Nel febbraio 1861 l’esercito piemontese espugna la fortezza di Gaeta, ultimo rifugio di Ferdinando II di Borbone, re di Napoli e delle Due Sicilie, che trova riparo a Roma, sotto la protezione del Vaticano, e da dove non nasconde una certa speranza di riconquistare il trono, data la precarietà dimostrata dal nuovo padrone, nell’inserirsi nei domini. Anche da Napoli, inoltre, si diffondono numerosi nuclei clandestini favorevoli al ritorno dei Borboni, che come obiettivo immediato cercano di sollevare la popolazione contro i piemontesi.
Il sentimento delle fasce sociali più basse non cambia con il mutare della forma di governo dei piemontesi al posto di Ferdinando II, le condizioni di estrema miseria permangono e anzi, in certe zone si acuiscono.
L’economia del Sud Italia era effettivamente allo sfascio. Una situazione matura per la diffusione di un fenomeno come il brigantaggio. La terra, il bene più prezioso nell’ex Regno delle Due Sicilie, rimane il motivo principale di lotta, ma nonostante i numerosi espropri, a danno di nobili latifondisti ed ecclesiastici, i contadini non diventano padroni. Rimanevano quindi due soluzioni: adattarsi o ribellarsi, dal momento che non esisteva nemmeno la possibilità di arruolarsi nell’esercito borbonico per uno stipendio appena più accettabile, e tuttavia sicuro, dato che era stato sciolto ufficialmente. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati all’apparato burocratico del Regno d’Italia, avevano volutamente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che molti giovani si ritrovano condannati per diserzione senza saperlo, e quindi costretti a darsi alla macchia.
I primi fuoriusciti si uniscono ad altri, fra cui molti evasi dalle carceri borboniche, e insieme, favoriti dalla conoscenza dei luoghi, formano le prime bande organizzate. La violenza esplode, ed è l’occasione propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti.
In Puglia, Calabria, Basilicata, Campania, e in altre zone dell’ex regno di Borbone, si hanno vere e proprie battaglie, massacri di intere famiglie appartenenti alla nobiltà, e pesanti sconfitte delle truppe piemontesi.
Il caso delle bande di briganti si discute in Parlamento dove, anziché varare un “programma scudo” di riforme sociali, si decide di risolvere la questione con la repressione, sostenuta dalla legge del ministro Pica che avvia un vero e proprio regime di terrore, all’origine di un massacro di enormi proporzioni, con torture e fucilazioni. E’ immaginabile cosa dovevano quindi passare le donne che avevano scelto la via del brigantaggio quando cadevano nelle mani dei reparti piemontesi.
Le prime vittime donne diventano figure di riferimento e testimoniano la drammatica rottura degli equilibri familiari e sociali, insomma, di quel mondo dove avevano vissuto e che improvvisamente viene rovesciato. Sono madri, figlie, ragazze rimaste orfane di genitori uccisi dai fucili piemontesi, donne disperate, che per numerosi motivi affiancano il proprio uomo con uguale determinazione e a volte lo superano in ferocia.
Trovare una data che identifichi la nascita della donna brigante è impossibile. Il fenomeno si è sviluppato in un contesto preciso, ma al tempo stesso in diversi luoghi. La leggenda popolare vede in Francesca La Gamba una candidata al titolo di prima brigantessa. Nata a Palmi (Reggio Calabria) nel 1768, ha dato parecchi problemi prima alle truppe francesi fra il 1815 e il 1816. Era una avvenente filandiera, madre di tre figli, che sceglie il brigantaggio per vendetta: rimasta vedova, si sposa in seconde nozze ma viene insidiata da un ufficiale francese che tenta di sedurla. Rifiutato, l’ufficiale si vendica facendo arrestare i due figli con un falso proclama che inneggiava alla rivolta e li fa fucilare dopo un processo farsa. A questo punto la donna giura vendetta e, lasciati gli abiti femminili diventa brigante nella banda della zona. Combatte guadagnandosi il rispetto dei più rudi, semina terrore, e in breve diventa il capo. Il caso vuole che in un’imboscata ad un reparto francese, Francesca ritrovi l’ufficiale che le aveva fatto uccidere i figli. La leggenda dice che lo torturi personalmente e lentamente, con un coltello, infine gli avrebbe strappato il cuore, divorandolo davanti ai suoi uomini e ai prigionieri. Casi comunque eccezionali, perché anche se le donne briganti sono state diverse, non molte si sono spinte oltre certi limiti. In genere, in molti piccoli paesi ci si rassegnava al pianto e al lutto.
