Il sogno della grande rete di collegamento commerciale-ideologica ottomana, si riflette nella politica dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, che non fa mistero della determinazione nel voler perseguire, e ottenere, gli obiettivi storici, a prescindere da quale siano le conseguenze in Europa e, direttamente, in Italia.
Lo scontro con l’Islam, naturalmente, prevale sul piano politico, che Erdogan usa anche come baluardo contro Curdi e Armeni, dove vi è in gioco la supremazia nella gestione dei traffici commerciali, e dei flussi energetici di gas naturale e petrolio, con la Russia, e l’amministrazione dei giacimenti nel Mediterraneo. Erdogan, molto astutamente, utilizza la radicata cultura ottomana, per avere alle spalle un compatto sostegno popolare, con il quale affrontare le conseguenze di una pandemia ancora incorso e una crisi economica altrettanto pressante. E il vuoto lasciato da un parziale disinteresse americano gli facilita, almeno parzialmente, il gioco. L’intervento in Libia, per garantire l’influenza turca nella spartizione di una torta notevolmente appetibile, è poi una evidente dichiarazione di intenti. La questione Cipro, sempre più carica di significato per la presenza di importanti giacimenti di gas naturale, si riflette nella secolare rivalità con la Grecia, e con gli interessi di Arabia Saudita, Emirati, Egitto, Libano. In Medioriente e Africa, la Turchia è storicamente protagonista riconosciuta.
Oggi come allora, la politica turca mostra il volto duro: niente concessioni o compromessi, mentre si assiste a sempre più frequenti esercitazioni militari, da una parte e dall’altra, con il coinvolgimento di Grecia, Francia, Cipro, Italia (Quad Force, Quartet Cooperation Initiative), la stretta attenzione da parte di Gran Bretagna, USA e Russia, e i ministri degli Esteri d’Europa che affrontano la questione sul piano diplomatico, fra richieste di sanzioni e contro-sanzioni.
Il metodo turco dei due pilastri è stata messo in atto: il primo con la delimitazione delle aree giurisdizionali marittime e la protezione di diritti e poteri sovrani sulla piattaforma continentale. Il secondo con la garanzia di diritti e interessi sulle risorse di idrocarburi come partner alla pari. Ma quando nasce, e diventa determinante, per la Turchia, la necessità di dominare il Mar d’Azov, il Mar Nero, il Mediterraneo orientale, e avere il controllo di una serie di avamposti e basi appoggio, che si sarebbero spinti, nel ‘600, fino alle coste della Gran Bretagna, dell’isola di Man, dell’Islanda, e ancora oltre, quando navi ottomane sarebbero state avvistate al largo di Boston e Nuova York?
Lo sfondo storico su cui si sviluppano le capacità nautiche degli ottomani, fondamentalmente un popolo “di terra”, derivano dalle abilità dei Selgiuchidi, precedenti al 13° Secolo, e furono dovute alla necessità di difendere le coste dell’Anatolia e il Mediterraneo Orientale dalle incursioni di pirati e predoni, in quanto vitale capolinea occidentale della Via della Seta. A tale scopo gli ottomani decisero di armare le navi.
Fu dall’inizio del 1300 che la marina iniziò a rappresentare un’importante elemento della politica nazionale, soprattutto dopo la grande vittoria, nel 1308, a Kalolimno (Imrali) che comportò una certa superiorità navale nel Mar di Marmara e permise l’insediamento dei turchi in Europa, che precedette la definitiva conquista dell’Anatolia. La marina ottomana, composta inizialmente per lo più da galee e galeotte e fuste, riuscì nel volgere di un secolo a crescere enormemente, diventando una delle più importanti del Mediterraneo, tanto che nel 1423 lottò, quasi su un piano di parità, con la flotta veneziana, riuscendo, nella prima metà del 15° secolo, a conquistare importanti basi navali in tutto l’Egeo, nello Jonio e in Albania (controllando dunque anche gli imbocchi dell’Adriatico).
La conquista di Costantinopoli, nel 1453, fu l’affermazione della marina ottomana nel Mediterraneo, con una rispettabile flotta di oltre 40 fra galee, maone, galeotte, fuste e altri generi di imbarcazione, comandata da Kapudan Pascia, ai diretti ordini di Muhammad II. L’egemonia turca, con Selim I, portò alla conquista del sultanato dei Mamelucchi in Egitto, dell’isola di Rodi, e di altri avamposti sempre verso occidente.
