Quando insegnavo Musica nelle Scuole Medie spesso gli alunni mi chiedevano un’opinione sul nuovo “cantante Rap” che in quel momento riscuoteva i loro favori. I nomi degli artisti in questione non li ricordo, anche perché c’è solo una categoria, nel mondo dello spettacolo, più effimera dei “cantanti Rap”: quella delle pornostar, la cui vita artistica dura il tempo di uno squirting.
La mia risposta, comunque, era sempre la stessa: “Mi rifiuto di considerarli dei cantanti, perché il Rap non è canto, inteso come melodia. Il nome corretto è “Rappers”, ma cantanti, quello proprio no!”.
Subito dopo essermi pronunciato non potevo non cogliere lo sguardo deluso e spiazzato di molti di loro, di fronte ad una negazione così perentoria.
Inevitabilmente ne seguiva un dibattito, con dovizia di esempi e motivazioni da parte mia, che finiva con l’esaurire l’intera ora di lezione e i cui contenuti, a grandi linee, vorrei riproporre qui.
Si ha “canto”, propriamente detto, quando la voce riproduce una melodia, o successione di note, che possono essere eseguite anche da uno strumento musicale a suono determinato. Non a caso la tendenza di tutti i più grandi compositori della storia, in particolare Mozart, Rossini e Wagner, è stata quella di trattare la voce come uno strumento musicale, ovviamente nei limiti delle sue possibilità di estensione, durata e agilità, inferiore a quella degli strumenti. La radice stessa della parola “melodia” deriva dal greco “melos” (μέλος), che infatti significa “canto”.
Il Rap, invece, non è altro che un eloquio molto veloce su un’essenziale base di batteria, con un giro di basso minimalista, forti accentuazioni ritmiche e con lievi estensioni della voce nell’ambito di intervalli molto brevi, cioè tra note vicine. Nel canto la voce deve essere “plasmata” nella riproduzione perfetta delle note della melodia, con una chiara percezione dell’armonia e rispetto del ritmo. Il che richiede, oltre a buone doti musicali, un timbro di voce gradevole, o quantomeno caratteristico, studio e ricerca della perfezione, perfino per i brani musicali più semplici. A titolo di esempio: migliaia di persone nel mondo, anche adesso mentre scrivo, stanno canticchiando “My way”, però Sinatra è , semplicemente, irraggiungibile:
Per interpretare un brano Rap, invece, è sufficiente avere una parlantina sciolta e un testo, più o meno decente, da mitragliare nelle orecchie degli ascoltatori. Ne consegue, e il parallelo con le pornostar calza a pennello, che chiunque, purché dotato di un minimo di disinvoltura vocale, può assurgere al ruolo di “artista”, una volta che la scelta di produttori, manager e discografici sia ricaduta su di lui. Un po’ come in quelle gare sportive dove una medaglia non la si nega a nessuno e ogni atleta torna a casa soddisfatto e mazziato.
Durante una lezione fu proprio un mio allievo a confermare, involontariamente e in maniera assai divertente, la mia tesi: il ragazzo si ostinava a definirsi un cantante, poiché aveva composto un brano Rap, suscitando l’inevitabile mix di invidia e ammirazione tra i compagni.
<<E il titolo del brano?>> gli chiesi, per pura curiosità.
<< Si chiama ”Vi parlo un po’ di me”>>
<<Se tu fossi davvero un cantante avresti dovuto intitolarlo “Vi canto un po’ di me”, giusto?>>
La sua risposta incoerente e quasi balbettata, insieme a qualche sfottò dei compagni, sancì definitivamente la mia vittoria nel dibattito.
