dalle scorribande di truppe provenienti da Stanleyville e dirette in Katanga.
La situazione era di estrema tensione, ed era già costata la vita a un altro italiano, Raffaele Soru, operatore della Croce Rossa, per cui gli aerei avrebbero dovuto atterrare a Kindu e trattenersi solo il tempo necessario allo sbarco dei materiali. Era il primo pomeriggio quando i due C-119 atterrarono, mentre nella vicina cittadina vi era un’atmosfera molto più tesa del solito, perché fra i circa duemila uomini delle truppe provenienti da Stanleyville, circolava la notizia secondo cui era imminente un attacco di paracadutisti inviati da Moises Tchombe, con l’obiettivo di eliminare la resistenza, mentre altre formazioni aeree bombardavano la zona sotto l’autorità di Antoine Gizenga, circa 500 km più a sud.
I velivoli italiani furono probabilmente scambiati per quelli katanghesi con a bordo i temuti paracadutisti, e ciò scatenò la furia dei soldati locali: in centinaia si diressero velocemente all’aeroporto di Kindu, dov’erano appena atterrati gli italiani (disarmati), comandati dal maggiore Amedeo Parmeggiani, che nel frattempo si erano riuniti nella mensa del campo di volo, a circa un chilometro dalla pista, insieme a una decina di ufficiali del presidio ONU malese comandato dal maggiore Maud.
Erano circa le 15.15 quando i militari congolesi fecero irruzione alla mensa. Italiani e malesi si barricarono, ma una ottantina di uomini riuscì a entrare. Gli italiani, creduti paracadutisti katanghesi, furono duramente malmenati e, nella confusione, il tenente medico Paolo Remotti riuscì a fuggire da una finestra, ma fu raggiunto e ucciso sul posto.
Poco dopo, giunsero altri 300 miliziani, guidati da un tale colonnello Alphonse Pakassa, comandante del presidio congolese, il quale ordinò il trasferimento dei prigionieri nella prigione di Kindu. Alcune ore dopo, all’aeroporto atterrò un altro aereo, proveniente da Leopoldville, con il generale Lundula e alcuni responsabili della missione ONUC, per trattare la liberazione degli ostaggi, ma ogni tentativo fallì, e fu allora che Lundula si convinse che i comandanti congolesi avevano perso ogni autorità sui propri uomini.
Quella stessa notte, un gruppo di miliziani fece irruzione nella prigione dove si trovavano gli italiani e, dopo averli accusati di fornire armi ai secessionisti del Katanga, li uccisero sommariamente a raffiche di mitra. Per evitare lo scempio dei cadaveri, macabra abitudine locale, alcuni uomini spostarono i corpi fuori città e li seppellirono in una fossa comune. Nel frattempo, venne diffusa la notizia che i soldati ONU, in volo verso il Katanga, fossero stati ingannati e costretti ad atterrare, con un pretesto, dagli operatori della torre di controllo. Il giornalista Alberto Ronchey (“La Stampa”) constatò che la torre di controllo non era funzionante da diverse settimane prima del fatto. Questa la versione ufficiale dei fatti che portarono al massacro di Kindu.
Per diversi giorni non si seppe più nulla di quanto accaduto, e lo stesso comando ONU manifestò un sorprendente atteggiamento attendista, per non scatenare rappresaglie contro gli aviatori italiani, senza sapere che questi erano già morti. Dopo un paio di mesi, il comandante della guardia della prigione contattò due italiani residenti nella zona di Kindu, i fratelli Arcidiacono, i quali contattarono i responsabili ONUC e, dopo una ricostruzione della tragedia, fu disposto il recupero delle salme.
Solo nel febbraio ’62 giunse in Congo una spedizione della Croce Rossa austriaca con la protezione di un contingente di Caschi Blu etiopi e due ufficiali della 46a Aerobrigata italiana (tenente colonnello Picone e maggiore Poggi) alla quale appartenevano i militari uccisi. La fossa comune venne localizzata nei pressi del cimitero del villaggio di Tokolote e i resti dei militari rinvenuti ancora in discreto stato di conservazione grazie all’argilla presente nel terreno, cosa che permise una accurata identificazione. Trasportati all’aeroporto di Kindu, furono imbarcati su un C-119, portati prima a Leopoldville e quindi, con un Hercules C-130 della US-Air Force, fatti rientrare in Italia. Negli stessi giorni era in corso una offensiva dell’esercito congolese contro i separatisti di Stanleyville, a loro volta in contrasto con quelli del Katanga, durante la quale il primo ministro Antoine Gizenga fu fatto prigioniero.