Le dimostrazioni successive confermarono l’impegno: nel 1453 fu espugnata Costantinopoli con una flotta di oltre cento navi di diverso tipo, e più di 120.000 marinai, soldati e mercenari. Fu comunque un’impresa storica, l’avere trasportato via terra una parte delle navi che, per disposizione del sultano Mohammed II, fu di fondamentale supporto all’esercito.
Le basi della potenza navale turco-ottomana furono impostate da Betazit II, salito al trono nel 1481, con una sapiente pianificazione di navi differenti a seconda delle diverse necessità di una guerra, e le evidenti dimostrazioni causarono non pochi problemi agli interessi dei rivali veneziani nel Levante, con la seguente fase calante del potere della cristianità sul mare e comprendendo nella supremazia marittima anche le coste di Grecia e Albania. Il tutto sostenuto dall’abilità tutta araba dei cartografi del 16° secolo, fra cui il celebre Atlante di Piri Reis del 1513, nel quale è chiaramente presente il continente americano, e furono altrettanto documentate le gesta dei corsari turchi Hizir e Oruç a sostegno di Suleiman il Magnifico (1494-1566), che salì al trono e astutamente conquistò l’isola di Rodi, assicurandosi il controllo della parte orientale del Mediterraneo e gli approdi della Via della Seta, rinunciando altrettanto astutamente a scatenare una sanguinosa, e soprattutto costosa, guerra per la conquista di Cipro, ma guadagnando anzi un notevole tributo annuo da parte della Repubblica di Venezia. Morto in battaglia Oruç, il fratello Hizir venne nominato ammiraglio comandante della marina ottomana e conquistatore di Algeri. Storicamente, i corsari turchi giunsero alle coste liguri e spagnole, per questo cominciarono a sorgere dappertutto torri di avvistamento, soprattutto nei pressi dei porti strategicamente importanti a livello commerciale. Celebre fu l’impegno dell’ammiraglio genovese Andrea Doria (1466-1560), ingaggiato dal re Carlo V nel contrastare i pirati barbareschi, e altrettanto interessato a fiaccare il predominio dei mercanti veneziani. In base ad accordi segreti, nella seconda metà del ‘500 Suleiman il Magnifico estese la propria autorità in importanti territori come Tolone e, alla morte dell’ammiraglio Khair Al-Din Hizir, la marina ottomana venne affidata all’altrettanto celebre Ali Turghud Kapudanpasa meglio noto come Dragut (1485-1565), vice re di Algeri, governatore di Tripoli, per altro proveniente da una famiglia di contadini, e ben noto per le scorrerie sulle coste siciliane, napoletane e liguri. Storicamente celebre l’accanimento di Dragut nella battaglia di Prevesa (Grecia occidentale, 1538) contro una coalizione cristiana comandata appunto dall’ammiraglio Andrea Doria, incaricato di catturarlo vivo, cosa che riuscì a ottenere Giannetto Doria nello scontro di Girolata, in Corsica, nel 1540. Deagut finì incatenato ai remi della sua stessa nave ammiraglia e venduto poi come schiavo da Andrea Doria. Liberato dopo circa un decennio, su pagamento di un forte riscatto e di alcuni territori, fra cui l’importante approdo di Tabarca (ceduto ai Lomellini di Genova, alleati dei Doria), riottenne il comando della flotta ottomana e, con una astuta politica di alleanze e accordi segreti, fra cui quello con il cattolico re francese Francesco I (1494-1547), entrò nuovamente al controllo di importanti crocevia, fra cui Tripoli, Algeri, Rea Palus (Rapallo) e le Cinque Terre in Liguria. Forte della collaborazione, della protezione e dei finanziamenti di Sinan Pascia, fratello del Gran Visir Rustem, Dragut compì numerose razzie nel Mediterraneo, a Malta dove pose assedio al castello di Gozo e ridusse in schiavitù circa 5.000 abitanti, e a Tripoli, dove sconfisse con astuti inganni, i pur forti Cavalieri di Malta. Nel luglio del 1552 attaccò è rase quasi al suolo Olbia, poi assaltò l’Isola d’Elba ma non riuscì a espugnare Portoferraio, vendicandosi a Marciana, Grassera e Piombino, che di nuovo non riuscì a conquistare. Nel Gargano assediò Vieste, nel 1554, compiendo veri e propri massacri sulla popolazione, successivamente Scalea e Paola, riducendo in schiavitù migliaia di persone. Nel 1565 attaccò di nuovo Forte Sant’Elmo a Malta, dove morì colpito alla testa da una scheggia. Il suo posto fu preso da Uluch Ali che riuscì a conquistare la fortezza e, per vendicare il suo comandante, ordinò il massacro di tutti i superstiti.