Lungi da me tuttavia, e questo lo spiegai chiaramente anche ai miei allievi, l’idea di togliere dignità artistica al Rap, ma solo se i testi proposti sono interessanti, come potrebbe essere una bella poesia dal contenuto magari un po’ aggressivo. A tal proposito mi sento in dovere di citare due Rappers, tra i pochi che ho avuto modo di ascoltare, che ritengo validi artisti, dotati di fantasia e padronanza del linguaggio; il che, al di là delle loro propensioni politiche, permette ai testi di cogliere nel segno con messaggi espressivi ed efficaci: mi riferisco a Caparezza
e a Frankie Hi-NRG:
Per tali ragioni dunque il Rap andrebbe accomunato, più che alla musica in senso melodico, alla recitazione di un testo poetico o teatrale, peraltro senza aver portato niente di nuovo alla luce del sole: la metrica è sempre esistita, fin dai tempi di Omero, così come nel Melodramma si alternavano stili vocali ben distinti: l’Aria, il Concertato e il Recitativo. I prime due musicalmente molto più elaborati e quasi sempre di estrema difficoltà virtuosistica o interpretativa, per mettere alla prova la bravura dei cantanti. Il Recitativo invece, uno stile canticchiato e ritmicamente accentuato, abbastanza simile al Rap, serviva a sveltire l’azione teatrale e a valorizzare la capacità di recitazione degli interpreti, nonché il testo del librettista. L’equilibro perfetto tra questi stili, a mio modo di vedere, lo si è raggiunto nelle tre più celebri opere in italiano di Mozart, “Le nozze di Figaro”, il “Don Giovanni” e “Così fan tutte”: nelle Arie e nei Concertati esplode il genio del Salisburghese, mentre nei Recitativi la fa da padrone il grande talento poetico, se non il genio, di Lorenzo da Ponte:
Tornando ai nostri giorni, già prima dell’avvento del Rap molti musicisti Blues alternavano il parlato al canto duranti i concerti, in funzione narrativa e sempre sulla base delle canoniche dodici battute, così come Frank Zappa ha utilizzato una sorte di voce recitante in almeno due brani, “Dinah Moe Hum”
e “I am the slime”,
due capolavori nei quali lo stile parlato mette in risalto la frenetica comicità di un terzetto erotico con due ragazze e l’inquietante potere di persuasione occulta della televisione.
Ma questo dimostra una cosa, a sostegno della mia tesi: che se per un musicista (e che musicista, nel caso di Zappa!…) è facile impostare la voce in stile Rap, raramente un Rapper sa cantare una melodia decente. Non è un caso, infatti, che per rendere meno monotono e più musicale un loro brano, gli autori vi inseriscano stacchi melodici, quasi sempre affidati a cantanti professionisti o ad un coro: il che dimostra, una volta di più, una certa “sudditanza” del Rap nei confronti della melodia, quantomeno dal punto di vista uditivo.
Con questa ultima osservazione concludevo le mie lezioni, lasciando ai miei alunni un solo rifugio dialettico nel quale andarsi a rintanare per difendere i loro “cantanti”: il criterio del successo commerciale, a prescindere dalle effettive capacità musicali o poetiche dell’idolo di turno.
La qual cosa non mi sorprendeva, in un ambiente nel quale i DJ definiscono come “suonare” il loro virtuosistico contributo alla musica, che consiste nel far girare dei dischi o CD per far ballare la gente…
La mia risposta era sempre la stessa: nel calderone dello show business, pur di vendere, si aggiungono ingredienti di banalità a iosa, illudendo il pubblico, soprattutto i giovanissimi, che il produrre arte sia facile, “democraticamente” alla portata di tutti. Dunque compito dei veri artisti, dei critici musicali e dei docenti dovrebbe essere proprio quello di “prendere le distanze e stabilire gerarchie di valore” (Nietzsche insegna!), tracciando confini netti tra l’eccellenza e la mediocrità, tra la merce di pregio e la paccottiglia ad uso delle masse.
Per farmi intendere meglio, senza tirare in ballo la grande filosofia, concludevo con una battuta che suscitava ilarità e, mi auguro, anche una certa presa di coscienza nei miei alunni:
<<Ragazzi, in campo artistico scordatevi la balla demagogica che “Tutti i gusti son gusti”. Semmai, “Tutti i gusti son guasti”!”
Il relativismo non è pericoloso solo in campo etico, ma anche in campo estetico, perché si rischia di far passar il messaggio che Mozart e Bello Figo, che ha il talento musicale di un’Alouatta, siano sullo stesso piano.
Quale fosse il significato di questa misteriosa parola che, dal punto di vista tassonomico, indica il genere di appartenenza dell’ “artista” in questione, lo lasciavo scoprire ai miei alunni.
E, magari, anche a Voi che leggete…
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.