L’atto della resa incondizionata del Terzo Reich, venne firmato il 7 maggio 1945 a Reims, in Francia, e ratificato il giorno seguente in una Berlino completamente devastata. Non tutti i reparti in armi, però, cessarono i combattimenti. In particolare, scontri armati avvennero in quattro località. In ordine cronologico si tratta delle battaglie di Texel (isola di fronte alla costa olandese), Praga e soprattutto Poljana, in Slovenia, e Odzak, nel nord della Bosnia.
Fu quindi a Odzak che avvenne l’atto finale della seconda guerra mondiale in Europa, anche se, per esattezza storica, l’ultimo reparto combattente ad arrendersi e deporre le armi, segnando effettivamente la fine della seconda guerra mondiale, fu il presidio tedesco della stazione meteorologica di Haudegen, nell’arcipelago norvegese delle isole Svaalbard, il 9 settembre 1945, dopo la firma della resa del Giappone, sancita il 2 settembre, che quindi non può essere considerato, a tutti gli effetti, il vero momento conclusivo del conflitto.
Dal 19 aprile al 25 maggio 1945, cioè per un mese e sei giorni, Odzak fu teatro di una accanita battaglia tra le forze armate del maresciallo Josip Broz Tito (1892-1908), e gli Ustascia di Ante Paveliç (1889-1959, fondatore del movimento nazionalista dei cosiddetti “insorti”, Ustascia appunto, e dell’autoproclamato Stato Indipendente di Croazia, oppositore della monarchia jugoslava che, al termine del conflitto, si rifugiò in Austria, quindi a Roma, poi in Argentina e, a seguito di un attentato per mano di un esiliato cetnico serbo, nuovamente in Austria e infine in Spagna, dove morì per le ferite riportate).
L’esito dello scontro di Odzak fu favorevole ai partigiani jugoslavi, e per questo motivo, gli avvenimenti sono rimasti per molti anni avvolti da silenzio del regime di Tito, comprese le tragiche conseguenze degli scontri, sfociati in spietate rappresaglie non solo contro i combattenti nemici, ma anche nei confronti della popolazione e delle comunità musulmane che avevano trovato riparo nella zona.
Protagonisti della vicenda furono i comandanti partigiani titini Milos Zekiç, Mato Beliç e Spaso Miciç con le divisioni serbe 25a e 27a da una parte (per un totale di circa 35mila uomini), e i comandanti Petar Rajkovaciç (con gli Ustascia), Ibrahim Pjaniç, Ivan Calusiç e Avdaga Hasiç dall’altra, con circa 4.000 uomini. Furono oltre 10.000 i morti fra i reparti partigiani, e circa 2.000 quelli della parte avversa.
Lo scenario storico
La cittadina di Odzak sorge vicino al corso dei fiumi Bosna e Sava, nel nord di quella che oggi è la Bosnia-Erzegovina, in un territorio pianeggiante disseminato di piccoli paesi verso nord-est, mentre a sud e ovest si ergono i rilievi della catena di Vucjak.
Com’è noto, la Jugoslavia venne invasa dalla Wehrmacht (operazione Strafekspedition) insieme a truppe italiane e ungheresi, nell’aprile 1941 e, in poco più di due settimane, l’esercito del reggente, principe Paulo Karadordeviç (1893-1976), fu sconfitto. Mussolini ottenne l’annessione di diverse porzioni del regno, annesse all’Italia (che per altro aveva già occupato l’Albania), altre zone furono assegnate all’Ungheria, ma la Germania mantenne sempre l’egemonia fra le truppe d’occupazione.
La parte di territorio rimasto, per così dire, disponibile, andò a costituire lo Stato Indipendente di Croazia, affidato al regime collaborazionista di Ante Paveliç, amico personale del Duce e acceso simpatizzante del Reich, che mantenne l’assoluto dominio grazie al corpo degli Ustascia, ferocemente anti-semiti, anti-musulmani, fortemente cattolici, anti-comunisti e profondamente avversi all’etnia serba. Di fatto, nonostante fosse stato ufficialmente denominato Stato Sovrano, si trattava comunque di una sorta di protettorato italiano e, dopo il 1943, a tutti gli effetti una entità fantoccio del Reich, dopo che la Guardia Nazionale (con circa 130.000 uomini), fin troppo funestata dal fenomeno della diserzione di massa, a tutti gli effetti non costituiva più alcun rischio e venne sovvertita dagli Ustascia che, da fazione armata del partito di Paveliç, si erano guadagnati fama di combattenti spietati, responsabili di numerosi atti criminali contro la popolazione e controllavano anche una struttura repressiva con oltre una ventina di campi di concentramento. La vicinanza ideologica alla Germania di Hitler era tale che gli Ustascia fornirono anche il proprio contributo all’invasione dell’Unione Sovietica, con reparti inseriti nella Wehrmacht e nelle Waffen-SS, come il 369° Reggimento motorizzato, che prese parte anche alla tragica battaglia di Stalingrado.