In Italia si svolsero i funerali degli equipaggi del C-119 MM52-6002 “Lyra-5” (maggiore pilota comandante Amedeo Parmeggiani, sottotenente Onorio De Luca, tenente medico Francesco Paolo Remotti, maresciallo Nazzareno Quadrumani, sergente maggiore Silvestro Possenti, i sergenti Martano Marcacci, Francesco Paga) e del C-119 MM51-6049 “Lupo-33” (capitano Giorgio Gonelli, sottotenente Giulio Garbati, maresciallo Filippo Di Giovanni, 42 anni, sergenti maggiori Nicola Stigliani, Armando Fabi e Antonio Mamone). Le salme furono tumulate nel sacrario dedicato, all’aeroporto di Pisa, e venne riconosciuta la concessione della medaglia d’oro al Valore Militare alla Memoria, anche se solo nel 2007 i parenti delle vittime ottennero una legge sul risarcimento, ma mai alcuna risposta in merito a una dettagliata interrogazione parlamentare pubblica. La tragedia è ricordata anche da monumenti, targhe e vie dedicate, all’aeroporto Da Vinci di Fiumicino, Camaiore Lido, Milano e in diverse altre città italiane. In segno di rispetto, il personale di volo Alitalia chiese e ottenne di adottare la cravatta nera.
Dubbi, verità altre vittime e testimonianze
Rimangono ancora oggi non pochi dubbi sulle circostanze in cui si svolsero le uccisioni alla prigione di Kindu. Soprattutto il fatto che i guerriglieri congolesi avessero o meno riconosciuto gli aviatori italiani, i quali avevano stemmi, gradi e bandiera nazionale sulle uniformi, per cui perfettamente riconoscibili. Esistono poi testimonianze secondo le quali il massacro sarebbe avvenuto alla presenza, e con la partecipazione, di diversi civili. Altrettante voci raccontarono l’accanimento sui corpi dei militari italiani ma, secondo le procedure legali per la ricostruzione, in seguito al ritrovamento dei corpi, i verbali ufficiali smentiscono questa versione, e parecchi dettagli a dir poco raccapriccianti.
Veloce, come da costume, fu poi la strumentalizzazione dal punto di vista politico e diplomatico. Ugo la Malfa (1903-1979) interpretò l’accaduto come espressione del fanatismo ideologico, capace di eccessi indescrivibili e in ogni Paese del mondo; Alfredo Covelli del Partito Monarchico (1914-1998) chiese addirittura un provvedimento della comunità internazionale e dell’ONU che imponesse al Congo una amministrazione fiduciaria con rinuncia allo stato di indipendenza. Il socialista Giovanni Pieraccini (1918-2017) denunciò lo sfruttamento della tragedia come manovra reazionaria, per creare squilibrio in una zona di particolare interesse per le multinazionali occidentali, che avrebbero avuto il fine di amministrare direttamente i governi locali.
Tutto il clamore fece inoltre passare in secondo piano la morte di altri funzionari italiani durante le missioni in Congo, anche se non per episodi di odio razziale, culturale o religioso, ma per un incidente in fase di decollo: il C-119 MM52-6011 “Lyra-15” si schiantò all’aeroporto di Lualabourg il 15 febbraio dello stesso 1961, con il capitano Sergio Celli, il tenente Radio Giorgi, e l’aviere Italo Quadrini. Inoltre, il C-119 MM52-614 “Lyra-10” fu costretto a un rovinoso atterraggio di fortuna nei pressi di Kakungwi, sul lago Tanganica, il 7 novembre dello stesso anno. Nella tragedia morirono il capitano pilota Elio Nisi, 29 anni, i marescialli Giovanni de Risi, Tommaso Fondi e Giuseppe Saglimbeni. Nel settembre ’61 era morto anche Raffaele Soru, caporale della Croce Rossa Militare, in seguito alle ferite riportate durante un attacco contro l’Ospedale Militare ONU n.10 di Albertville da parte di gruppi armati che facevano capo al già citato colonnello Pakassa, in un Paese preda di massacri altrettanto raccapriccianti, fra le milizie che dipendevano dal tristemente celebre Patrice Lumumba e dal crudele Mobutu, il quale alla fine della lotta avrebbe conquistato la presidenza. Alle spalle, come si può immaginare, gli interessi di multinazionali e governi di diversi Paesi. I due blocchi, USA e URSS, si affrontavano in una guerra economica e segreta: i primi sostenevano Mobutu, i secondi Lumumba.
