“Le nature profonde non perdono mai la memoria di sé stesse e non divengono mai altro da quello che sono state.” Søren Kierkegaard.
Una delle risposte al pensiero assolutista di Hegel è quella che formulò Søren Kierkegaard più o meno negli stessi anni, elaborando una complessa ed articolata teoria su basi cristiane ed aristoteliche, che metteva al centro l’uomo come soggetto libero, autonomo dallo Stato e da ogni altra struttura umana. Kierkegaard infatti contesta il filosofo tedesco, affermando che l’esistenza è del singolo, e non può essere ascritta a nessuna entità sovraindividuale.
Il singolo è l’uomo che avendo preso coscienza della propria natura, vive una condizione di distacco e di consapevolezza superiore mettendosi in rapporto con l’Assoluto senza intermediazioni essendo sovraordinato al generale.
Scrive il prof. mons. Mariano Fazio della Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo della Santa Croce di Roma in Acta Philosophica vol. 5 (1996), fasc. 2 -pagg. 221-249 “il singolo viene presentato dallo stesso Kierkegaard come la mia categoria. Sta di fatto che si può intendere l’intera produzione kierkegaardiana come un pensare soggettivamente il singolo. Pensiero etico carico di conseguenze pratiche, giacché il danese non pretendeva fondare una scuola filosofica ma soltanto rendere attenti, svegliare le coscienze. Il sistema onnicomprensivo non lascia spazio alla libertà: il sistema ridurrà la libertà a consapevolezza della necessità. La m e d i a z i o n e tra gli opposti, operata dalla dialettica hegeliana, sarà la vita dell’Assoluto, il processo necessario del suo divenire. Una mediazione dunque necessaria e non libera, dove le “libere” scelte individuali sono solo momenti dell’automanifestazione della vita assoluta dell’Assoluto. Assoluto che si identifica col mondo e con la storia universale. In questo contesto si capisce bene l’affermazione chiara e tonda di Kierkegaard: ogni confusione dei tempi moderni consiste nell’aver dimenticato la differenza assoluta, la differenza qualitativa tra Dio e il mondo.”
L’avere dato nel sistema hegeliano una connotazione divina allo Stato come manifestazione dello Spirito, ha creato tutti i presupposti perché si sviluppassero le linee di pensiero, sia con il nazismo che con il comunismo, che hanno schiacciato l’uomo e la sua libertà in nome dell’assolutizzazione dello Stato come entità eticamente superiore che in qualsiasi momento decide della vita e della morte delle persone secondo i principi ispiratori dello stesso, annullando la libertà dell’individuo ed anche la sua responsabilità. Questo processo deresponsabilizzando il singolo ha avuto gioco facile nell’imporgli scelte, che se anche non totalmente condivise, lo sollevavano dalla difficoltà, alle volte tragica, di scegliere liberamente tra il bene e il male.
Dice il filosofo danese in Timore e Tremore “il paradosso della fede consiste dunque nel fatto che l’individuo è superiore al generale, in modo che (per ricordare una distinzione dogmatica) oggi raramente impiegata, l’individuo determina il rapporto col generale mediante il suo rapporto con l’assoluto e non già il suo rapporto con l’assoluto mediante il suo rapporto col generale……L’eroe tragico rinuncia a se stesso per esprimere generale; Il cavaliere della fede rinuncia al generale per diventare individuo.” Egli introduce anche il significato dell’essere cavaliere, soggetto per antonomasia, capace di grandi imprese ma al contempo uomo solo con la sua fede e Dio come riferimento, ancorato all’Assoluto come scelta libera e nello stesso tempo obbligata per un animo superiore.
Afferma Kierkegaard sempre in Timore e Tremore “il cavaliere della fede sa che è cosa magnifica appartenere al generale. Sa che è bello ed utile essere l’individuo che si traduce nel generale e che, per così dire, offre di sé stesso una edizione pura, elegante, corretta al massimo, intelligibile a tutti; conosce il conforto di diventare comprensibile a se stesso nel generale, in modo da comprendere quest’ultimo e in modo che ogni individuo che comprenda lui stesso, comprenda anche il generale, ambedue trovando la loro gioia nella fiducia del generale. Sa come è bello essere nato quale individuo che nel generale ha propria patria, la propria dimora amica, sempre pronta a riceverlo quando voglia abitarla. Ma sa anche che sopra quella regione serpeggia un cammino solitario, stretto e ripido; sa quanto sia terribile essere nato solitario fuori dal generale, e camminare senza incontrare mai un solo compagno di strada. Sa perfettamente dove egli è, e come si comporta verso gli uomini. Per essi è un pazzo e nessuno può comprenderlo.” Questa solitudine è anche la sua salvezza, la possibilità per lui di raggiungere la pienezza della sua esistenza.