Molto importante fu la conquista di Cipro nel 1571, a danno di Venezia, e pur tuttavia gli ottomani subirono pesanti conseguenze dalla batosta di Lepanto (ottobre 1571). Successivamente la direzione della flotta ottomana venne presa da Uluch Ali Reis (1500-1587), di origine calabrese, il quale preferì una politica difensiva per dedicarsi al potenziamento delle risorse militari. Il controllo delle rotte, soprattutto da Algeri e Tunisi, esercitato da gruppi di corsari, fu reso quasi indipendente dalla stessa Istanbul.
Una straordinaria impresa di mare
Celebri corsari e ammiragli comandanti della flotta ottomana furono quindi Kayr al-Din (1478-1546), Aruj Bey (1474-1518), e il già citato Turghut Ali o Dragut.
La svolta nel predominio per il Mediterraneo orientale, avvenne comunque nello scenario politico della seconda metà del ‘600. Anni che videro la Guerra dei Trent’Anni, il fallimento asburgico contro le difese di Luigi XIV di Francia, la Pace di Westfalia che dava il colpo definitivo al Sacro Romano Impero con l’ascesa dei principati tedeschi, e la determinante azione di Armand du Plesssis de Richelieu (1585-1643) e del successore Giulio Raimondo Mazarino (1602-1661), che posero le basi per il regno di Luigi XIV di Borbone, il Re Sole (1638-1715), al trono nel 1661, cristianissimo e persecutore di una politica spregiudicata e tesa agli interessi personali e nazionali, fino a accordi segreti con il sultano ottomano e con i principi protestanti.
Come appare molto attuale, le iniziative germaniche, all’epoca portate avanti da Ferdinando III d’Asburgo (1608-1657) per un fronte unico della cristianità, non sortirono l’effetto sperato, e le conseguenze della Guerra dei Trent’Anni frammentarono anzi il blocco centrale tedesco in principati più o meno autonomi.
Dopo Lepanto e la guerra di Cipro, la Sacra Porta dovette fronteggiare anche gli attacchi persiani a oriente, con Salim II (1566-1574) e il figlio Murad III (1546-1595) che avevano tentato nuove iniziative anche contro l’Ungheria, in una decennale rivalità che assorbiva dai due Paesi notevoli risorse. Lo Shàh di Persia Abbas II (1633-1666) fu fonte di altri preoccupanti problemi per i confini turchi, fino alla controffensiva che diede nuovo impulso all’impero ottomano, arrivando fino a Baghdad.
Della situazione, ne guadagnò soprattutto Vienna, obiettivo turco ben noto e importante, che si dedicò a uno stato di pace vigile. Venezia, invece, dopo una condizione di limbo politico, fu attaccata da una notevole forza turca a Creta, centro nevralgico delle rotte commerciali fra Levante, Africa settentrionale ed Europa meridionale, nonché uno degli ultimi capisaldi di valore della Serenissima nel Mediterraneo orientale, che non poteva occuparsi del mantenimento di tutti gli avamposti e le basi commerciali, molte dei quali in decadimento e con difese insufficienti.
Con la Polonia, baluardo della cristianità europea, i turchi ebbero cruenti scontri nei primi decenni del ‘600, nei quali furono impiegate anche truppe mercenarie cosacche e tartare, che però non portarono a modifiche geopolitiche sostanziali. Successivamente, sia Polonia che Turchia dovettero dedicarsi prevalentemente a problemi interni, fra sommosse dei cosacchi Zapororowi, predoni russo-svedesi, e scontri determinanti, vera e propria ultima occasione per gli ottomani di restaurare il sultanato come baluardo contro l’Europa, Mezzaluna contro Croce, in una nuova crociata contro la politica aggressiva del Gran Visir ,Fazil Ahmed Koprulu (1635-1676), accanito contro Venezia e gli Asburgo per i confini del sultanato nella ambita Ungheria, dove imperava il nazionalismo transilvano del principe Georgj Rackoczi (1621-1660), e sostenitore della modernizzazione della marina, uscita con le ossa rotte dall’assedio di Candia.