Per ordine di Hitler, nel novembre ‘44 Guardia Nazionale e Ustascia furono unificati per formare le nuove forze armate croate, equipaggiate e addestrate dal Terzo Reich e sotto diretto comando tedesco.
Nel frattempo, il Partito Comunista Jugoslavo si ridusse nella clandestinità e, da organizzazione relativamente piccola (poco più di 12.000 membri), cominciò a crescere e organizzarsi, soprattutto grazie al sostegno dei servizi segreti britannici, fino a diventare un vero e proprio movimento di resistenza armata, che dalla prima metà del luglio ‘41, diede inizio alla lotta armata.
Inizialmente i successi furono di portata limitata, sebbene i partigiani jugoslavi riuscissero a rispondere ai colpi inferti dalle truppe di occupazione, specialmente dalle unità di repressione tedesche, nonché dalle forze croate e, non di rado, da altre formazioni irregolari nazionaliste serbe.
Nel ‘42, i partigiani jugoslavi si erano evoluti, sia tecnicamente che numericamente e, grazie alla presenza degli istruttori inviati dall’SOE (Special Operations Executive, organismo voluto da Churchill per missioni speciali di sabotaggio, infiltrazione e sostegno dei movimenti di resistenza nell’Europa occupata) e, divennero esperti nelle tecniche di guerriglia, contando oltre 150.000 combattenti. Nel ’43 erano il doppio, e ben 650.000 nel ’44. Alla fine della guerra avevano raggiunto la sorprendente cifra di 800.000.
La guerra antipartigiana in Jugoslavia fu particolarmente spietata: a ogni colpo inferto dai partigiani, gli Ustascia e le truppe tedesche rispondevano con atroci rappresaglie e attaccavano a loro volta, circondando vaste zone dov’erano stati segnalati nascondigli partigiani. Furono combattute accanite battaglie, con perdite molto pesanti da parte degli stessi partigiani e, sebbene le forze dell’Asse fossero giunte più di una volta a un soffio dall’eliminare la intera leadership, e per primo il maresciallo Tito, non riuscirono mai a ottenere una vittoria definitiva.
Il sostegno britannico venne intensificato a partire dalla primavera del ’43, poiché i Balcani costituivano motivo di profonda preoccupazione per la politica inglese (e soprattutto per la politica di Churchill) in Europa e per la conduzione della guerra, giocando d’anticipo rispetto alle mire geopolitiche di Stalin, e infatti l’Armata Rossa non effettuò alcun sostanziale collegamento o collaborazione con i partigiani jugoslavi fino alla fine del ’44.
All’inizio del ’45, i rovesci militari sugli altri fronti e gli avvenimenti politici, costrinsero Italia e Germania a trasferire diverse divisioni in prima linea, sia contro gli angloamericani a ovest e sud, che contro l’Armata Rossa a est, e i partigiani ne approfittarono, liberando gran parte della Jugoslavia.
Il Gruppo Armate E della Wehrmacht cominciò a risalire i Balcani per entrare in Austria, dove lo stesso Ante Paveliç si era rifugiato, trascinandosi dietro migliaia di sbandati dell’ormai ex regime collaborazionista e, il 6 aprile ’45, i partigiani liberarono Sarajevo, capitale della Bosnia. Numerose formazioni partigiane cominciarono allora a inseguire le truppe di occupazione tedesche e croate in fuga verso nord e ovest, proprio in direzione di Odzak. In particolare, la decisione di Petar Rajkovaciç, colui che comandò la difesa ustascia a Odzak, derivò dalla rinuncia di Ante Paveliç a difendere Zagabria, da dove erano giunti oltre mille Ustascia, fra cui anche il fratello, Ivan Rajkovaciç.