Va fatta a questo punto una precisazione: si deve distinguere la “donna del brigante” dalla “donna brigante”, in quanto le prime servivano nella banda per motivi affettivi, cucinavano, governavano il rifugio; le altre prendevano parte attiva agli scontri ed erano guerrigliere a tutti gli effetti. Le cause erano per entrambe la vendetta, la necessità, la solitudine, la mancanza di mezzi di sostentamento, obbligate quindi a seguire il marito o i figli diventati briganti, per evitare di cadere nelle mani del signorotto del paese o peggio. Esistono poi casi in cui donne rapite durante una scorribanda e obbligate a restare con il capo banda, molte volte siano finite per innamorarsi e scegliere spontaneamente di restare nella clandestinità.
Le storie popolari calabresi, a questo proposito, raccontano di Margherita, vittima dello spietato e sanguinario capobrigante conosciuto come “Bizzarro”, che le aveva precedentemente ucciso l’intera famiglia. Viene stuprata più volte, resa schiava, e obbligata a seguire “Bizzarro”. Dopo poco tempo la giovane cade nella profonda ammirazione per il suo padrone, poi è amore e condivisione delle avventure fino alla cattura durante un’imboscata, finché viene gettata in prigione, dove muore per malattia e fame. La donna che prende il suo posto al fianco di “Bizzarro” è invece un caso decisamente diverso. Nicolina Licciardi e il suo uomo, durante un inseguimento furono costretti ad attraversare le montagne. “Bizzarro”, in un raptus di follia, si dice abbia ucciso il bambino che lei aveva partorito da poco, contro le pareti di una grotta, per impedire che il suo pianto rivelasse il nascondiglio. La leggenda dice che senza parlare né piangere, la donna scavò una fossa e seppellì il neonato, mettendosi poi a vegliare la tomba per impedire agli animali selvatici di farne scempio. Quando anche “Bizzarro” si addormentò, lei imbracciò il fucile e gli sparò in un orecchio, quindi portò la testa, avvolta in un telo, al governatore di Catanzaro, incassando la taglia pattuita e sparendo senza lasciare traccia.
Caso ancora diverso quello della giovane Maria Capitanio che, nel 1865, a soli 15 anni, si innamora di un operaio delle ferrovie, Agostino Luongo, il quale, decide di darsi alla macchia. La ragazza continua a incontrarlo di nascosto poi decide di seguirlo e, in breve, comincia a prendere parte alle azioni della banda, facendo nel contempo da vivandiera e da carceriera di un possidente rapito per chiedere il riscatto. Dopo circa due settimane cade in un’imboscata ma, grazie all’influenza del padre, che compra false testimonianze, riesce a dimostrare la propria estraneità e ad essere rilasciata.
Da parte dell’ordine costituito, le donne briganti sono considerate al pari degli uomini, e come loro subiscono torture e morte per fame e per le condizioni disumane delle carceri dove erano rinchiuse. L’unica discriminante era l’uso di non sentenziare, nei loro confronti, la condanna a morte, per il motivo che molte di loro potevano essere incinte, e tante lo erano davvero.