Inoltre Kierkegaard, si occupa principalmente di un aspetto dell’esistenza: il Singolo come individuo concreto. Egli ribalta la nozione hegeliana di “concretezza”: essa non è più la totalità, ma l’individuo. Dice Kierkegaard in La malattia mortale (Le grandi opere filosofiche e teologiche, trad. it. a cura di C. Fabro, Bompiani/RCS Libri spa – collana Il pensiero occidentale, Milano, 2013, p. 1689) “l’io è la sintesi cosciente di infinito e finito, che si mette in rapporto con sé stessa, il cui compito è divenire sé stessa, compito che non si può risolvere mediante il rapporto a Dio. Ma diventare sé stesso è diventare concreto. Diventare concreto, poi, non è né diventare finito, né diventare infinito, perché ciò che deve diventare concreto è una sintesi. Lo sviluppo deve quindi consistere nel distaccarsi infinitamente da sé stesso infinitizzando l’Io e nel ritornare infinitamente a sé stesso, rendendolo finito”.
Come già sosteneva Aristotele, l’esistenza è propria solo dell’individuo nella sua specifica concretezza possedendo anche aspetti particolari e irripetibili che lo caratterizzano personalmente, e che non si possono ascrivere alla sua essenza universale. Da questa idea ne discende l’irripetibilità di tutte le forme di vita, sia umana o animale piuttosto che vegetale, pensando come unico l’essere vivente lo libera dalla tirannia della massa e da quella di qualsiasi organizzazione sovraindividuale. La sua stessa vita è unica ed irripetibile e degna di essere vissuta pienamente. Questo principio se applicato alle nostre strutture politiche e sociali libererebbero l’individuo dalle costrizioni massificatrici e mistificatrici tipiche dei tempi contemporanei dove l’uomo viene ridotto o a elemento numerico all’interno di una più grossa categoria come per esempio quella dei proletari o dei cittadini soldato.
“Tutto ciò ch’è massa, dirà Kierkegaard nel 1854, è dal punto di vista cristiano eo ipso perduto; perché la massa dal punto di vista cristiano è la categoria della perdizione. La salvezza sarebbe nella massa soltanto quando tutti diventassero Singoli e non ci fosse affatto massa, soltanto allora sarebbe possibile che tutti potessero andar salvi.” “Non giova se forse tu volevi far finta che solo per umiltà ti sei intruppato nella massa, ch’eri troppo umile per voler essere un Singolo. Oh, amico mio, la sovranità divina non conosce che troppo bene gli imbrogli dell’uomo e che, anche sotto pretesto di umiltà, non si tratta che di diventare massa, perché nella “massa” sta la forza dell’uomo. Ma il Dio dell’amore è nello stesso tempo un sovrano infinitamente saggio: Egli conosce la rivolta sfacciata non meno bene della rivolta di questi furfanti i quali, sotto pretesto di umiltà e di modestia, si impadroniscono astutamente del potere […] Appena si fa avanti la massa Dio diventa invisibile: questa massa, onnipotente, può, si placet, sbattere il naso contro la porta d’ingresso, ma non va più avanti, perché Dio esiste solo per il Singolo: questa è la Sua sovranità. Non è con Lui come con la maestà umana a cui il maggiordomo va a riferire dicendo: “Sua Maestà dovrà mostrarsi al balcone, ci sono ora all’incirca 20.000 persone che attendono sulla strada!”. No, quando si assembrano 20.000 uomini en masse, Dio non si fa affatto vedere. Quando c’è il Singolo, sì, allora la Maestà divina (divina anche in questo e così al disopra di tutte le forme che non occorre alcun intermediario, oh che maestà e che amore infinito! neppure un Angelo fra Lui e questo Singolo) si fa subito vedere, perché essa esiste per il Singolo.”