In sintesi, la flotta turco-ottomana, da cui nel 1793 derivò direttamente la marina ottomana, nacque comunque prima dell’impero ottomano propriamente detto quando, alla fine del 1200, i Turchi iniziarono a dominare tratti della costa anatolica, eredi della marina del sultanato di Rum che, sin dal 10° secolo, si era opposta ai Bizantini nell’Egeo.
La flotta turca operò anche nell’Oceano Indiano, prima per espellere i Portoghesi dal Mar Rosso, poi in sostegno della marina del sultanato di Aceh (nell’attuale Indonesia) che, nella seconda metà del ‘500, chiese la protezione degli ottomani contro le potenze europee. Le operazioni nell’Oceano Indiano segnarono alti e bassi (anche perché condotte in buona parte da vascelli tecnologicamente inadatti), mentre nel 1571, a Lepanto, le flotte ottomane e barbaresche furono duramente sconfitte nella più grande (ma strategicamente inconcludente) battaglia del 16° secolo. La marina ottomana si riprese lentamente, tanto che nei primi anni del ‘600 risultò (come del resto quella veneziana) spiazzata dalle prestazioni dei nuovi galeoni utilizzati dagli spagnoli. Molto rapidi ad accettare questa novità furono invece i Barbareschi, soggetti agli Ottomani, ma liberi di operare in autonomia, che si spinsero decisamente verso occidente. Secondo prove storiche certe, giunsero all’Atlantico, virarono a nord, risalirono la costa iberica, il golfo di Biscaglia, e fino alle coste britanniche e islandesi (1627), e quasi certamente del continente nord-americano, con segnalazioni nel mare di Terranova, sulla costa di Boston e fino a Nuova York.
Per tutto il 17° secolo, i territori del Maghreb, Algeri, Tunisi, Tripoli, godettero di grande impulso economico. Una grande parte del benessere proveniva dalla pirateria e dalla guerra di corsa, o dai tributi imposti agli avamposti cristiani per evitare saccheggi e distruzioni. Molto florido era il mercato degli schiavi, con oltre 20.000 compra-vendite registrate solo per prigionieri cristiani, e i rapimenti (accadde personalmente a Miguel de Cervantes).
In seguito alla Guerra dei Trent’Anni, che assorbì le risorse della Spagna, ma anche di altri Paesi europei, la marineria ottomana si sviluppò in relativa tranquillità. Le imbarcazioni turche sfrecciavano sempre più verso nuovi obiettivi, anche oltre il Mediterraneo.
Pare che da Algeri, principale base logistica, i corsari Barbareschi abbiano toccato le Canarie, il Marocco dove avevano il controllo dell’avamposto atlantico di Bou Regreg, e Rabat, obiettivo anche per la cattura di convertiti al Cristianesimo. L’olandese Jan Janszoon (Murad Reis) divenne grand’ammiraglio e presidente della Repubblica Corsara di Salè nel 1624, la quale contava una flotta di 18 navi. Lo stesso sultano del Marocco dovette riconoscerne l’autonomia dopo un breve e fallito assedio del porto.
Dopo che, nel 1627, Janszoon lasciò Salè per far ritorno al più sicuro porto di Algeri, i moriscos locali inasprirono ulteriormente i rapporti con il sultano del Marocco, Zaydan al-Nasir, rifiutando di pagare la tassa sugli introiti commerciali. I moriscos proclamarono dunque una repubblica, governata da un consiglio (detto diwan) formato da una dozzina di membri, i quali avrebbero dovuto poi eleggere annualmente un governatore e un capitano generale. A scapito delle successive immigrazioni dalla Spagna, i primi anni della repubblica furono dominati dal potere dei primi moriscos di Hornachos i quali rimasero sempre in minoranza rispetto agli altri esiliati dalla Spagna, da loro definiti genericamente andalusi.
Rimane il dato storico che dalle Canarie, o dalla costa marocchina, i corsari barberareschi si diressero fino alle coste islandesi, terra isolata molto a nord, da dove giunsero messaggi di una amministrazione locale, concessa nel 1602 dalla corona di Danimarca alla Compagnia di Islanda, organizzazione autonoma dei mercanti di Copenhagen.