Senza addentrarsi nei meandri delle cause che hanno generato il fenomeno del brigantaggio nel Sud Italia, appena dopo la dichiarazione del Regno, la figura della donna brigante è avvolta ancora oggi da leggende popolari che ne danno un’immagine particolare.
Fra le molte leggende è ricordata la donna del capobrigante Francesco Guerra, nota solo come Michelina, tanto bella quanto coraggiosa e intuitiva, che riusciva a prevenire, per una sorta di “sesto senso”, molti attacchi dell’esercito e della polizia, fino al 30 agosto 1868 quando, dopo uno scontro a fuoco, la banda a cui appartiene viene massacrata. Muore in carcere a seguito delle torture subite, e il suo corpo esposto come monito alla popolazione. L’episodio però sortisce l’effetto contrario a quello sperato dai piemontesi, e riaccende il fuoco sotto le ceneri: molti lasciano i paesi e si rifugiano sulle montagne per unirsi alle bande alla macchia.
Filonema Pennacchio è una fra le più note brigantesse. Nasce in Irpinia, a Principato d’Ultra, figlia di un macellaio, il quale la “affitta” a servizio come serva presso diversi signori del paese. Incontra per caso il famoso brigante Giuseppe Schiavone ed è colpo di fulmine. Vende i suoi pochi averi e lo segue sulle montagne, diventando un’intrepida guerrigliera, scoprendosi portata per sequestri, razzie di bestiame e azioni decisamente sanguinarie, tanto da suscitare profondo rispetto da parte di tutti gli uomini della banda. Celebre è il massacro di nove soldati piemontesi del 45° Reggimento fanteria, nel luglio 1863, nei pressi di Sferracavallo. Le leggende popolari la descrivono come amante non solo di Schiavone, ma anche del capo dei capi, Carmine Crocco, e di due suoi luogotenenti, Donato Tortora e Ninco Nanco. All’età di 18 anni dopo aver ammazzato il marito, si diede al brigantaggio unendosi, di volta in volta, con le bande di Caruso, Ninco-Nanco e Schiavone, dei quali fu anche l’amante. Fu arrestata il 29 novembre 1864 nei pressi di Melfi.
La Pennacchio, il cui vero nome era Filomena De Marco, aveva sposato, giovanissima, un impiegato di cancelleria del tribunale di Foggia. Per la gelosia del marito, perché era “bella, occhi scintillanti, chioma nera e cresputa, profilo greco” (secondo la descrizione lasciatane dal De Witt), ed i conseguenti maltrattamenti, stanca alla fine, conficcò nella gola del marito un lungo spillo d’argento e se ne liberò. Ma doveva liberarsi anche lei dall’arresto, e si nascose nel bosco di Lucera, dove incontrò il brigante Giuseppe Caruso, e ne divenne amante. Ma divenne anche un’intrepida combattente ed una sanguinaria brigantessa. Anche Crocco la insidiava, e ci fu un duello rusticano tra Caruso e Crocco. Poi ci fu l’incontro con Giuseppe Schiavone, che per lei abbandonò Rosa Giuliani.
Fra brigantesse, a volte scoppiavano gelosie, causa di molte morti soprattutto perché le autorità piemontesi contavano anche su questo, e fomentavano voci e dicerie.
Per gelosia muore lo stesso Schiavone, tradito da Rosa Giuliani per vendetta contro Filomena che glie lo aveva sottratto. La leggenda popolare descrive come romantico e commovente l’ultimo incontro fra Filomena e Schiavone, il quale si inginocchia a pregare davanti al ventre gravido di lei, benedicendo il nascituro che non avrebbe mai conosciuto. Sotto la promessa di una ricompensa, Filomena avrebbe poi accettato di tradire diversi compagni, fra cui Agostino Sacchitiello, luogotenente del capobanda Crocco, e con lui anche due altre celebri brigantesse, Maria Giovanna Tito e Giuseppina Vitale. Incassata la ricompensa, tornò poi a vivere nell’anonimato.