La battaglia
Pochi, quindi, gli elementi certi e verificati, come il fatto che il comandante degli Ustascia, il 26enne Petar Rajkovaciç (1929-1945), scelse di rimanere a Odzak, sua città natale, anziché unirsi al flusso di truppe in marcia verso l’Austria. Profondo conoscitore del territorio, Rajkovaciç raccolse circa 4.000 uomini più che discretamente equipaggiati, e con il tempo a disposizione per predisporre le difese, sfruttando la conformazione del territorio e la presenza dei fiumi a nord e a est. In attesa dell’attacco partigiano, furono scavate trincee, predisposti campi minati, stesi reticolati di filo spinato e costruiti anche diversi bunker e postazioni difensive, fra i circa 25 piccoli paesi della zona, inserita in un delicato scacchiere strategico che comprendeva Novigrad, Donji Brezik, Vlaska Mala, Odzak e Mrka Ada. Inoltre, in quella zona, c’erano molti profughi musulmani bosniaci provenienti da Kladanj, Plehana, Zepce, Sivse, Graçanica e altre cittadine e villaggi.
Il Comando del 3° Corpo Partigiano, composto dalle divisioni 27a, 28a e 53a, ordinò l’attacco il 19 aprile. I partigiani cominciarono l’avvicinamento con una manovra avvolgente, più con l’intenzione di ostacolare la ritirata tedesca, ma a un certo punto Odzak venne a trovarsi proprio al centro dello schieramento difensivo di Rajkovaciç. I primi tentativi di sfondamento furono respinti e costarono gravi perdite, dal momento che i partigiani non disponevano di artiglieria, mezzi corazzati o supporto aereo, quindi adottarono la tattica del logoramento, portando colpi isolati per fiaccare il nemico fino alla resa. A loro volta, i partigiani respinsero gruppi di Ustascia a Vlaska Mala, villaggio in campo aperto, senza alcuna difesa naturale nelle vicinanze di Odzak. Alcuni ufficiali Ustascia tentarono anche di intavolare negoziati con i partigiani, ma senza alcun esito. Un numero minore di Ustascia si arrese, sperando nel trattamento dovuto ai prigionieri di guerra, ma andarono incontro a torture, mutilazioni e morte. Tali azioni fecero certamente aumentare la determinazione dei difensori a combattere fino all’ultimo, sostenuti da una migliore organizzazione ed equipaggiamento, e dalla completa visuale su tutte le strade di accesso, e usavano una tattica che sembrava molto strana ai comandanti partigiani: lasciavano avvicinare le unità nemiche a 10 metri e poi aprivano il fuoco. Le perdite partigiane furono massicce, molti rimasero feriti sul campo senza alcun aiuto e altri furono uccisi perché cercavano di salvare la loro bandiera.
Il contrattacco degli Ustascia e l’offensiva finale dei partigiani
La roccaforte degli Ustascia fu successivamente attaccata dai paesi di Duge Njive e Lipik, ma la manovra non modificò la situazione. Per dare alle sue unità più spazio di movimento, Rajkovaciç ordinò un allargamento della linea di difesa. Lo stesso Rajkovaciç prese il comando dell’ala orientale, mentre Ivan Calusiç assunse il comando di quella occidentale. In un primo tempo costretti a evacuare Odzak, gli Ustascia si divisero in quattro gruppi, più una compagnia diretta da Nikola Sanjiç e da altre formazioni, Il piano era di attuare alcune manovre diversive, mentre l’unità di Rajkovaciç eseguiva il contrattacco, puntando direttamente al centro del paese. I partigiani furono colti di sorpresa, non seppero mantenere la continuità delle proprie linee, e non riuscirono a evitare la conquista nemica del loro stesso quartier generale, cioè il palazzo comunale. La battaglia fu così brutale che l’intero centro abitato venne raso al suolo. Dopo che gli Ustascia riconquistarono Odzak, costruirono le nuove linee di difesa che durarono fino al 25 maggio.
Le perdite fra i partigiani furono altissime, la 20a Brigata “Tempesta Serba” fu completamente annientata in poche ore, causando una reazione di vendetta, sfociata in atti di brutalità contro i civili, proclamati “criminali fiancheggiatori degli Ustascia”. Centinaia di anziani, donne e bambini furono massacrati senza pietà.
Successivamente, un gruppo di Ustascia, guidato da Ibrahim Hujduroviç e Avdaga Hasiç decise attaccare la 14a Brigata Partigiana, nota per essere un’unità “abituata alla vittoria”. La carica degli Ustascia fu a tal punto fragorosa che i titini si dispersero in diverse direzioni, senza opporre resistenza. Fu a questo punto che la battaglia cominciò a essere combattuta casa per casa, fra cumuli di macerie.
Le unità titine furono poi rinforzate con elementi della 27a Divisione “Tuzla”, composta dalla 19a Brigata “Birćanska”, dalla 20a Brigata “Romanija” e dalla 16a Brigata. Nel frattempo, il famoso comandante partigiano, Mato Belić, che conosceva molto bene Odzak, assunse il compito di rompere le linee degli Ustascia e riconquistare la città.
