Dopo averlo saccheggiato per mezzo secolo, il governo di Pechino sta traformando il Tibet in una gigantesca e venefica discarica.
Nonostante le proteste del governo di Pechino, il Dalai Lama e buona parte della comunità scientifica mondiale accusano la Cina di “saccheggiare sistematicamente l’ecosistema tibetano, di avvelenarne le acque con scorie tossiche, batteriologiche e nucleari e di volere trasformare la regione in una gigantesca discarica”. Un’accusa grave che potrebbe innescare un processo di degrado ambientale di proporzioni gigantesche, coinvolgendo diversi paesi come l’India, il Bangladesh, il Myanmar, il Laos, la Thailandia, il Bhutan e il Nepal (fiumi come il Bhramaputra, lo Yang tse Kyang, l’Indo e il Mekong nascono proprio in Tibet, altopiano che si estende per 2.600 chilometri di lunghezza e 1.300 di larghezza, situato ad un’altezza media di circa 4.500 metri). Lo scempio in atto sul tetto del mondo non è frutto di voci eccessivamente allarmistiche, ma è purtroppo una realtà ed esso riguarderebbe anche la forsennata politica di disboscamento e bracconaggio attuata dalle autorità cinesi e testimoniata in un recente studio dall’Istituto di Climatologia dell’Università del Colorado. Fino ai primi anni Cinquanta, le montagne tibetane erano ammantate da foreste di conifere, querce e betulle e la regione, nel suo insieme, ospitava circa 10.000 specie di piante, centodiciotto di mammiferi e, rispettivamente, cinquecento, quarantanove e 61 specie di volatili, rettili e pesci. Un patrimonio che, dopo l’occupazione cinese, si è ridotto del 50 per cento. Nell’arco di mezzo secolo il governo di Pechino ha fatto recidere decine di milioni di piante ad alto fusto per ricavarne materiale da costruzione, facendo sparire un’area verde estesa come la Danimarca, il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo messi insieme: operazione che tuttavia non ha destato alcuna indignazione da parte degli ecologisti italiani, dei Verdi dell’onorevole Pecoraro Scanio e compagnia bella. La stabilità del millenario equilibrio dell’ecosistema tibetano era dovuta alla scarsa densità demografica (sino al 1955 gli abitanti non superavano i 6 milioni) e soprattutto alla religione buddista, i cui dettami, come è noto, comprendono l’osservanza di uno stile di vita in totale armonia con la natura circostante. Un credo filosofico che, ovviamente, non viene affatto condiviso dal governo ateo e capital-comunista cinese. Dall’invasione del 1950 ad oggi, a dispetto dell’esodo massiccio e dei massacri subiti, la popolazione del Tibet è aumentata a sette milioni di individui. Tanti sono infatti i tecnici e gli operai cinesi che sono stati trasferiti nella regione per installarvi centrali elettriche e nucleari, basi militari e per razziarla di tutti i suoi beni naturali (minerali e, come si è detto, legname). Secondo studi effettuati dall’Università di Oxford, “i cinesi hanno sistematicamente spogliato l’altipiano delle sue secolari foreste, senza peraltro intraprendere alcuna azione di rimboschimento (dei 220.000 chilometri quadrati di distese arborescenti del 1953 oggi non ne rimangono che 134 mila)”. Ma non è tutto. “Nonostante le continue raccomandazioni fatte a Pechino da organismi internazionali, il governo cinese ha liberalizzato totalmente la caccia, sterminando 30 specie autoctone”, spiega Ulrich Gruber, professore di zoologia presso l’Università di Mulhouse. “Oggi come oggi, per 30.000 dollari è possibile abbattere un panda, uno yak selvatico, una scimmia dorata o una gru dal collo nero. In questi ultimi anni, i nuovi capitalisti cinesi hanno infatti iniziato a dilettarsi in veri e propri safari, massacrando, a pagamento, migliaia di animali”. Alcune fonti riportano che tra il 1960 e il 2000 la fauna cospicua vegetariana e carnivora tibetana abbia perduto il 60% della sua consistenza, creando – secondo il WWF – una grave e quasi irreversibile rottura della catena alimentare. Secondo lo scienziato indiano Sanjiv Prakesh, “Pechino non ha soltanto favorito l’abbattimento delle foreste o lo sterminio degli animali, ma, cosa sotto certi aspetti ancora più grave, ha distrutto o manomesso l’intero sistema idrogeologico tibetano, deviando o inquinando decine di corsi d’acqua, costruendo dighe e centrali idroelettriche per fornire elettricità ad un Paese, la Cina, in fortissima ma incontrollata e non pianificata crescita industriale”. “Con queste iniziative – sottolinea Prakesh – Pechino ha dimostrato di non volersi affatto occupare del benessere e dei bisogni energetici della popolazione tibetana, ma di pensare unicamente ai propri interessi”. Ma ritorniamo al fattore inquinamento. Per quanto concerne la politica di smaltimento dei rifiuti pericolosi, la Cina ha trasformato il Tibet in un’autentica pattumiera (la sua pattumiera), trasportandovi milioni di tonnellate di rifiuti solidi e liquidi e scorie chimiche e radioattive. Secondo il Rapporto Nucleare sul Tibet pubblicato dall’International Campaign for Tibet a cura dello scienziato statunitense John Ackerly, in una base militare cinese costruita all’inizio del 1960 dal Ninth Bureau (il centro studi del programma nucleare cinese) ad est del lago Kokonor, si starebbero sperimentando nuovi ordigni nucleari di enorme potenza (sull’altipiano, presidiato da circa 530.000 soldati cinesi, Pechino ha fatto installare 550 testate nucleari, in parte puntate sull’India) . Secondo il Tibet Support Group di Londra (associazione che si occupa specificatamente degli esperimenti nucleari cinesi in Tibet), a partire dalla fine del 1980 gli scienziati di Pechino avrebbero utilizzato alcune remote aree per esperimenti nucleari sotterranei, contaminando falde acquifere e bacini lacustri. Tesi avvalorata dal Tibet Information Network che, nel 1992, pubblicò una dettagliata ricerca sugli effetti di tali esperimenti sulla popolazione dei centri di Guru e Chongtsa. Secondo gli scienziati, tra il 1989 e il 1992 non meno di 25.000 persone sarebbero morte a causa di malattie tumorali provocate da radiazioni o da contaminazioni delle falde e dei torrenti.
Ottima Rivista storica; decisamente ‘diversa’ dalle altre. Complimenti allo staff.
Grazie da parte di tutta la redazione. Alberto Rosselli.