Giuseppina Vitale era unita a Sacchitiello (Agostino) fin da quando, da ex caporale borbonico, era diventato brigante e capo di una banda. La banda, composta da 160 briganti e sessanta cavalli, dominava il territorio dell’alta Irpinia e di parte della Basilicata. La Vitale seguì sempre Sacchitiello, anche nel conflitto con il 20° battaglione Bersaglieri alla masseria Monterosso fra Lacedonia e Carbonara, e nello scontro con gli Ussari di Piacenza dell’8 maggio 1863 presso Calitri. C’erano pure Maria Giovanna Tito, la donna di Crocco, il fratello di Sacchitiello, Vito e il luogotenente Giuseppe Maria Giovanna Tito costretta a seguire la banda [Crocco] si era data al brigantaggio ed era diventata l’amante di Crocco. Da allora lo seguì fedelmente e gli fece dimenticare la moglie Olimpia, che però si consolò unendosi a Luigi Chiavone. Poi la Tito fu abbandonata da Crocco, che si era invaghito della vivandiera della banda Sacchittiello. Pur unita a Sacchittiello, la Tito continuò ad operare alle dipendenze di Crocco, fino al 1864, quando fu arrestata su delazione di Filomena Pennacchio unitamente a Sacchettiello e al luogotenente Francesco Gentile.
Un’altra protagonista di molte leggende popolari è la bella Marianna Oliviero detta “Ciccilla” che, come diverse altre, veste i panni della brigantessa per amore e gelosia. Era moglie di un ex ufficiale borbonico ed ex Garibaldino, tale Pietro Monaco, costretto a darsi alla macchia perché colpevole di omicidio. Inizialmente la ragazza non segue il suo uomo, accontentandosi di rari momenti di intimità quando lui riusciva a scendere dai monti, almeno finché viene a sapere che il marito aveva avuto una relazione con la sorella. Decisa a vendicarsi, invita a casa la sorella con un pretesto e la uccide nel sonno, infierendo sul corpo con un’ascia, quindi raggiunge la banda del marito e dopo poco tempo ne diventa il capo indiscusso. La fama sinistra della sua ferocia si diffonde per tutta la Calabria e perfino i suoi uomini ne avevano timore e disprezzo, raccontando di come torturava i prigionieri, come li uccideva lentamente e intingeva il pane nel sangue per poi mangiarlo avidamente. Quando viene arrestata, i suoi stessi familiari si rifiutano di riconoscerla e alcuni di loro testimoniano anche a suo carico. Fra l’altro, “Ciccilla” e Monaco, coniugi briganti, sequestrarono il vescovo di Nicotera e il canonico Benvenuto, riuscirono a farsi pagare un riscatto di 15mila ducati, ma, durante un conflitto con la Guardia Nazionale, i due religiosi riuscirono a fuggire. La banda ne aveva fatte tante che alcuni gregari si lasciarono convincere a far fuori il capo. Pietro Monaco infatti fu ucciso, e Ciccilla, benché ferita, fuggì sui monti, e fu allora che divenne il capo della banda, dopo avere preparato la catasta di legna per bruciare il corpo del marito, come si usava per i briganti uccisi in combattimento.
Catturata infine da un reparto del 58° Fanteria, comandato dal capitano Dorna, fu rinviata a giudizio e condannata a morte dal tribunale di Catanzaro, pena commutata in lavori forzati a vita. Fu una brigantessa bella e crudele, come raccontavano i suoi paesani, donna di fede con “carattere di comando”.
Fra storie di vendetta, ferocia e omicidi, trovano posto anche episodi dove sono protagonisti i sentimenti, che riescono a vincere sulle esasperazioni di una vera e propria guerra civile.
