Una vicenda ancora poco nota che si è sviluppata per oltre dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla proditoria invasione della Manciuria da parte dell’Armata Rossa.
L’8 agosto 1945, due giorni dopo il bombardamento atomico di Hiroshima, Josif Stalin dichiara guerra al Giappone (paese con il quale l’Unione Sovietica era in stato di pace) che si arrenderà il 31 agosto seguente. E’ un conflitto che non tutti i libri di storia riportano, nel corso del quale i russi, intenzionati ad espandersi in Estremo Oriente in accordo con il presidente statunitense Franklin D.Roosevelt, impiegano un milione e 600.000 uomini, 3.000 mezzi corazzati, 1.852 cannoni e 5.368 aerei (di cui 4.807 caccia). Dispositivo che viene fronteggiato dai giapponesi, ormai dissanguati dal conflitto, con poco più di un milione di uomini, 1.215 veicoli corazzati, 1.800 aerei e 6.700 fra cannoni e mortai.
L’attacco russo, guidato dal maresciallo Rodion Jakovleviç Malinovski, si sviluppa in Manciuria trovando una blanda resistenza, mentre il generale M.A. Purkajev arriva alla città di Fu-Chin, che capitola il 25 agosto. Il maresciallo Aleksandr Vasilievski incontra invece accanita resistenza sull’isola Sakhalin, dove i giapponesi combattono fino all’annuncio della resa. Le isole Curili vengono occupate completamente dai russi il 20 agosto, in soli 22 giorni.
Al termine di questa guerra lampo, l’Armata Rossa viene a trovarsi in possesso notevoli porzioni di territorio nipponico, a fronte (secondo le stime ufficiali) di circa 12.000 caduti e 915 dispersi. Mentre da parte giapponese vengono denunciati 22.000 morti, anche se fonti sovietiche parlano di almeno 80.000. la cifra maggiormente preoccupante riguarda però l’oltre mezzo milione di prigionieri nipponici caduti nelle mani dei russi: massa che viene rinchiusa nei gulag della Siberia e della Mongolia.
Nell’estate del 1945, la maggior parte dei circa 3 milioni e mezzo di soldati nipponici impegnati fuori dai confini nazionali vengono disarmati dalle forze angloamericane e del Kuomintang cinese, venendo rimpatriati nel 1946; cosa che non fece l’Unione Sovietica. Secondo i dati, nonostante la dichiarazione ufficiale di resa di Tokyo, Stalin mantenne molto più a lungo in stato di prigionia la gran massa di soldati nipponici catturati in Manciuria, in modo da poterli sfruttare il più possibile come schiavi nei campi di lavoro.
Ai soldati giapponesi rinchiusi nei gulag russi non venne concesso lo status di “prigionieri di guerra”, ma soltanto quello di “internati”, dal momento che, gran parte di essi, non erano stati catturati durante i combattimenti, ma avevano deposto le armi dopo la fine delle ostilità. Il numero di coloro che erano stati catturati in azione risultò infatti molto limitato rispetto a quelli che si erano arresi spontaneamente.
Dopo la sconfitta dell’armata del Kuantung in Manciuria, migliaia di giapponesi furono inviati nei campi della Corea settentrionale, dell’isola di Sakhalin, dell’arcipelago delle Curili, a Prìmorski, Khàbarovsk, Kràsnoyark; in Kazakistan (in particolare nelle province meridionali e a Zhambyl), a Buryat, in Uzbekistan, e nella gelida regione siberiana di Kolyma, disseminata di insediamenti speciali per “criminali di guerra”.
Sulla base del decreto numero 9898cc del Comitato per la Difesa dello Stato Sovietico, datato 23 agosto 1945, il trattamento dei detenuti nipponici prevedeva “ricevimento, sistemazione e utilizzo come forza lavoro” e, stando a tale ordinanza, un rilevante numero di giapponesi (non meno di 200.000) furono utilizzati per la costruzione della linea ferroviaria Baikal-Amur, venendo relegati in otto campi nel distretto di Komsomol Amur, con due campi speciali per “lavoratori delle ferrovie” a Sovetskaya Gavan e Raychikha. Altri campi furono poi allestiti a Izvestkovaya, Krasnaya Zarya, (Chita Oblast), Taishet e Novo-Grishino (Irkutsk Oblast).
Nella primavera del 1946, venne avviato il rimpatrio di circa 200.000 prigionieri, con una prima aliquota di 18.600; mentre l’anno seguente ne furono liberati 166.000. Successivamente, nel 1948, fu la volta di altri 175.000, seguiti nel ’49 da ulteriori 97.000. Nel 1950, altri 1.600 soldati del Sol Levante rividero la propria patria (per la cronaca, l’ultimo gruppo, composto da circa 1.100 uomini, verrà rimpatriato il 23 dicembre 1956, grazie all’interessamento di una sessantina di associazioni umanitarie).