Nonostante l’insistenza, e l’avere stabilito basi d’appoggio, come quella in un’isola a sud di Man, fra Scozia, Inghilterra e Irlanda, gli ottomani non si adattarono alle condizioni del territorio, ma non si arresero comunque.
Gli antichi carmi norreni dell’Edda, scoperti del 1643 dal vescovo Brynjolf Sveinsson, furono un ulteriore impulso per gli audaci Barbareschi, che strinsero accordi con le comunità locali in funzione anti-cristiana, approfittando del coinvolgimento di Cristiano IV di Danimarca nella Guerra dei Trent’Anni. Quanto al bottino che si sperava di fare nell’impresa, le bionde donne nordiche dagli occhi chiari costituivano un articolo quanto mai pregiato per gli harem del Nord Africa e, per rivendere i beni materiali che si sarebbero razziati, c’erano sempre i mercanti ebrei di Algeri, pronti alla bisogna.
La spedizione barbaresca in Islanda fu indubbiamente una grande impresa, se si pensa in quale epoca venne effettuata e con quali attrezzature e dotazioni. Un viaggio che comportava una variazione meridiana di 28°, da Gibilterra alla costa meridionale islandese in pieno Atlantico, attraverso il Golfo di Biscaglia, e i sapienti marinai arabi sapevano cosa comportasse. Fra andata e ritorno, oltre 8.000miglia, da Algeri a Ceuta, da Gibilterra a Cabo Sao Vicente, estrema punta occidentale d’Europa sotto l’autorità di Filippo IV di Spagna, e quindi ancora verso nord, per 1/5 della circonferenza dell’Equatore.
Come fu possibile? I marinai barbareschi avevano a disposizione, dagli alleati turchi, ottime carte nautiche, fra cui quella di Piri Reis, oggi al Museo Topkapi di Istanbul. Sapevano che, nel viaggio di andata, sarebbe stato possibile sfruttare il ramo settentrionale della Corrente del Golfo, che li avrebbe spinti fino all’Islanda. Per le imbarcazioni dell’epoca, ma sostanzialmente per tutte fino all’uso del radar, era inoltre un pericolo la presenza degli iceberg, e il caso Titanic, ancora nel 1912, ne è un esempio.
Rimane la pianificazione che i corsari barbareschi elaborarono per un viaggio mai tentato prima, pur con l’ausilio di una sorta di bussola magnetica, e preferendo tuttavia la navigazione costiera a quella di altura. Per questo non avevano la necessaria esperienza in mari-oceano aperti, come poteva essere il Golfo di Biscaglia, famoso per le improvvise e potenti tempeste. Già il raggiungere Lanzarote, alle isole Canarie, fu quindi impresa notevole.
E’ altresì provato, che i corsari arabi giunsero a Capo Verde e alle Azzorre, rispettivamente a 500 e 1.400km dal Portogallo, in pieno Atlantico, e alcuni arditissimi comandanti si erano spinti fino ai Grand Banks per depredare i pescherecci provenienti dalle coste iberiche e irlandesi. Nessuna di queste missioni, però, fu paragonabile a quella in Islanda del 1627, solo dal punto di vista del rischio.
Gli esperti navigatori sapevano che erano necessarie navi più robuste e di maggiori dimensioni, che avevano naturalmente costi di allestimento e armamento maggiori, ma il pascià di Algeri, Murad IV, nominato da Costantinopoli, era scettico nel soddisfare le pressanti richieste. Alla fine, il comando della marina ottomana, su rispetto dell’accordo per 1/5 del totale ricavato, concesse il proprio appoggio e la spedizione fu in grado di partire. I marinai, senza esperienza di navigazione oceanica, giunsero comunque in vista della costa islandese, sorprendendo non poco la popolazione locale, che già era al corrente delle scorrerie moresche al largo della Manica.
Con il massiccio del Hvannadalshkunur (oltre 2.100 metri slm) e il ghiacciaio di Vatnajokull come punti di riferimento, i Barbareschi puntarono verso le spiagge, allettati dalla possibilità di un ricco bottino e dalla volontà di combattere gli infedeli.
Le prime vittime dell’attacco furono alcuni pescherecci, poi l’attacco a villaggi costieri, la cattura di schiavi e il saccheggio. In tempi in cui la società islandese, di circa 50.000 abitanti, viveva ancora, come del resto altri paesi d’Europa e d’America, nel clima della superstizione e della caccia alle streghe, era quella l’unica, istintiva e possibile spiegazione.