Per riconquistare Odzak, i partigiani furono equipaggiati con armi più moderne e ricevettero disposizioni per non tenere conto delle perdite, ma di attaccare fino alla vittoria, secondo le stesse parole del maresciallo Josip Broz Tito. Furono messi in campo artiglieria, mortai e lanciarazzi sovietici Katyusha e nuovi collegamenti radio. Ebbe quindi inizio la fase finale della battaglia di Odzak che, in principio, vide prevalere ancora i difensori.
A questo punto venne deciso l’intervento aereo, in particolare per dare una svolta decisiva in quanto era imminente il compleanno del maresciallo Tito, e la vittoria a Odzak doveva essere il regalo.
Il 23 maggio, da Belgrado decollarono due squadroni, che bombardarono Odzak, Ada, Balegovac, Dubica, Prud, Vojskova, Osjecak e soprattutto il bunker-comando di Vlaska Mala e la scuola elementare dove Rajkovaciç aveva basato il proprio comando. Agli aerei si aggiunse poi l’artiglieria titina a lungo raggio e alcuni carri armati. Le vittime civili, in questa fase furono numerosissime.
Il comandante Rajkovaciç rimaneva intenzionato a resistere, ed elaborò una nuova manovra: divise i propri uomini in due contingenti: a uno fu ordinato di riconquistare l’ospedale di Odzak, all’altra di rinsaldare le linee fino alla roccaforte di Nuica Stala, che però nel frattempo era stata presa dai titini.
Il combattimento nella città durò fino alla notte del 25 maggio, quando gli Ustascia si spostarono sia verso la parte montuosa dell’abitato, sia a Prud. I circa 700 difensori che presidiavano a Vlaska Mala, riuscirono a oltrepassare l’accerchiamento e arrivarono a Potocani e Lipa. A Nuica Stala si svolsero violentissimi scontri, ma i partigiani erano ormai penetrati all’interno della città. Arrivarono anche all’ospedale, dove trovarono molti feriti e civili, che furono brutalmente massacrati. Diversi altri furono uccisi per le strade o all’interno dei nascondigli e dei ripari, e quindi gettati in una fossa comune, conosciuta come “cimitero di Nuić”.
L’8 maggio, quando si diffuse la notizia della resa tedesca, i titini credettero che anche la guarnigione di Raikovaciç avrebbe fatto lo stesso, ma non fu così. Il giorno seguente, giunti rinforzi e alcuni cannoni, i partigiani portarono le artiglierie a ridosso delle posizioni difensive nemiche e aprirono il fuoco, con lo scopo di effettuare un bombardamento preliminare e quindi attaccare in forze. Anche questa manovra però si risolse in un disastro: gli Ustascia respinsero rovinosamente i titini, rifiutando qualsiasi proposta di resa, anche di fronte al fatto che le forze armate croate si erano a loro volta arrese il 15 maggio.
La svolta fu comunque l’attacco aereo, che diede uno scossone allo stallo del fronte e, il 25 maggio, i partigiani attaccarono ancora, riuscirono a sfondare le linee degli Ustascia e conquistarono Odzak.
Gli effetti psicologici dell’uso di armi potenti e distruttive ebbe effetti determinanti sul morale dei difensori croati e sui civili. I bombardamenti continuarono incessantemente fino al 24 maggio ‘45. Dall’altra parte del fiume Bosna i civili chiedevano ai soldati croati di arrendersi, perché non sarebbe successo loro nulla. Dopo la resa furono sistemati nelle scuderie della vicina Garevac, preparate in anticipo a tale eventualità. Garevac era già stato un luogo dove i serbi avevano perpetrato atrocità contro i croati, come alla fine del ‘44, durante l’assedio di Tuzla, quando i cetnici serbi, su ordine del leader Draza Mihajlovic (1893-1946, leader dei cetnici serbi e fondatore del cosiddetto “Esercito Jugoslavo in Patria, ferocemente ostile a Tito, fu catturato alla fine del conflitto e giustiziato), attaccarono Modrica e Garevac, uscendone duramente sconfitti, e decidendo poi di non attaccare più postazioni militari croate, ma i villaggi nella zona, rendendosi colpevoli di stupri, torture e uccisioni indiscriminate.