La criticità e il limite del pensiero hegeliano è proprio quella di avere annullato l’individuo nella massa rendendolo schiavo della stessa, cosa che invece kierkegaard ha ribaltato talmente: non è più l’individuo che sta nella massa da cui trae la sua radice e la sua ragione d’essere ma è al contrario perché l’individuo dal Generale si libera si innalza sopra di esso e ad esso partecipa come cavaliere della Fede con distacco, ma nello stesso tempo con la consapevolezza di essere da solo in una battaglia esistenziale reale che lo vede protagonista come cavaliere dell’Assoluto. Questo passaggio è fondamentale, così l’individuo è la persona unica e irripetibile contro la massificazione generale, che lo vorrebbe chiavo o servitore.
Egli ritiene che siano l’elite, le minoranze e i gruppi a fare la storia ed in questo cambia totalmente la prospettiva hegeliana. Scrive infatti in Diario “in ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli quelli che sanno: la Folla è ignorante.” Inoltre per lui il singolo non può essere sacrificato per la sopravvivenza della specie o del gruppo a cui appartiene, anche perchè ogni individuo è stato creato come immagine e somiglianza di Dio. Ma v’è di più, perché in questo contesto nasce l’esigenza per il filosofo di definire cosa contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi ed è la libertà di scelta e di decisione, che lo differenzia dagli animali i quali sono condizionati dall’istinto.
Nei sistemi totalitari l’uomo viene annullato e ridotto allo stato animalesco, proprio perché gli viene negata la possibilità di decidere autonomamente sul bene e sul male, eliminando la responsabilità come categoria quindi deresponsabilizzando e liberandolo dall’angoscia della decisione. Ecco perché ogni sistema che si regge sulle fobie recondite dell’animo umano è ben saldo: di fronte alla paura spesso gli uomini preferiscono rifugiarsi in un illusoria promessa di protezione anche se difficilmente garantita, che reclamare la propria libertà. E il caso per esempio dei regimi comunisti, che nonostante tutti i tragici fallimenti a cui abbiamo assistito nell’arco degli anni, dall’URSS a tutte le repubbliche socialiste dell’Europa dell’est, ancora resistono in diverse parti del mondo, sia offrendo la certezza di un lavoro, anche se disumano e mal retribuito, sia mettendo in atto ogni possibile metodo repressivo di qualsivoglia opposizione, e terrorizzando la popolazione con lo spauracchio del libero mercato e la perdita della tutela del piccolo reddito statale o magari ipotizzando una immaginaria aggressione di uno stato nemico. Meglio la sicurezza, dice l’uomo della strada, che la libertà, perché la possibilità genera nell’uomo il sentimento dell’angoscia.
Allora Kierkegaard distingue tre possibilità di scelta: quella dell’esistenza estetica, etica o religiosa che si presentano al singolo come opzioni tra le quali egli può orientarsi, ma l’una esclude le altre cosicché, non c’è sintesi come conciliazione e armonia fra gli opposti, ma solo un salto tra un opposto e l’altro. La dialettica hegeliana si può esprime nella formula “et-et”, mentre quella kierkegaardiana in “aut-aut”, che implica una scelta esclusiva di uno degli opposti.
L’esistenza estetica è quella in cui l’uomo vive edonisticamente andando alla ricerca della bellezza e del piacere e a loro piega tutti gli altri aspetti della vita divenendo indifferente ai princìpi, ai valori morali e alle leggi etiche tradizionali. In questo contesto la sua esistenza ben presto declinerà nella noia ed appena cessa di ricercare il suo piacere ed inizia a riflettere sulla sua condizione effimera, viene assalito dalla disperazione, poiché coglie il suo vuoto esistenziale in cui manca sia un senso che un centro. Una volta raggiunta questa consapevolezza connessa alla vita estetica, egli può liberamente decidere di cambiare tipo di vita, passando a quella etica.
Nello stadio etico, l’uomo vive conformemente a ideali morali e si assume alcune responsabilità come quelli della famiglia, del lavoro, dell’impegno nella società ed affronta con serenità i sacrifici necessari per restare fedele ai suoi doveri.
Però anche la vita etica è limitata perché essa è caratterizzata da convenzionalismo e conformismo. Inoltre l’uomo “etico” non realizza completamente la sua autentica individualità, si perde nell’anonimato e non trova la sua personalità, pertanto è necessario il salto allo stadio religioso, come presa di coscienza di questa insufficienza, infatti l’etica pura propone degli ideali assoluti difficili da realizzare a differenza di quanto sostenuto da Hegel e pertanto arriva quindi alla conclusione di dover essere insoddisfatti della propria vita visto che in essa non troviamo qualcosa che sia assolutamente buono. Questa condizione può portare ad un immobilismo spirituale tipico dello scoraggiamento che può essere superato attraverso l’esperienza religiosa.