È stata a lungo opinione degli storici, che la navigazione e l’esplorazione delle regioni polari sia un capitolo esclusivo della storia occidentale. Nessuno, a quel che risulta, ha mai tentato di porre in luce il contributo dei popoli extraeuropei. La motivazione era principalmente la possibilità di commercio di materiali vari e schiavi, pelli e carne di foca, come fu, dall’altra parte del globo, la traversata del cinese Hui-Sen verso il continente americano, ben prima di quanto raccontato, nel 499, o il polinesiano Hui-Te-Rangi. Il bisogno di risorse, nutrimento, materiali di vario tipo, spinse a compiere missioni ancora sconosciute Inuit, Siberiani, Polinesiani, Maori, Chonos, Alakaluf, Yamana e Tasmaniani. Predoni anzitutto furono anche Sir Francis Drake e lo stesso Ferdinando Magellano.
Dalla prima spedizione, i pirati barbareschi rientrarono ad Algeri con un discreto bottino e oltre 400 schiavi, dei quali si ha notizia che solo 27 tornarono alla propria casa dopo oltre un decennio. Esistono testimonianze scritte, fra cui quella di Guttormur Hallsson, redatta nel 1631: “Sono stato catturato e strappato dalla mia terra il 6 luglio 1627. I pirati turchi radunarono tutte le persone catturate e fecero rotta verso sud, in direzione delle Isole Westman (Vestmannaeyjar), dove si avventarono sugli abitanti come lupi affamati di sangue su una carogna”.
In realtà l’incursione del 1627 fu organizzata proprio da Murat Reis il Giovane, al secolo Jan Janszoon van Haarlem, corsaro olandese cui era stato affidato l’incarico di attaccare le navi spagnole durante la Guerra degli Ottant’Anni. L’idea era però quella di lavorare in modo autonomo, attaccando navi provenienti da ogni paese (facendosi passare peeer spagnolo, olandese o anche per turco). Il destino volle che, mentre batteva le coste delle Canarie (1618), fosse proprio un bastimento turco a catturarlo insieme al suo equipaggio. Alcuni narrano che Jan si convertì spontaneamente all’Islam, altri che fu costretto, ma il punto fondamentale rimane quello che Murat Reis divenne un corsaro di tutto rispetto.
Nel secolo precedente a quello dell’Incursione, l’Islanda aveva passato un periodo molto movimentato. Cristiano III, Re di Danimarca dal 1535, introdusse il Protestantesimo nel suo regno, che comprendeva anche l’Islanda. A parte alcune infiltrazioni però, la dottrina di Lutero fu resa obbligatoria solo nel 1538. I due vescovi cattolici islandesi, Ogmundur Pálsson e Jón Arason, si opposero con violenza alla decision. Pur essendo spesso in lotta fra loro per il predominio temporale e spirituale, i due prelati si allearono contro il nemico comune. Ogmundur fu il primo a cedere, soprattutto a causa del suo protetto Gissur Einarsson (destinato ad assumere la sede vescovile dopo di lui), che manifestò ben presto simpatie luterane. Il vecchio vescovo si accorse troppo tardi dell’errore, visto che nel 1541 fu catturato dai soldati danesi e portato in Danimarca, dove morì l’anno seguente. Per qualche tempo l’Islanda rimase divisa fra un vescovo cattolico, Arason, e luterano, Einarsson, ma alla fine prevalse quest’ultimo.
In quel periodo Algeri, era un protetto rifugio e contava parecchi avventurieri olandesi convertiti all’islam, al comando di imbarcazioni corsare, fra cui il comandante e il primo ufficiale dell’imbarcazione su cui serviva Murat Reis. Ben presto però, gli accordi segreti con i mercanti europei, fecero perdere la sua posizione privilegiata per il traffico di schiavi bianchi e merci rubate.
Murat Reis giunse quindi sulla costa del Lundy, e da qui, secondo le rivelazioni di un prigioniero, tracciò la rotta per l’Islanda, dove i suoi corsari, provenienti dalle Westman Islands, bruciarono case, torturarono e uccisero molte persone e imbarcarono tutti quelli avevano catturato, che furono portati ad Algeri in un viaggio di tre settimane, e diversi morti di stenti, specie fra le donne e i bambini.