Kolyma, il grande inferno
Nel 1928, Kolyma è ancora una zona desertica e inospitale della Siberia nord-orientale, che gli inviati di Mosca identificano come luogo ideale per sviluppare quel complesso minerario dei gulag di Vorkuta che sarebbe diventato, cinque anni più tardi, il più esteso dell’intera Unione Sovietica, e che avrebbe accolto anche i detenuti del “Centro di Rieducazione di Solovki”.
I lavori iniziano nel 1929, con l’allestimento di un raccordo ferroviario necessario per collegare la rete nazionale alle miniere di carbone e ai pozzi petroliferi locali.
Il grande campo di concentramento di Karaganda (ubicato in Asia Centrale) viene invece allestito nel 1931 e già nel ’42 esso è in grado di accogliere oltre 60.000 deportati all’interno di un complesso di “cooperative agricole” che si estendono su una superficie di quasi 30.000 chilometri quadrati. Secondo i progetti elaborati a Mosca, sono poi aperti numerosi cantieri per il raddoppio della ferrovia transiberiana, dal lago Bajkal al fiume Amur (circa 2.000km) dove lavorano più di 270mila deportati.
E’ nel novembre 1931 che Stalin avvia la vera e propria operazione di colonizzazione del territorio, per lo sfruttamento dei grandi giacimenti di tutta la regione: con un decreto del Comitato Centrale vengono stanziati oltre 20 milioni di rubli per la creazione della Dal’stroj, un’enorme azienda di Stato incaricata di sfruttare le preziose risorse minerarie della regione. La decisione ha origine dal fatto che, oltre a carbone e petrolio, nel 1928 erano stati scoperti ricchi giacimenti d’oro sui monti attraversati per la prima volta, pochi anni prima, dal polacco Jan Czerski, ex deportato nel monastero-gulag delle isole Solowki nel 1863, esploratore e biologo. All’estrazione del prezioso metallo, inizialmente uno dei principali interessi di Mosca, nel 1941 lavorano circa 200mila deportati.
La regione di Kolyma è ancora oggi difficile da raggiungere, ma all’epoca dei fatti i collegamenti erano quasi del tutto inesistenti, e i prigionieri arrivavano in treno a Vladivostok, poi condotti via mare a Magadan, il cui porto e relative infrastrutture sono costruite dagli stessi detenuti. Da Magadan, raggiungevano i vari centri minerari dell’interno con marce forzate.
A Kolyma, ancor più che in altre regioni siberiane, le condizioni climatiche sono estreme. La temperatura invernale può scendere fino a – 65° e il territorio si presenta come una distesa di montagne rocciose a perdita d’occhio. Il complesso dei gulag si estendeva dalla regione di Magadan alla penisola di Cukotka, parte della Iakuzia, alle province di Kamcatka e Chabarovsk. In pratica, il 20% dell’intera Unione Sovietica.
Il tristemente famoso arcipelago-gulag di Kolyma-Indigirka-Tenkin-Uriat, l’impresa del Dal’stroj e i giacimenti di Butugicag, Sugun, Arkagala, Zyrian, Omsukgan, Elgen, erano parte basilare del “complesso di rieducazione e industrializzazione” e in pratica uno degli elementi base del potenziale economico sovietico fino alla metà degli anni Cinquanta, specialmente per quanto riguardava l’estrazione di oro, petrolio, tungsteno, cobalto, molibdeno, uranio, e lo sfruttamento delle foreste.
E’ noto che la mortalità nei campi di lavoro era notevolmente alta, ma i dati sono frammentari. Si sa, per esempio, che nel 1946, nei campi del DaI’stroj arrivava al 7,2%. Se si considera che l’effettivo iniziale era di 73.060 detenuti quindi, stando ai calcoli, il numero di vittime è stato, quell’anno, di 5.260. Le prime cause di morte erano naturalmente scarsezza di alimentazione e lavoro massacrante, ma non di rado pestaggi, isolamento e tortura. Sono noti anche casi di cannibalismo, con diffusione di epidemie di tifo e quant’altro.
Nel 1944 i detenuti assegnati all’impresa Dal’stroj sono quasi 92mila, nel 1948 superano i 100mila, nel 1950 sono 154mila, toccano i 200mila nel 1952, quindi calano fino a circa 24mila nel 1956-57, periodo della chiusura progressiva che termina nel 1959.