Kierkegaard descrive lo stadio religioso nell’opera Timore e Tremore nel quale l’uomo realizza veramente sé stesso come singolarità, come individuo in rapporto diretto con Dio, difronte al quale deve lasciare finzioni, mascheramenti ed illusioni, mostrandosi a Dio e a sé stesso nella sua vera individualità, in una dimensione interiore profonda e personale, in cui Dio può prescrivergli un ordine che sfida le leggi dell’etica come prova della sua fedeltà.
Il cavaliere della fede, come lo definisce lui, a questo punto si troverà in condizione di superiorità rispetto all’universale grazie al rapporto individuale che ha con l’Assoluto.
Ed ecco che compare il libero arbitrio e la libertà, perché essa è la possibilità di scegliere tra queste possibilità, perché la vita dell’uomo è fondata sulla scelta, sulla decisione tra possibilità diverse che caratterizzano l’esistenza della persona. La vita dell’animale è determinata dalle caratteristiche della specie a cui appartiene, secondo le sue necessità, invece, la vita dell’uomo è segnata dal libero arbitrio. Nell’esistenza umana nulla è necessario: tutto è possibile, a differenza di quanto sostiene Hegel. Infatti per il filosofo tedesco tutto avviene dialetticamente e necessariamente ed in modo inevitabile, per esempio l’uomo si costituisce prima come essere etico nello Stato; poi come essere estetico, religioso, e infine filosofico. Al contrario, per Kierkegaard, ogni passaggio avviene per libera scelta, per Hegel nel terzo momento i primi due sono conservati (anche se superati), invece, per il danese, attività estetica, etica e religiosa sono abbandonati in quanto contrapposti. Fra di essi c’è un abisso e un salto. La dialettica di Kierkegaard non ammette sintesi, cioè conciliazione e armonia fra gli opposti, ma solo passaggio brusco da un opposto all’altro, e i due opposti si escludono a vicenda senza conciliarsi. Per esempio, tra la vita religiosa e le altre forme di esistenza non c’è mediazione: non è possibile essere cristiani “fino a un certo punto”. O lo si è interamente o non lo si è. La dialettica hegeliana si può riassumere nella formula “et-et”, mentre la dialettica kierkegaardiana nella formula “aut-aut”, che sta a indicare la scelta esclusiva di uno degli opposti.
Afferma Roberto Garaventa, professore ordinario di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti Pescara, Dipartimento di Scienze Economico-Quantitative e Filosofico-Educative in La Libertà in Kierkegaard “la libertà è per Kierkegaard «infinita possibilità di potere», ovvero possibilità di scegliere tra molteplici (se non addirittura infinite) possibilità. La libertà è scelta…..L’uomo è chiamato a scegliersi, a dare cioè un’impronta e una direzione precisa alla sua esistenza, non solo perché è quello che è in base appunto alle sue scelte e alle sue decisioni, ma soprattutto perché per Kierkegaard, che è un filosofo cristiano, dalle sue scelte dipende il suo destino eterno. Il singolo non ha un’essenza predefinita, predeterminata o precostituita, ma è ciò che decide di essere, è ciò che si fa in base alle sue scelte e alle sue decisioni (concezione nonsostanzialistica del singolo). A differenza delle cose che sono soltanto ciò che sono e non possono essere diversamente (cioè non possono mutare), l’uomo è una realtà non-definita, non-determinata, che ha da scegliere tra infinite possibilità. Come diranno Heidegger e Sartre, se nelle cose l’essenza precede l’esistenza, nell’uomo l’esistenza precede l’essenza……La vita individuale non si esaurisce però nella partecipazione all’universalmente-umano, ma si costituisce soltanto nella decisione cosciente rispetto all’universale: con ogni singola scelta l’individuo individualizza l’ineludibile rapporto con l’universale…….Il singolo però è anche «una sintesi» di anima e di corpo, di eternità e temporalità, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero di finito e infinito, di necessità e possibilità, come si afferma ne La malattia per la morte, mentre lo spirito (l’Io, il Sé) è il terzo elemento sintetizzante, quello che è chiamato a porre la sintesi tra corpo e anima, tra temporalità e eternità, scegliendo se fondarsi sul finito o sull’Infinito, come si afferma ne Il concetto dell’angoscia, ovvero a porre in relazione finito e infinito, possibilità e necessità, fondandosi su Dio (sulla “potenza che l’ha posto”), come si afferma ne La malattia per la morte.