Come avvenne per altri casi del genere, con caratteristiche peculiari per ognuno, le notizie che giungevano in Italia dal Congo furono inizialmente frammentarie e confuse. Solo cinque giorni dopo, i giornali annunciarono che, date le condizioni estremamente instabili del Paese africano, sarebbe stato estremamente difficile localizzare dove fossero stati sepolti i corpi. I responsabili diretti o meno, cercarono di guadagnare tempo, nella speranza che non fossero stati compiuti atti di ben poco piacevole accanimento, da parte della popolazione aizzata alla violenza e quindi inferocita, in una sorta di scontro tutti-contro-tutti. Si parlò anche di probabile scempio da parte di coccodrilli, e di smembramento dei cadaveri a scopi di cannibalismo, pratiche di magia nera o per confezionare i “Dawa” (amuleti e talismani con ossa umane trattate). Alcuni testimoni ricordarono i miliziani congolesi gridare “Egorgez les cochons!” (sgozzate quei porci), altri dissero che gli aviatori italiani furono linciati a calci, pugni e bastonate, per poi passare al machete e alla mannaia, in mezzo alle strade del villaggio. In campo entrarono anche dicerie popolari, come quella che al mercato nero fosse possibile comprare “carne di bianco” per 10 Franchi al chilo.
Non sono pochi quelli che, ancora oggi, sostengono esistano dubbi sul vero motivo dell’eccidio di Kindu, anche se l’ipotesi più accreditata resta lo scambio di identità con i paracadutisti katanghesi o i mercenari belgi.
Fra una versione e un’altra, trascorsero circa tre mesi finché, nel febbraio ’62, giunse la notizia dei tredici corpi ritrovati in una fossa comune, grazie all’intervento di un agente della polizia congolese, un cattolico di nome Amisi N’Gombe. Nel marzo seguente, il cappellano militare della 46a Brigata Aerea, Emireno Masetto, accoglieva le salme dei tredici militari all’aeroporto di Pisa (dalla base libica di Wheelus), celebrando il funerale alla presenza del presidente della Repubblica, Antonio Segni (1891-1972).
Le indagini proseguirono, e la Commissione Speciale dell’ONU giunse a denunciare il colonnello Alphonse Pakassa come regista e responsabile diretto del massacro di Kindu. Dopo l’arresto, Pakassa trascorse alcuni mesi in carcere in attesa del processo che non si aprì mai, e alla fine venne scarcerato nel 1963. Nuovamente arrestato, a Parigi, fu trattenuto in attesa della mai accolta richiesta di estradizione da parte di Italia e Congo. In sostanza, un massacro rimasto senza colpevoli e senza giustizia e, ancora peggio, quasi dimenticato.
Lo Stato italiano ha riconosciuto la strage di Kindu come episodio terroristico solo nel 2007, quando era già successo un altro triste avvenimento, a Nassiriya, in Iraq. Un altro massacro annunciato, anche questo senza colpevoli e senza giustizia, oltre al maresciallo dei Carabinieri, Riccardo Saccotelli, scampato alla strage, il quale rifiutò la medaglia al valore, giudicandola un insulto alla propria dignità.