Un caso storico e diplomatico ancora da chiarire
La vicenda dei prigionieri giapponesi nei gulag sovietici ha interessato diversi studiosi, fra i quali Sergej Kuznetsov, del Dipartimento di Storia dell’Università Statale di Irkuts, uno dei primi ricercatori che si è interessato al caso. Kuznetsov ha intervistato centinaia di ex detenuti nipponici ed è emerso un particolare molto strano, ma non per questo inspiegabile: “Quello degli internati giapponesi nei gulag siberiani – afferma – è un fenomeno paradossale e unico nel suo genere: mentre in molti altri paesi l’internamento nei campi fu una vera e propria tragedia del nostro tempo, molti di loro mostravano un inspiegabile senso di nostalgia e rimpianto del periodo trascorso in prigionia. Nei loro ricordi facevano una netta distinzione fra gli interessi della macchina statale sovietica e la popolazione, che viveva in condizioni di estrema povertà e considerata anch’essa sottoposta alla ragione di Stato. Per questo non sono stati pochi quelli che si sono sposati con donne russe, hanno avuto figli e si sono stabiliti definitivamente terra sovietica”.
E’ importante notare che, a differenza dei tedeschi, nella percezione sovietica i giapponesi non erano associati agli efferati atti criminali commessi dai nazisti durante la guerra sul Fronte Orientale, tuttavia, almeno inizialmente, l’atteggiamento russo è comunque ostile, sostenuto dalla pesante propaganda del Cremino. Vi sono stati però numerosi legami sentimentali fra internati e donne della popolazione locale. Ad esempio, nella città di Kransk, dove sorgeva il campo di Krasnoyarsk Krai, oltre 50 giapponesi hanno sposato donne russe e sono rimasti dopo il rilascio.
All’interno dei campi di lavoro sono avvenuti anche incontri fra prigionieri giapponesi e detenuti politici sovietici, decisamente numerosi nei gulag ed estremamente critici verso il sistema imposto dal Comitato Centrale del Partito Comunista, a partire dai metodi di indottrinamento politico.
La quasi totalità dei prigionieri giapponesi conserva comunque ricordi decisamente negativi della prigionia, fra confische, pestaggi, interrogatori, brutalità di vario tipo, inverni freddissimi e lavoro.
Varie associazioni di ex internati giapponesi hanno inoltrato richieste di risarcimento per il periodo trascorso in prigionia e per le vessazioni subite, rivolgendosi al proprio governo. Anche alcune associazioni umanitarie internazionali hanno prestato il loro sostegno, fra cui la Commissione Straordinaria di Human Rights Watch, che nel rapporto della 56a Sessione del Consiglio Economico e Sociale alla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, annota: “Il governo giapponese ha una rilevante responsabilità morale e legale nel sostenere i diritti degli ex prigionieri in terra sovietica, e deve offrire un adatto risarcimento per tutte le vittime, tuttavia ha ripetute volte opposto un rifiuto alle richieste inoltrate dalle famiglie degli ex deportati nei campi di lavoro siberiani, al contrario di quanto è stato invece concesso agli ex prigionieri di altri paesi. Ancora nel 1981 le associazioni di ex prigionieri hanno richiesto un risarcimento ufficiale anche al governo sovietico, ma il loro appello è stato respinto”.
Le ricerche sui prigionieri giapponesi presso gli archivi sovietici sono state possibili a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, dopo il crollo del regime comunista. Prima di questo periodo, le uniche testimonianze e tracce sulla vicenda erano solo alcune discordanti cifre relative al numero degli internati.
I detenuti giapponesi nei gulag siberiani e dell’Estremo Oriente sono diventati oggetto di numerosi articoli e indagini storiche, a partire dalla consultazione degli archivi degli organismi di controllo quali NKVD e CPSU, e la pubblicazione, sia in Russia che in Giappone, di una raccolta di documenti di importanza fondamentale, oltre alle memorie di circa 2000 ex prigionieri.
A Tokyo, una rappresentanza ufficiale di ex detenuti afferma che a Mosca sarebbero oltre 510mila i files riguardanti altrettanti internati, raccolti dopo la fine della guerra, e la notizia è stata confermata anche dall’agenzia stampa nipponica Kyodo. Fino a pochi anni fa l’esistenza di tali documenti è sempre stata negata dalle autorità del Cremino, e da pochi anni Mosca ammette solo che i documenti riguarderebbero i sopravvissuti alla prigionia, liberati e in seguito rimpatriati. Delle migliaia di altri nessuna notizia, nonostante l’accordo bilaterale sottoscritto da Russia e Giappone nel 1991, che stabilisce la consegna dei documenti al governo di Tokyo.