Infatti «una sintesi non è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo. Questo terzo è lo spirito […] Lo spirito dunque è presente, ma come immediato, come sognante. Ora, in quanto è presente, esso è, in un certo senso, una potenza ostile, perché disturba continuamente il rapporto tra l’anima e il corpo: rapporto che sì esiste, ma anche non esiste, in quanto ottiene l’esistenza soltanto dallo spirito. D’altra parte esso è una potenza amica appunto perché vuole fondare il rapporto». Kierkegaard pensa però la libertà non astrattamente, ma nel suo farsi concreto….La scelta è quindi essenziale alla libertà: dove non c’è scelta, la libertà è un’illusione; dove dominano irresolutezza e arbitrarietà, la libertà è un’astrazione e una finzione…..Solo la libertà che si decide appassionatamente per il bene, solo la libertà che, superando l’indecisione e la paura, si risolve per Dio e si abbandona a Lui, si realizza conformemente alla sua essenza e alla sua destinazione.”
Una visione della realtà ribaltata rispetto ad Hegel in cui la responsabilità e la libertà sono proprie della persona indipendemente dalle condizioni al contorno e non ricevono legittimità dalla Stato ma dal rapporto dell’io con Dio. Difatti allacciandosi al pensiero di Aristotele, Kierkegaard afferma che “l’esistenza è sempre la realtà singola, l’astratto non esiste”. Il danese riporta la realtà alla sua vera essenza dicendo “se il pensare potesse dare la realtà nel senso di realtà, e non una realtà di pensiero nel senso di possibilità, bisognerebbe anche che il pensare potesse prendere esistenza, sottraendo all’esistenza l’unica realtà alla quale esso si rapporta come realtà, la sua propria […]: cioè, l’esistente dovrebbe col pensiero sopprimere se stesso nel senso della realtà, così da cessare anche di esistere. Oso pensare che nessuno vorrà accettare questa supposizione, che viceversa tradirebbe altrettanta fede superstiziosa nel puro pensiero come quella battuta di un pazzoide (che si legge in un poeta), che voleva scendere nel Dovre-Fjellme far saltare in aria con un sillogismo tutto il mondo. Si può essere distratti o si può diventare distratti per il continuo commercio con il pensiero puro; ma questa non è una cosa che possa riuscire, anzi fallisce completamente […] Io posso astrarre da me stesso, ma il fatto ch’io faccio astrazione da me stesso significa precisamente che nello stesso tempo io esisto”.
Scrive il prof. Mons. Mariano Fazio “nella Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di Filosofia”, Kierkegaard tenta di demolire l’identificazione idealista tra pensiero ed essere. Secondo il nostro filosofo la speculazione cerca di raggiungere la realtà dall’interno del pensiero affermando che «il pensiero non è solamente in grado di pensare, ma di conferire realtà». Per Kierkegaard invece l’esistente non si lascia pensare. Intende qui per esistere l’esistenza etica del singolo: «Esistere (nel senso di essere quest’uomo singolo) è senza dubbio una imperfezione in confronto con la vita eterna dell’idea, ma è una perfezione rispetto al non essere affatto. Una simile condizione intermedia è press’a poco l’esistere, qualcosa che conviene a una natura intermedia quale è l’uomo». Kierkegaard ammette la possibilità di un sistema logico, ma nega assolutamente la possibilità di un sistema dell’esistenza…….Il singolo, perciò, non appartiene al mondo della necessità — logica, natura, storia universale — ma a quello etico della libertà.”
Secondo Kierkegaard “l’io è libero non perché si trasferisce e si annienta nell’Infinito, neppure perché si lascia essere […] nel finito, ma perché si erge come affermazione di capacità di scegliere l’Assoluto”.
Aggiunge il prof. Mons. Mariano Fazio “la sintesi tra anima e corpo viene denominata spirito. Lo spirito pone il rapporto tra anima e corpo, dove si desta l’autocoscienza. Quando l’uomo inizia a riflettere, dopo la tappa innocente dell’infanzia, lo spirito mette l’una di fronte all’altro, l’anima e il corpo: l’io conosce i loro significati, le loro determinazioni e le loro possibilità, la loro complementarietà e la loro opposizione. Inizia così il processo dell’autocostituirsi del singolo, dell’autoaffermazione.