Il numero delle vittime della battaglia di Odzak è ancora oggi imprecisato. Alcune fonti affermano che i partigiani persero oltre 1.200 uomini, altre sostengono che furono circa 10mila. Gli storici concordano, tuttavia, sul fatto che la maggior parte degli Ustascia furono uccisi in combattimento, ma in gran numero passati per le armi dopo la fine degli scontri, mentre diversi sopravvissuti Ustascia raggiunsero Lipa e Plandisć e continuarono a combattere nelle foreste, finché furono tutti uccisi entro la primavera del 1947, mentre, all’interno di Odzak, i partigiani iniziarono ad arrestare tutti i maschi dai 15 anni in su, e in diverse occasioni giustiziarono sommariamente anche ragazzi di soli 10 o 15 anni. Stessa sorte per i combattenti che si arrendevano e deponevano le armi, secondo gli ordini del comandante in capo, Tito: nessun prigioniero. Fra i numerosi morti sul campo, oltre a un intero battaglione della 27a divisione, anche Spaso Miciç, comandante della 16a brigata della stessa unità. I titini persero inoltre gran parte dell’equipaggiamento, tre batterie di artiglieria, diversi mortai e armamenti anticarro.
Petar Rajkovaciç, ferito due volte negli attacchi aerei, rifiutò sempre di arrendersi, e si suicidò il 25 maggio, giorno in cui terminò la battaglia di Odzak.
Il massacro e la liquidazione dei croati, militari e civili, seguirono in grande quantità. Molti prigionieri furono portati a Garevac, e sommariamente uccisi. Per questo, e altri motivi, la battaglia di Odzak e le sue conseguenze furono gelosamente custodite come segreto dai partigiani di Tito, e durante tutto il periodo della Jugoslavia comunista.
L’occultamento del dopoguerra
Le versioni storiche si diversificano, sono contrastanti e difficili da verificare, a seconda della paternità delle versioni che vogliono dominare la cronaca. Nel dopoguerra, le autorità jugoslave avevano tutto l’interesse a minimizzare i fatti, con lo scopo di mantenere unito l’eterogeneo mosaico geopolitico, mentre la parte avversa, cioè i nazionalisti croati, furono sempre fermi nel proposito di esaltare la disparità delle forze in campo, per dare una versione basata sul concetto di eroismo e sacrificio, in nome dell’indipendenza.
Nel territorio della Federazione Socialista di Jugoslavia, menzionare la battaglia di Odzak era proibito, pena essere accusati di “complotto contro l’Unione Fraterna Jugoslava”.
Solo nel 1971 il giornale serbo “NIN”, pubblicò due articoli sulla battaglia, rivelando una storia che fino a quel momento era nota solo alle autorità jugoslave e alle persone che l’avevano vissuta. Fu l’unico giornale a scrivere della battaglia di Odzak, ma evitando di scendere in particolari e anzi, riportando il 14 aprile come giorno della liberazione di Odzak, e non il 25 maggio ’45, per motivi più che evidenti, e scrivendo che la fase più cruenta dei combattimenti si ebbe fra il 19 e il 28 aprile. Gli Ustascia erano descritti come invasati e decisi a non cedere in quanto convinti di difendere lo Stato Indipendente di Croazia. Fu solo negli anni ’90, con il disfacimento della Jugoslavia, che i fatti di Odzak cominciarono a essere diffusi, grazie all’apertura degli Archivi di Stato.
La battaglia è anche ampiamente descritta in alcuni libri, ad esempio, in un testo del 1969 sulla 53a Divisione, in uno pubblicato nel 1981 sulla 16a Brigata musulmana, in un altro del 1983 sulla 27a Divisione bosniaca orientale, e in uno dello stesso anno sulla 14a Brigata bosniaca centrale.
Nel 2012 Stipo Pilic e Blanka Matkovic hanno scritto un ampio saggio sulla battaglia di Odzak e sulle operazioni militari nell’area di Podvucjak, in una approfondita analisi che, oltre alle operazioni sul campo, analizza anche i rapporti fra partigiani e cetnici, e una ricerca sulle identità di coloro che hanno commesso crimini sia di guerra che postbellici contro la popolazione croata in quest’area, nel maggio 1945. Molti aspetti, comunque, devono essere indagati, non ultimo la mancata persecuzione dei responsabili dei massacri contro i civili. Per questo gli storici considerano tutt’altro che chiusa la questione Odzak.
BIBLIOGRAFIA
“53a Divisione Bosnia Centrale” – Drago Karasijević, 1969;
“La 16a Brigata Musulmana” – Ćamil Kazazović, 1981;
“27a Divisione Bosnia Orientale” – Ahmet Donglagiç, 1983;
“La 14a Brigata Bosnia Centrale” – Stevo Samardžija, 1983;
“I partigiani di Tito 1941-1945” – Velimir Vukšić (2017);
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