Da non dimenticare lo sfondo su cui si svolse la tragedia di Kiindu, la confusione di un processo politico troppo rapido e con troppi elementi e altrettanti interessi in gioco: l’indipendenza del giugno 1960, l’instabilità generale, la crisi economica, la povertà diffusa e i signori della guerra, la secessione del ricchissimo Katanga, l’assassinio di Patrice Lumumba (17 febbraio ’61), la lotta per il potere fra Joseph Kasavubu, Antoine Gizenga, Moises Tchombe, la totale impreparazione e incapacità dell’ONU, con la morte del segretario generale Dag Hammarskjold.
A questo punto, una domanda. Come scritto in precedenza, alcuni testimoni affermarono con certezza che i corpi degli aviatori italiani furono oggetto di atti di atroce accanimento. I cosiddetti “complottisti” pongono quindi dubbi su cosa contenessero le bare con il tricolore giunte a Pisa per le procedure autoptiche e di riconoscimento. Esisterebbe il fondato dubbio che le autorità italiane non ebbero il coraggio di ammettere pubblicamente atti di cannibalismo e brutalità sui cadaveri da parte delle tribù Kyenge, come il regalo nuziale per le nozze della figlia di un capo tribù: una “gamba di carne bianca avvolta in foglie di banano”. Dubbi anche sul fatto che i resti degli aviatori italiani fossero stati sepolti non in una ma in due fosse comuni, e che siano esistite altre versioni, come quella che descrive il linciaggio e lo smembramento dei corpi, fino alla loro dispersione nel fiume, dove si aggiravano i coccodrilli.
Fra i diversi resoconti e testimonianze, quella di Antoine L’Hongrois, il cui nome forse non dirà molto al grande pubblico. Si tratta di una copertura, un nome di battaglia per celare la propria identità, di uno dei prototipi del soldato di ventura: è italiano e ha combattuto in Centro Africa dal 1963 al ’69, insieme a figure tipo Bob Denard e altri celebri mercenari. La verità sui fatti di Kindu sarebbe ancora più atroce: “Eravamo in un DC-8, eravamo venti uomini, con armamento trasportabile. Due caccia ci hanno scortati fino all’atterraggio a Kindu. Era il ’64…da quelle parti c’era una tradizione antica di cannibalismo, che però recentemente aveva ripreso a dare fastidio. Gente del luogo spariva misteriosamente e anche i bianchi cominciavano a sentirsi poco sicuri. Mobutu aveva incaricato Denard di occuparsi del problema e io, che avevo sentito voci terribili sul massacro di Kindu, chiesi subito di far parte della spedizione. Anche se ero la sua guardia del corpo e dovevo stare al suo fianco, Denard mi accontentò. Appena arrivato mi misi a cercare i testimoni dell’eccidio. Mi dissero che c’era un prete, che aveva visto tutto. Lo trovai, dimostrava quasi 60 anni, stava male. Mi disse che quando all’aeroporto si resero conto dell’equivoco, ormai gli animi erano sovreccitati e nessuno riuscì più a fermare la violenza. Gli italiani non poterono opporre la minima resistenza, Vennero picchiati a sangue, portati in giro come dei trofei, legati, fustati, martoriati, e i loro corpi straziati a colpi di mannaia e machete…Successe anche dell’altro, pare che almeno uno fra i militari italiani, sia stato letteralmente fatto a pezzi, bollito e divorato…”.
“’Namo, se no ce se magnano pure a noi…!”
La notizia della strage di Kindu fece il giro del mondo, suscitando la pubblica condanna del crimine. L’URSS, che aveva e ha notevoli interesso in Congo, diede la parola ai propri rappresentanti all’ONU, i quali accusarono le potenze colonialiste occidentali di volere ostacolare il naturale percorso politico del Congo, e di avere a tale scopo orchestrato diversi crimini, fra cui quello di Kindu. Mosca si opponeva, in sede ONU, a qualunque tentativo di negoziato, alla fazione separatista rappresentata da Moises Tchombe, nonché alla riorganizzazione dell’esercito locale, tanto meno avvallava la proposta di un intervento armato della stessa ONU. La delegazione sovietica affermò di essere sempre aperta a votare la Risoluzione Afro-Asiatica per l’adozione delle misure necessarie al fine di espellere dal Congo tutte le truppe mercenarie e gli eserciti personali che si stavano combattendo (vi fu poi una vera e propria sommossa definita “dei mercenari”), in una feroce critica alle autorità di Belgio (nemmeno tanto ingiustificata), Gran Bretagna e Stati Uniti, che volevano stornare l’attenzione dalla preoccupante situazione in Katanga.