L’io si costituisce in un doppio rapporto: corpo ed anima si devono mettere in rapporto attraverso lo spirito, ma lo spirito allo stesso tempo è un rapporto con se stesso. Nel suo doppio rapportarsi, l’io deve scegliere se fondare l’io su un terzo, cioè sulla potenza che ha posto lo spirito, Dio, o autofondarsi su se stesso. L’io che si fonda sull’Assoluto è libertà, l’io che ha scelto se stesso come autofondante è disperazione…..Dopo queste analisi, il singolo kierkegaardiano appare come:
a) un essere individuale: le uniche cose che esistono sono singolari, l’astratto non esiste;
b) dialettico: nell’uomo ci sono diverse componenti che si devono sintetizzare;
c) in divenire: la sintesi dello spirito non è qualcosa di dato, ma uno sforzo libero
etico-religioso per trovare l’unità nel fondarsi dell’io sull’Assoluto;
d) fondato e finalizzato teologicamente: il singolo si autoafferma come un se stesso solo davanti a Dio; il mancato fondarsi sull’Assoluto porta l’io alla disperazione e alla perdita di se stesso.”
Dice Kierkegaard in La malattia mortale “ l’uomo è spirito. Ma cos’è lo spirito? Lo spirito è l’io. E l’io cos’è? È un rapporto che si rapporta a se stesso oppure è, nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso: l’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso. L’uomo è una sintesi d’infinito e di finito, di tempo e di eternità, di possibilità e necessità, insomma una sintesi[…].
Infatti, la formula che descrive lo stato dell’io quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto.”
In questa prospettiva nell’ordine umano, l’uomo è davvero libero e responsabile delle sue azioni anche volte al male a differenza di quanto afferma l’hegelismo, di cui il nostro dice in Diario “quante volte ho scritto che Hegel fa in fondo degli uomini, come il paganesimo, un genere animale dotato di ragione. Perché in un genere animale vale sempre il principio: il Singolo è inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni Singolo è creato ad immagine di Dio, che il Singolo è più alto del genere……No, l’errore è principalmente in questo: che l’universale, in cui l’hegelismo fa consistere la verità (e il Singolo diviene la verità, se è sussunto in esso), è un astratto, lo Stato, ecc.”
Scrive Cornelio Fabro, il maggiore studioso di Kierkegaard del Novecento e traduttore dei suoi Diari dalla lingua originale, in Tra Kierkegaard e Marx – Opere complete vol.9 “l’uomo moderno cerca un colloquio essenziale e non vuol più credere ai «surrogati della salvezza» in cui si è esercitato l’illuminismo, l’idealismo e il positivismo: la Ragione, l’Idea, la Scienza… e quanti altri assoluti l’uomo si è fabbricati con le sue mani, si sono infranti, lasciando l’uomo in preda allo smarrimento per l’incombente minaccia delle forze elementari dello spirito e della materia che ora si scatenano nel mondo. Le «libertà» quali sono prospettate dall’esistenzialismo e dal marxismo presentano le stesse incognite del potenziale della bomba atomica a cui resta sospesa la sopravvivenza della nostra civiltà: è alla libertà dell’uomo, alla sua decisione, che tocca decidere del suo essere e di quello del mondo. Si tratta soltanto di vedere se la decisione dell’uomo si consolida in se stessa, nel suo divenire, o se esige una dimensione metafisica e quindi teologica. Il marxismo e gran parte dell’esistenzialismo si accordano per la «chiusura» nell’immanenza, ma il loro discorso diventa sempre più solitario e l’uomo contemporaneo perde sempre più contatto col suolo fermo dell’Assoluto su cui i nostri avi hanno costruito l’arte e la civiltà che tuttavia ancora respiriamo. Dirà la seconda metà di questo nostro secolo se lo spirito avrà raccolto le sue energie per arginare le forze di risucchio della disperazione o se affranto si esporrà alla vertigine delle forze ch’egli può ben scatenare ma non dominare.”