I circa 400 schiavi furono imprigionati, esposti alla folla, poi venduti al mercato degli schiavi cristiani, dopo la riscossione di 1/8 del bottino da parte del pascià locale. Le donne erano pagate più degli uomini, ma un prezzo medio era fissato intorno ai 100 dalers (dal Thaler, di conio svedese e norvegese) molto diffusa in Europa. I pochi che furono riscattati si imbarcarono alla volta dell’Italia, su navi che i corsari non attaccavano, in base a determinati accordi. Si stima i corsari barbareschi assaltassero da 100 a 150 navi all’anno fra olandesi, spagnole francesi, inglesi e tedesche.
La repubblica barbaresca di Salè, non lontano da Rabat, in Marocco, fu di breve ma intenza durata, dal 1627 al 1668, ma gli avamposti corsari riunivano gente di numerose provenienze; turchi, ebrei, mori, cristiani, avventurieri tedeschi, francesi e spagnoli, inglesi, olandesi, italiani e greci.
Al mercato, dopo il Pascia, il comandante della nave prendeva due prigionieri, quindi gli schiavi venivano divisi in due gruppi, la cui scelta passava agli armatori della nave e all’equipaggio.
Pochi sono a conoscenza del fatto che il termine razzia deriva proprio dall’arabo ghaziyya, una declinazione magrebina di ghazwa, e vuol dire “incursione”. Ad oggi però, diversi storici si stanno interessando all’argomento.
Nella seconda metà del 17° secolo, l’avvento del galeone rese inutile la galea e, nel luglio 1718, la battaglia di Tenaro (Matapan), segnò l’ultimo scontro navale fra veneziani e ottomani e il successivo Trattato di Passarowitz fu l’inizio del declino della Serenissima che, pur riuscendo a evitare il dominio spagnolo, fu poi occupata da Napoleone nel 1797 e tenuta in una sorta di mantenuto isolamento.
All’inizio del ‘700 gli ottomani voltarono l’attenzione alla nuova preoccupante rivalità con la potenza marittima dello zar Pietro I Romanov (1672-1727), il quale manifestò particolare interesse per gli sbocchi commerciali dal Mar d’Azov, al Mar Nero e al Mediterraneo orientale, visto che sul Baltico la supremazia era mantenuta dalla Svezia.
Pietro il Grande contese per diverso tempo il primato turco e khanato sugli sbocchi meridionali, e all’inizio del ‘700 la crisi sfociò in una guerra nella quale lo zar sostenne il ritorno della cristianità a Costantinopoli e ottenne il controllo del Mar d’Azov e sconfisse la flotta turca a Cesme nel luglio 1770, distruggendo quasi tutte le navi nemiche, oltre 12.000 cannoni e infliggendo circa 7.000 perdite, la più grave sconfitta della Mezzaluna e del sultano Selim III, dopo Lepanto, alla quale si aggiunse quella di Navarino, principale avamposto turco nell’Egeo (ottobre 1827) e il conseguente Trattato di Costantinopoli del luglio 1832, e i primi successi del nazionalismo egiziano.
L’avvento del vapore fece concentrare ogni risorsa nel potenziamento delle navi, ancor più quando venne introdotto il collegamento alle eliche al posto delle ruote a pala e agli scafi in metallo corazzato. La marina ottomana subì ancora una pesante sconfitta a Sinope nel 1853, poi ci fu la guerra in Crimea (1854-56), il siluro, la prima guerra mondiale nella quale la Turchia schierò comunque una rispettabile flotta con 40 navi, fra cui otto cacciatorpediniere. Alla fine dell’ottobre 1923, fu dichiarata ufficialmente la Repubblica di Turchia, e Mustafà Khemal Ataturk, con il trattato di Losanna del luglio 1923, fu abile a conservare quasi intatta la potenza marittima.
Bibliografia
“Storia della letteratura spagnola” – Carlo Boselli – Cesco Vian;
“Barbary Pirates, Encyclopedia Britannica” – Henry Louis Etienne Terrasse;
“Canary Islands” – Robert Percy Beckinsale;
“Storia d’Islanda”, Enciclopedia Europea, George H. Denton – Stephen C. Porter;
“Barbareschi” – Francesco Beguinot, Enciclopedia Italiana,
“Storia d’Islanda” – Vermund G. Lausten, Islanda
“Dizionario degli Esploratori e delle scoperte geografiche” – Silvio Zavatti
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