A questo punto, la questione era di rilievo internazionale, e non a caso il governo italiano incaricò la figura più adatta a trattare, il ministro della Difesa che in quel periodo era Giulio Andreotti, il quale volò a Leopoldsville nel novembre ’61, accompagnato dal generale Remondino (capo di stato maggiore dell’Aeronautica) e dal sottosegretario alla Difesa, Italo Caiati. Esistono diverse immagini dell’evento. A ricevere la delegazione italiana, il generale Mobutu, capo di stato maggiore dell’esercito congolese, con il proprio seguito. Andreotti incontrò il generale Sture Linner (capo-operazioni del contingente ONU), e da lui avrebbe appreso di quanto era avvenuto a Kindu. Qui i primi dubbi: il ministro della Difesa e il capo di stato maggiore dell’Aeronautica (guardacaso), giungono in Congo per chissà quale altro motivo che non fosse un’inchiesta ufficiale, la consegna dei responsabili e la restituzione dei corpi delle vittime, da discutere con eventuali aggiunte e accordi ufficiosi. Fu probabilmente per questo che Andreotti, in costante contatto con il presidente Segni, ebbe anche un colloquio riservato con il primo ministro.
A giudicare dai successivi avvenimenti, il ministro della Difesa italiano non costituì un problema particolare per la sbrigativa e “determinata” diplomazia congolese. Le richieste di identificare e assicurare alla giustizia gli autori della strage, rimasero cronaca e nient’altro, così come quelle per la restituzione dei corpi. Come risposta, il governo locale criticò il piano ONU per il disarmo della guarnigione di Kindu, linea avanzata essenziale con i separatisti del Katanga. Inoltre, in merito all’affare Kindu, non sarebbero stati proposti rappresentanti del Congo per la Commissione d’Inchiesta, dal momento che il ministro dell’Interno in persona, Christophe Gbenge, aveva svolto investigazioni dirette e appurato che l’ONU aveva impedito che i colpevoli della strage, identificati e fermati, fossero trasferiti in volo da Kindua Stanleyville per essere processati e puniti. Alcune fonti anonime, all’ONU, avrebbero confermato tale versione, che si collocherebbe nei diversi piani delle Nazioni Unite, lautamente finanziati da budget miliardari, per l’organizzazione di forniture mediche, alimentari e di altro tipo, in cambio di favori e concessioni, magari per i Paesi stranieri i cui membri costituivano il Consiglio di Sicurezza.
Era poi stato annunciato che il comandante del contingente etiope nel Congo orientale, aveva assunto il comando del contingente dei Caschi Blu in sostituzione di quello malese a Kindu e, successivamente, i più importanti giornali africani riportarono pesanti critiche all’ONU per la modifica alla linea politica circa l’impiego di forze internazionali.
L’iniziativa di Andreotti in Congo ebbe risvolti tragici e al tempo stesso grotteschi. Gli incontri avuti con ufficiali dell’ONU, ministri del governo e personale vario, non ebbero alcun effetto: nessuno si addossava la responsabilità di restituire i corpi o fornire un rapporto ufficiale sulle indagini che portasse all’arresto dei colpevoli. Il sottosegretario Italo Caiati ricordò in seguito, che le autorità del Congo riferirono di seguire diverse piste, fra cui quella del traffico clandestino di medicinali, alimentari e materiali di supporto, che poteva essere il movente di una rapina finita in tragedia. Tutti elementi che dovevano costituire un dettagliato dossier, ordinato espressamente dal presidente della Repubblica, Antonio Segni, alla missione Andreotti, mai redatto e tanto meno consegnato. Alcune fonti non ufficiali riferirono che sarebbe stato un elemento per bilanciare una non meglio definita trattativa per la continuazione della vendita di materiale sanitario, alimentari, infrastrutture, e armamenti, al Congo, ottenendo un trattamento di favore. Di questo, però, non esistono prove di fatto, ma solo supposizioni e deduzioni, basate però su fatti fondati e accertati, e per questo tessere la cui forma ben si adatta a quelle mancanti, nel mosaico africano. Il condizionale è comunque d’obbligo.