Accanto a donne che uccidono senza pietà e che spingono la loro ferocia, come affermano le cronache giornalistiche e giudiziarie dell’epoca, fino ad inzuppare il pane nel sangue delle loro vittime, vi sono donne che continuano a mandare messaggi d’amore ricamati su fazzoletti (Maria Suriani al “capitano Cannone”) o a ricamare per mesi l’immagine dell’amante (con tanto di fucile a trombone) su una tovaglietta, una delle quali ancora oggi viene conservata come cimelio. Nemmeno sfugge alla dura legge della guerriglia e della latitanza il bisogno di sentirsi donna e madre.
Sono molti gli esempi di briganti catturati in combattimento che, a un più attento esame, si rivelano “brigantesse” in stato di gravidanza. E’ difficile però sostenere che ad indurle alla gravidanza sia stato solo il calcolo previdente di una maggiore clemenza dei giudici in caso di arresto, e la prospettiva di un trattamento carcerario più umano. E’ semmai, più lecito pensare che le gravidanze siano la dimostrazione della necessità di chi si è dato alla macchia di ricostruirsi una vita normale, anche attraverso i sentimenti più naturali. Un esempio è Rosa Reginella, membro della banda di Agostino Sacchitiello viene catturata con il suo compagno a Bisaccia nel novembre 1864, dopo un accanito combattimento a cui non si sottrae, nonostante la gravidanza avanzata. Due mesi dopo, infatti, partorisce in carcere.
Gravide al momento della cattura sono anche Serafina Ciminelli, simile per aspetto e corporatura a una bambina, compagna del capobanda Antonio Franco, e Generosa Cardamone, amante di Pietro Bianchi.
Serafina Ciminelli era nata nel 1845 a Francavilla in Sinni da Domenico e Maria Luigia Ferrara, Serafina Ciminelli seguendo le orme del padre, della madre e della sorella Teresa, si unì, ancora giovanissima, al famigerato Giuseppe Antonio Franco, sanguinario e gigantesco capobanda, che per anni seminò il terrore nel Lagonegrese. Ella lo segui ovunque nel suo pericoloso cammino, si adattò al suo uomo, alla sua vita, ai disagi e ai pericoli che per il brigante crescevano di giorno in giorno. Per l’amore sviscerato che nutriva nei confronti di Franco, Serafina convinse anche il suo giovane fratello Fiore, appena quindicenne, ad aggregarsi alla banda e a prendere la via dei boschi. Per circa tre anni dimorò tra le folte selve del Caramola e del Pollino partecipando attivamente alle varie incursioni della banda sia sul territorio lucano che su quello calabrese. Dopo tante scorrerie Serafina e il suo uomo, ormai braccati da ogni parte, tentarono di espatriare insieme con pochi fedeli confidando ingenuamente nell’amicizia che li legava al capitano della Guardia Nazionale di Latronico, tale Luigi Gesualdi, che in tante occasioni li aveva protetti. In attesa dei passaporti falsi, verso la fine del mese di dicembre del 1865, si rifugiarono, quindi, tramite il Gesualdi, in casa di tale Venanzio Zambrotti in Lagonegro, dove furono catturati dalle forze dell’ordine dopo una violenta colluttazione. Condotti immediatamente a Potenza, Serafina fu condannata a quindici anni di lavori forzati, suo fratello Fiore ai lavori forzati a vita, mentre Giuseppe Antonio Franco fu fucilato il 30 dicembre del 1865 sulla collina di Monte Reale. Anche se il Franco si raccomandò al sacerdote che lo confessò prima di morire perché avesse cura della sua donna, è da dire che nessuno si occupò di lei, che morì sola ed abbandonata da tutti appena ventunenne nel carcere di Potenza il 12 novembre 1866 per setticemia procurata da un ascesso nella zona perineale.
Per le brigantesse catturate, inizialmente la legislazione dell’epoca non prevede condanne differenziate per i due sessi ma l’orientamento dei giudici appare quello di comminare condanne più lievi alle donne, anche in considerazione del fatto che quasi mai è possibile processualmente accertare la volontarietà nella scelta di delinquere. Normalmente la pena inflitta si aggirava sui 15 anni di carcere, spesso in parte condonati. Si tratta però di una condanna solo in apparenza più lieve.