Riguardo a coloro che sono sopravvissuti ma rimasti in Russia, il governo nipponico sembra abbia mostrato disinteresse, come afferma anche Yoichi Ogawa, portavoce della Japan Sachalin Compatriot Exchange Association, che si occupa delle ricerche dei sopravvissuti giapponesi in URSS. “Uno dei problemi principali – racconta Seichi Saito, esponente della stessa associazione – è che il governo giapponese ha voluto prendere per buona la assicurazione di Mosca che tutti i sopravvissuti sono stati rimpatriati, e una volta fatto questo non esisteva più ragione di compiere sforzi per altre ricerche”.
Sadaaki Numata, portavoce dello staff del ministro degli Esteri nipponico, afferma invece che il governo ha avviato le procedure per il rimpatrio dei sopravvissuti dalla Siberia e che si sarebbe assunto l’onere economico di ogni viaggio: “Stiamo facendo il possibile – aveva dichiarato Numata – per riportare a casa la nostra gente, specialmente coloro che sono rimasti in Russia e dichiarati dispersi in molte zone della Russia. Le informazioni raccolte però sono vecchie di 50 anni, per questo le ricerche e le identificazioni sono notevolmente difficili. Il trattamento subito dai prigionieri giapponesi – prosegue Numata – è un punto dolente e molto sentito qui in Giappone. Alla fine della guerra gli internati erano oltre mezzo milione fra militari e civili, fra Cina, Manciuria e Unione Sovietica. Oltre 50mila sono morti per le atroci condizioni e i maltrattamenti. Nel 1956 l’URSS ha comunque portato a termine il rilascio e le misure per il rimpatrio di molti, ma da allora e soprattutto dal crollo del comunismo, le difficoltà sono aumentate considerevolmente, contro ogni speranza”.
Fonti giapponesi parlano di prove che riguardano almeno 570mila prigionieri internati nei campi di lavoro sovietici, sia in Siberia che in altre località dello sterminato paese.
Altri celebri ricercatori, Ulrich Straus e John Dower, con l’aiuto di Allison Gilmore, Arnold Krammer e John Lynn hanno contribuito notevolmente a chiarire la vicenda dei prigionieri giapponesi in URSS, pubblicando le proprie ricerche dopo la consultazione di archivi di stato, fra cui quelli americani, oltre a diverse interviste a ex prigionieri.
Il governo russo, d’altra parte, antepone come legittimazione il fatto che nel 1930 Tokyo aveva rifiutato di sottoscrivere la Convenzione Internazionale di Ginevra, ratificata l’anno precedente, poiché la resa era un concetto non concepito dalla tradizione nipponica.
E’ noto che i primi prigionieri giapponesi sono stati catturati dai russi già nel 1939, durante drammatica battaglia di Nomahan, e che tutti avevano l’ordine perentorio del ministro della Guerra, Hideki Tojo, fedele al Codice d’Onore dell’Esercito (Senjinkun) della proibizione assoluta di arrendersi. Gli ufficiali poi avevano l’obbligo morale di suicidarsi.
La storia di Toshimasa Meguro
Molti gli ex prigionieri rimasti in Russia dopo la liberazione che hanno scelto di rimpatriare in un secondo tempo, e affrontare la intricata barriera burocratica dello stato giapponese.
Fra i maggiori problemi, la difficoltà di ottenere documenti comprovanti lo status di prigionieri di guerra. Uno fra i tanti, Toshimasa Meguro, detenuto per oltre 8 anni in un campo di lavoro, ha rivolto al governo di Tokyo la domanda per poter rientrare in patria. L’autorizzazione gli è stata concessa solo nel 1998, quando era prossimo agli 80 anni di età.
Dopo essere stato catturato dai russi sull’isola di Sakhalin, dove era impiegato in una stazione di intercettazione radio e decodificazione, ha subito angherie di ogni tipo, è stato testimone di brutalità senza precedenti, ha sofferto fame e freddo fino a ridursi una sorta di ombra che cammina. Nel 1953, Meguro, che intanto ha sposato una donna russa dalla quale ha avuto tre figli, è stato inviato a lavorare in una fattoria collettiva sempre in Siberia, e dopo 53 anni trascorsi lontano dal proprio paese, ha potuto usufruire di un permesso per rientrare in patria. Al suo arrivo è stato accolto da numerosi giornalisti e televisioni, grazie all’interessamento del primo ministro Ryutaro Hashimoto. Dopo due settimane di permanenza in Giappone, Toshimasa Meguro è tornato dalla propria famiglia, in Russia, dichiarando che non sarebbe più tornato in Giappone, dove si è vista rifiutare la domanda per ottenere la pensione di guerra.
Toshimasa Meguro stato certamente più fortunato di tanti altri che sono morti nei gulag siberiani, la cui memoria è stata volutamente dimenticata tanto da Mosca quanto da Tokyo.
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