Italo Caiati evidenziò, a sua volta, diverse versioni della strage di Kindu, e soprattutto la difficoltà nell’ottenere la restituzione dei corpi. Fatto già esposto, per la necessità di guadagnare tempo, in quanto venne appurato che non si avevano tracce di due dei militari italiani, oltre alla necessità di ricomporre altri resti. Pare che i due militari mancanti all’appello, siano stati uccisi, smembrati e letteralmente divorati in qualche angolo della foresta. Da qui la ben poco felice battuta dell’onorevole ministro della Difesa, il quale, al sentire dell’atto di cannibalismo, di fronte all’ordine di rientrare comunicato direttamente dalla Presidenza della Repubblica, e con in mano un pugno di mosche congolesi, si sarebbe lasciato scappare: “…’Namo via, se no ce se magnano pure a noi!”.
La farsa dell’ONU
Altri dubbi sorgono poi in merito all’efficienza dell’aereo C-119 per l’impiego a cui era destinato in Congo, e all’altrettanto poco zelante impegno profuso dall’ONU.
A New York, il 20 settembre 1960 si riunirono presidenti e ministri di 25 paesi, fra cui Eisenhower, l’inglese MacMillan, l’indiano Nehru, Fidel Castro, Krushev, per cercare una soluzione alla crisi africana. L’URSS continuava ad accusare il segretario generale ONU, Dag Hammarskjold di essere manovrato dalle potenze capitaliste, ma il segretario venne confermato alla guida dell’ONU.
La situazione in Congo, intanto, andava peggiorando di giorno in giorno, nonostante si fosse formata una nuova coalizione governativa a Leopoldville, nella quale erano rappresentate tutte le parti in causa ad eccezione dei separatisti katanghesi, le cui aspirazioni erano in parte sostenute, per interesse, da Belgio, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e dalla vicina Rhodesia.
Nell’agosto 1961 Hammarskjold autorizzò i soldati dell’ONU a dare inizio al rastrellamento dei mercenari europei del Katanga e alla conquista di Elisabethville, città principale. La decisione causò aspre critiche nei confronti di Hammarskjold da parte di molti governi occidentali e degli USA, con l’accusa di filo-comunismo. Nel successivo settembre il segretario generale decide di recarsi personalmente in Congo ma arrivò quando fra le truppe ONU e l’esercito mercenario del Katanga era già guerra aperta.
Davanti alla disastrosa situazione, Tchombe si rifugiò nella vicina Rhodesia settentrionale e Hammarskjold si offrì di incontrarlo di persona nella cittadina di Ndola, sul confine con il Katanga.
Il diplomatico inglese Lord Landsdowne, collaboratore di Hammarskjold, fu inviato in avanscoperta per organizzare l’incontro, mentre al segretario generale fu riservato il veloce DC-6B “Albertina”, che stranamente era rimasto oltre quattro ore incustodito sulla pista prima del decollo per andare a prelevare il segretario ONU e gli otto accompagnatori. Ironia della sorte, l’aereo decollò con i passeggeri alle ore 17.00 del 17 settembre, con un piano di volo che prevedeva di evitare il Katanga passando ad est, sopra il lago Tanganica, quindi a sud, verso la Rhodesia settentrionale.
La cronaca termina qui: dopo aver riportato la errata notizia dell’avvenuto incontro, il “New York Times” pubblicò l’annuncio della avvenuta morte del Segretario dell’ONU per un incidente aereo, il 18 settembre 1961.
La dinamica del disastro è quantomeno strana: l’aereo era giunto in vista della pista di Ndola a mezzanotte e dieci minuti del 18 settembre e, dopo aver dato inizio alle manovre di avvicinamento, da un’altezza di circa 600 metri, scompare dagli schermi radar. I rottami dell’aereo e i resti dei passeggeri e dell’equipaggio (14 persone in totale) sono ritrovati il pomeriggio successivo a circa 15Km a ovest dell’aeroporto. L’unico superstite, l’agente della sicurezza ONU Harry Julien, muore cinque giorni dopo per le ferite riportate.
