I molti interrogativi della ‘scrittura’ dell’Isola di Pasqua, ancora oggi indecifrata.
Furono gli olandesi a chiamare la piccola isola del Pacifico meridionale con il nome che l’ha resa celebre: nella domenica di Pasqua del 1722 tre navi, comandate dall’ammiraglio Jacob Roggeveen, gettarono l’ancora al largo di quella che era una terra già abitata, poiché i nuovi arrivati furono accolti da fuochi accesi sulle spiagge.
Una volta sbarcati, gli olandesi si resero conto della presenza di gigantesche statue di pietra, riccamente ornate di fiori, adorate dagli indigeni con profonda devozione. Le cronache del tempo riferiscono di abitanti diversi fra loro: alcuni dalla pelle scura, altri più chiara, altri ancora dal colorito rossastro, e tutti vivevano in capanne costruite con giunchi che parevano imbarcazioni capovolte. I capi tribù, o quelli che comunque dovevano essere figure importanti della comunità locale, portavano grandi dischi inseriti nei lobi delle orecchie.
Nel 1770 il vicere spagnolo del Perù inviò una spedizione. La flotta rimase circa una settimana nell’isola e, dopo non poche contrattazioni, gli spagnoli ottennero la sottomissione degli indigeni in base ad un documento della corte reale, ma le difficoltà linguistiche e l’incomprensibile dialetto locale senza dubbio non fecero comprendere agli indigeni le conseguenze della loro decisione.
Anche il famoso navigatore inglese James Cook arrivò a Pasqua nel marzo 1774. Grazie all’aiuto di Mahine, un indigeno polinesiano, si ebbero i primi contatti comprensibili con gli indigeni, si scoprì come ricavano e utilizzano rudimentali armi di legno, e si notò che gli indigeni di pelle chiara, osservati dagli olandesi e dagli spagnoli durante i precedenti contatti, erano praticamente scomparsi.
Vent’anni dopo fu una spedizione francese comandata dall’ammiraglio La Perouse, ad arrivare nell’isola. La popolazione locale era nuovamente numerosa, non vi era traccia della penuria di cibo notata da Cook, e solo pochi indigeni portavano ancora armi di legno, a scopo ornamentale. Il geografo Bernizet compilò una mappa degli insediamenti e confermò la distruzione di molte statue, i cui basamenti erano utilizzati come sepolture. Con il passare degli anni l’isola diventò scalo per navi negriere. Intorno al 1805-1810 molti mercanti senza scrupoli arrivavano a Pasqua alla ricerca di schiavi e la popolazione venne a tal punto colpita da incursioni ed epidemie che, nel 1877, secondo le cronache, era ridotta a centoundici elementi.
Nel 1885 iniziarono le spedizioni a carattere scientifico, per spiegare la presenza dei monoliti di pietra lavica, ormai più numerosi degli indigeni: l’anno seguente una missione americana parlò di 555 statue, che in realtà erano circa mille, molte finite nell’oceano a causa della costante erosione delle coste.
Successivamente, fu un religioso ad affrontare per la prima volta il mistero della scrittura indigena detta “rongorongo” (“canto”, “recitazione”), padre Joseph Eyraud, primo europeo a stabilirsi sull’isola, nel 1864.
Eyraud parlò di tavolette di legno e bastoni su cui erano incisi segni molto simili ai geroglifici egiziani, all’apparenza intraducibili, raffiguranti alberi, isole, pesci, uccelli, stelle, e altri elementi naturali. I suoi studi furono purtroppo interrotti l’anno seguente, quando sbarcarono in gran numero i missionari europei che costrinsero la popolazione a convertirsi al cristianesimo. Parer che, in quel periodo, molte iscrizioni furono distrutte dagli stessi indigeni.
Ancora oggi l’origine della scrittura di Pasqua conserva una parte di mistero. Attualmente tutto ciò che resta sono venticinque iscrizioni, che l’esploratore norvegese Thor Heyerdhal credeva derivassero dalle Americhe. Certo è che i polinesiani non conoscevano la scrittura, nota invece agli indigeni del Perù (i Conquistadores distrussero numerose tavole in cui gli Incas avevano dipinto e descritto la loro storia) e alle tribù Cuna della Colombia e della zona di Panama, che incidevano testi religioni su tavole di legno.