La risposta di Kierkegaard è certamente affascinante sia dal punto di vista di un credente che anche da quello di un laico, perché riscoprire il senso dell’autentica libertà che si relazione con il proprio io, rende l’uomo ancora più consapevole delle proprie responsabilità, prima di fronte a se stessi e poi difronte al mondo. Ma poi, mi chiedo, quanti sono gli uomini che anelano questa libertà, che preferiscono essere responsabili più che sicuri? La libertà è per tutti o come nel mondo classico per alcuni capaci di apprezzarne il significato ed il valore? Questi interrogativi sono ancora per certi versi senza una definitiva risposta, se riflettiamo sul tempo che l’occidente sta vivendo, confinato nell’angolo della storia più buio, in cui le conquiste ottenute sono messe decisamente in discussione dalle emergenze sanitarie, economiche e sociali, tanto che i popoli sono costretti a rifugiarsi nelle proprie capanne di acciaio e cemento in città deserte, per sfuggire ad una realtà ottenebrata e rupestre, che sin dalla creazione è costituita di pericoli ed insidie, ma che un’illusione chiamato progresso aveva esorcizzato e scacciato dai nostri orizzonti, ma che è riaffiorata con tutta la forza di sempre riportando l’uomo alla sua condizione di “essere” nella creazione oggetto e soggetto, finito ed infinito ma non onnipotente.
Persino educare ed educarsi alla libertà è diventato quasi impossibile, se pensiamo che uno dei modelli istituzionali che viene considerato più efficace è quello della Cina maoista, in cui sull’altare della sicurezza viene sacrificata ogni libera coscienza.
Ed il lavoro, di cui si nega la necessità in vario modo, è messo in discussione, riducendo tutto a sfruttamento o degli uomini o delle risorse naturali e per alcuni andrebbe persino abolito e sostituito con un reddito universale, disconoscendo che esso dona valore alla vita e finalità a tante attività umane, giova pertanto citare quanto l’autore danese ci offre come riflessione “tanto più basso è il livello a cui si trova la vita umana, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; tanto più in alto essa si trova, tanto più compare tale necessità. Questo dovere di lavorare per vivere esprime ciò che è comune al genere umano, ed esprime anche, in un altro senso, l’universale, poiché esprime la libertà. Appunto lavorando l’uomo si libera, lavorando diventa signore della natura, lavorando mostra d’essere superiore alla natura.”
“La superiorità dell’uomo su tutto il creato è una partecipazione della Provvidenza attraverso cui Dio governa l’universo, scrive Fazio, perché l’uomo può diventare, tramite il lavoro, la sua propria provvidenza. Leggiamo questo bellissimo brano di Aut-Aut: «È bello vedere i gigli del campo, i quali, sebbene non filino né cuciano, son vestiti in modo che nemmeno Salomone, in tutto il suo lustro, era così splendido; è bello vedere gli uccelli trovare senza affanno il loro cibo, è bello vedere Adamo ed Eva in un paradiso in cui possono avere tutto ciò che additano; ma tuttavia è ancora più bello vedere un uomo guadagnare con il suo lavoro ciò di cui abbisogna. È bello vedere una provvidenza che soddisfa tutto e si prende cura di tutto; ma è ancor più bello vedere un uomo che per così dire è la sua propria provvidenza. Per questo l’essere umano è grande, più grande d’ogni altra creatura, in quanto può prendersi cura di se stesso! È bello vedere un uomo possedere in abbondanza ciò che ha da sé guadagnato, conquistato; ma è anche bello vedere un uomo che fa un giuoco di destrezza, ancora più grande, vederlo trasformare il poco in molto». Il lavoro manifesta la libertà, e perciò la possibilità di lavorare è una espressione della perfezione dell’essere umano….Il dovere di lavorare è anche il dovere di sviluppare le potenzialità che ogni uomo ha.”
In questa visione non esiste lo sfruttamento ma la realizzazione di ciascuno secondo proprie propensioni e capacità. L’uomo non è solo signore della natura ma anche di se stesso perché conquista la propria essenza attraverso la libertà, l’impegno e la responsabilità dice Kierkegaard “essere consapevoli del proprio dovere e della responsabilità che ne deriva è farsi signori di se stessi“.
L’uomo è “sintesi cosciente di finito ed infinito”, capace di grandi imprese ed eccezionali slanci, è unico, irripetibile e distinto. Ed innanzi tutto l’uomo è libertà, grazie ad essa realizza se stesso, e come disse l’ultimo Re d’Italia Umberto II mediante essa tutto è possibile senza di lei tutto è perduto.
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