Non erano pochi quelli che avevano aspramente criticato Hammarskjold, e fra essi i padroni britannici della Rhodesia settentrionale (oggi Zambia), che consideravano Tchombe il simbolo del nazionalismo africano contro l’espansione comunista.
L’inchiesta dell’ONU arrivò alla conclusione che non vi erano prove di sabotaggio o di attacco esterno e le testimonianze di alcuni indigeni non sono prese in considerazione perché dichiarate non attendibili, nonostante avessero riferito di aver visto chiaramente un piccolo aereo che ne inseguiva uno più grande, il quale sarebbe precipitato dopo un attacco con armi da fuoco. Un mese più tardi Hammarskjold viene insignito del Premio Nobel per la Pace alla Memoria.
Per anni si è speculato sulle possibili cause dell’incidente ma, recentemente, alcuni documenti provenienti dal Sudafrica danno forza ai sospetti di un attentato, ordito dai servizi segreti di Gran Bretagna, Stati Uniti e del regime del Sudafrica. La mediazione nella quale Hammarskjold era impegnato, si era scontrata con interessi molto potenti.
Quello di Dag Hammarskjold non è stato, d’altra parte, un caso isolato: nel 1986 Samora Machel, presidente del Mozambico, muore in un disastro aereo nel quale si sospetta un forte coinvolgimento dei servizi segreti sudafricani; il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggiano Juvenal Habyarimana, presidente del Rwanda, e Cyrpien Ntaryamira, presidente del Burundi, fu attaccato e abbattuto sopra Kigali, con missili di fabbricazione sovietica SAM-16, probabilmente lanciati da aerei decollati dall’Uganda.
Forte della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n. 145 del 22 luglio 1960 che riconosceva e garantiva l’integrità territoriale del Congo, Lumumba richiese che le truppe della ONUC fossero immediatamente impiegate contro i regimi secessionisti, mentre il segretario generale Hammarskjold si dimostrò restio a far coinvolgere i Caschi Blu in quella che considerava una questione interna congolese: reparti ONU furono dislocati nelle zone strategiche del Katanga (tra cui la capitale Elisabethville, raggiunta da un contingente svedese il 12 agosto) ma fecero poco per contrastare la secessione della regione, cercando di rimanere estranei ai combattimenti in corso.
Lumumba si rivolse ufficialmente all’Unione Sovietica perché fornisse assistenza militare al Congo, trovando la risposta positiva del governo di Mosca.
Il colpo di stato di Mobutu provocò la reazione dei fedelissimi di Lumumba: il vice-primo ministro Antoine Gizenga formò subito una Repubblica libera del Congo a Stanleyville, prendendo il controllo delle regioni orientali del paese grazie a reparti ammutinati dello ANC. Il 27 novembre 1960 Lumumba evase dagli arresti domiciliari e cercò di raggiungere Stanleyville, ma il 1º dicembre fu ricatturato a Port-Francqui da militari fedeli a Mobutu; l’ex primo ministro fu riportato a Léopoldville, mentre un tentativo, promosso dai sovietici, di far approvare una risoluzione ONU contro il colpo di stato e il suo arresto si risolse in nulla. Il 17 gennaio 1961 Lumumba e due ministri del suo governo (Maurice Mpolo e Joseph Okito) furono portati a Elisabethville, capitale del Katanga: picchiati e torturati dai gendarmi katanghesi, i tre furono fucilati quella notte stessa su ordine di Ciombe[28]; la notizia della morte dell’ex primo ministro fu resa pubblica solo tre settimane più tardi, quando la radio katanghese annunciò la sua uccisione durante un tentativo di fuga. Per la fine del 1960 il Congo era andato incontro a una totale disgregazione territoriale e politica.