Gi studiosi sono discordi sulle origini della scrittura di Pasqua, alcuni affermano che gli indigeni la ricavarono dal trattato con cui gli spagnoli ottennero la loro sottomissione al regno spagnolo del Perù, nel 1770, dal momento che gli elementi in nostro possesso sono datati tutti fra la seconda metà del XVIII secolo e i primi anni del successivo.
Ci provò il vescovo di Tahiti, Jaussen, il quale era assistito da Metoro, giovane indigeno dell’isola che sembrava in grado di tradurre alcune tavole, ma lo stesso vescovo si accorse presto che l’indigeno si approfittava dell’ospitalità e nient’altro, perché attribuiva diversi significati a uguali simboli. Fu poi la volta di William Thompson, commissario di bordo della Mohican, nave americana giunta a Pasqua nel 1886, il quale, per conto del National Museum di Washington, aveva raccolto diversi oggetti fra cui molte tavole incise. Thompson era aiutato da un altro indigeno, l’ottantenne Ure Va’e Iko, ma riuscì solo a tradurre alcuni simboli come un frammentario canto propiziatorio per la fertilità della terra. Pochi elementi non collegabili fra loro che, in effetti, non portano a nulla di certo.
In epoca più recente fu lo studioso tedesco Thomas Barthel che identificò 120 elementi su cui basare una prima possibile traduzione, e la combinazione di circa duemila segni. Secondo Barthel, le incisioni “rongorongo” esprimono sia concetti teorici, sia oggetti concreti, e un singolo segno può rappresentare una intera frase o pensiero. Per questo, la traduzione è estremamente difficile. Il risultato più concreto si riferisce ricavato a una tavola detta “Mamari”, che pare un calendario delle fasi lunari.
Il linguista americano Steven Fischer, che per molto tempo ha analizzato le iscrizioni, pone l’attenzione principalmente sul cosiddetto “bastone di Santiago”, una sorta di scettro lungo 120 cm, appartenuto a un capo tribù e ricoperto con circa 2300 segni, divisi in colonne a intervalli regolari.
In ogni sezione, un simbolo ogni tre è associato a un altro, che Fischer chiama “falloide”, il quale, a sua volta, non ha riferimenti con l’ultimo o il penultimo segno di ciascuna sezione. Inoltre, ogni sezione compresa nelle linee verticali ha almeno di tre segni “falloidi”. Tale disposizione ha suggerito a Fischer la tesi secondo cui i testi sono basati su una struttura di tre unità in stretto rapporto fra loro, ovvero “triadi”.
Esaminando poi il canto della fertilità già considerato da Thompson, Fischer ha rilevato 41 accoppiamenti, dove l’elemento più significativo è riportato per primo, ovvero la divinità maschile; la divinità femminile era nominata in seconda posizione; la prole generata dall’accoppiamento in terza posizione. Nuovamente la struttura della triade, e la evidente analogia con le iscrizioni dello scettro di Santiago. In base a successive analisi, Fischer ha ritenuto che la maggioranza dei testi siano riferiti a miti della creazione, ma l’unica traduzione accettabile riguarda una singola frase composta da tre simboli: “uccello”, “pesce” e “sole”: “tutti gli uccelli si accoppiano con i pesci e da questa unione ha origine il Sole.” Anche se appare approssimativa, è l’unica frase di senso compiuto a cui si è giunti fino ad oggi, ben più fondata se confrontata con altre conclusioni dello stesso Fischer su ulteriori iscrizioni “rongorongo”, detti canti della creazione, basati sulla ripetizione della sequenza dei simboli sopra citati e sulla struttura d’insieme della triade.
La conclusione è che, sebbene le iscrizioni dell’isola di Pasqua siano basate su una possibile struttura a tre livelli, questa non è una prova accettata universalmente per dedurre che tutti i testi sono relativi a miti della creazione. Il lavoro di Fischer, sebbene di grande importanza, è considerato un passo in avanti, non un avvenimento basilare, ma il mistero “rongorongo” non è ancora stato svelato.
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