Dalla dichiarazione di indipendenza del 1960, il Congo rimane potenzialmente instabile ancora oggi. Il rapporto della Missione di Stabilizzazione, riferito al Consiglio di Sicurezza ONU, ancora nel 2013 riferiva di condizioni non ancora definibili sicure e modesto progressi. Ci si aspettava che in qualche modo mantenesse la pace, in una costante guerra per le risorse. Nel 2013, però, allorché la milizia M23 stava devastando le province del Nord e Sud Kivu, il gruppo di esperti ONU sulla Repubblica Democratica del Congo (RDC) riferì che l’M23 rispondeva al comando del ministro della Difesa rwandese James Kabarebe, che ovviamente rispondeva al presidente rwandese Paul Kagame. Nell’M23 c’erano fazioni in concorrenza, e alcuni dei loro ufficiali rispondevano ad alti gradi militari ugandesi, che ovviamente rispondevano al presidente ugandese Yoweri Museveni. Ciò rendeva le guerre d’aggressione di Rwanda e Uganda così ovvie che l’UNSC finalmente si sentì obbligato a fare quel che lo Statuto ONU lo costringe a fare: organizzare un intervento militare ONU per fermare le milizie rwandesi e ugandesi. La Brigata d’Intervento della Forza ONU, composta di truppe tanzaniane, sudafricane e malawiane, è stata la prima missione ONU di peacekeeping con un esplicito mandato di combattimento, ed effettivamente ricacciò l’M23 in Rwanda e Uganda.
Museveni, uno degli aggressori, presiedette a una cosiddetta conferenza di pace nella capitale dell’Uganda, Kampala, che produsse un accordo che diede all’M23 tutto quanto aveva chiesto all’inizio della guerra. Ma chi si curava di leggere o capire l’accordo? Altri lo fecero senza dubbio, ma io sono a sola di cui sappia a preoccuparsi di riferire quanto diceva, a Pacifica Radio e sul San Francisco Bay View Newspaper, che gli attori possenti in ballo si sentono liberi d’ignorare, pur essendone stati lievemente sconcertati.
La violenza è continuata nelle province congolesi del Kivu. Secondo il Gruppo di Ricerca sul Congo insediato alla New York University, almeno un centinaio di civili sono stati massacrati dal 5 novembre nel solo Territorio di Beni in NordKivu. I peacekeeper hanno mancato di proteggerli dalle milizie dedite al saccheggio, e i dimostranti sono usciti in strada a Beni, Goma, e Butembo per dire che i peacekeeper fan parte del problema esigendo che se ne vadano. A Beni hanno bruciato quasi interamente almeno una base militare ONU, e un dimostrante risulterebbe ucciso e cinque feriti.
Con 18.000 soldati, la MONUSCO in Congo è la maggiore missione al mondo, e lo è da oltre 20 anni senza avere raggiunto alcun obiettivo apprezzabile. Se pensiamo all’ONU e alla sua presenza, dobbiamo risalire per quasi 60 anni. Se questo lo mettiamo in prospettiva, possiamo ovviamente porre in questione l’utilità di questa organizzazione, perché quel che vediamo è che la gente muore ancora e la guerra in Congo ha causato più di 8 milioni di morti. Fintanto che l’UNSC e la stampa internazionale incolpano della guerra “ribelli” e “gruppi di ribelli” inesistenti che fanno “ribellioni inesistenti”, l’olocausto congolese proseguirà. ONG e agenzie ONU continueranno a chiedere milioni di dollari per dare aiuto nella crisi umanitaria, equiparandola a Siria, Yemen e Iraq, e la popolazione di sfollati già a quattro milioni continuerà a salire. Né il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite né nessun altro sconfiggerà i “ribelli” o porrà fine a una guerra, i cui responsabili rifiutano di nominare.
Bibliografia
“Storia dei mercenari” – Anthony Mockler 2012;
“Mercenari. Gli italiani in Congo” – Ippolito Edmondo Ferrario, 2009;
“Larry Devlin, CIA Chief of station, Congo: a memoir of 1960-67” – 2007;
“Vers l’Indépendance: une accélération imprévue in Congo-Zaire” – Jules Gerard-Libois, 1989;
“Histoire générale du Congo” – Isidore Ndaywel è Nziem, 1998;
“Katanga Secession” – Jules Gerald-Libois, 1966;
“The assassination of Lumumba” – Ludo de Witte, 2001;
“Patrimonialism and political change in the Congo” – Jean-Claude Willame, 1972.
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