Infatti, le condizioni di vita all’interno delle carceri borboniche, divenute carceri del Regno d’Italia sono pessime: il rancio è appena sufficiente a sopravvivere, le condizioni igienico sanitarie sono indescrivibili. Costrette a una vita di stenti, a continui spostamenti, a marce forzate le brigantesse accusano, più dei loro uomini, il peso dei disagi fisici e quando vengono catturate mostrano i segni della debilitazione. La mancanza di igiene (per coprirsi spesso indossano gli abiti sporchi dei nemici uccisi in combattimento) produce infezioni, poco curate in carcere, le portano a una morte prematura. E’ il caso, ad esempio, della Ciminelli che appena un anno dopo la cattura muore come recita l’atto di morte del comune di Potenza per “setticemia”, provocata da un’infiammazione del perineo.
Il dramma delle donne briganti si consuma, per lo più, nell’indifferenza, quando non nel silenzio dell’opinione pubblica. Gli atti ufficiali dei Carabinieri Reali, quelli delle Prefetture, i fascicoli processuali, le accomunano ai loro uomini, semza mai attribuire loro il ruolo di soggetto sociale autonomo.
Le cronache giornalistiche e gli scrittori dell’epoca le descrivono solo come manutengole, amanti, concubine, “ganze”, “drude”, donne di piacere. Ciò ha impedito di prendere in considerazione il fenomeno e non ha consentito uno studio più approfondito sui risvolti sociali e politici della rivolta delle donne meridionali.
Delle brigantesse restano oggi solamente poche immagini che la propaganda di regime ha voluto tramandare per una distorta lettura iconografica del brigantaggio. Così, accanto a brigantesse che si sono fatte ritrarre, armi in pugno, in abiti maschili, vi sono le foto ufficiali dopo la cattura e, talora, dopo la morte in una postura innaturale.
Come i loro uomini, trucidati e frettolosamente rivestiti, legati a un palo o ad una sedia, con in mano i loro fucili e circondati dai loro giustizieri. Macabro trofeo di una guerra civile occultata. Emblematiche sono le foto che si conservano di Michelina De Cesare, una delle pochissime brigantesse uccise in combattimento. L’ultima, scattatale dopo la morte, mette in evidenza lo scempio fatto sul cadavere. E vi sono ancora altri esempi.
Maria Maddalena De Lellis, detta “Padovella”, aveva una posizione preminente all’interno della banda, era infatti una specie di segretaria della comitiva, e forse amanuense perché, si dice, era l’unica a sapere leggere e scrivere. Dalla montagna di Mignano, in Campania, aveva infatti scritto una lettera al prete del paese, don Leone, chiedendo una forte somma di danaro e mandandogli un orecchio del nipote rapito. Non contenta delle 900 piastre ricevute, propose di ammazzare qualcuno a caso, e mandiamo un altro orecchio a don Leone. Il parroco finì a sua volta ucciso, dopo i pagamenti, perché Maddalena diventò in breve tempo isterica e sanguinaria.
Vi è poi la leggenda di Luigia Cannalonga, contadina di Serre, madre del capobrigante Gaetano Tranchella. Manifestava antipatia per Garibaldi, e aveva inculcato quest’odio nell’animo dei figli Rosario e Gaetano. Dei due, Rosario finì in carcere, mentre Gaetano divenne capo di una banda di cui la madre era l’effettiva organizzatrice. Già imputata, nel 1862, di corrispondenza e favoreggiamento con banda armata, fu successivamente assegnata a domicilio coatto quale “sospetta manutengola di brigantaggio”, per deliberazione della Prefettura di Salerno. All’isola del Giglio, Luigia Cannalonga incontrò altre donne compromesse con il brigantaggio, fra le quali Giovannella Mazzeo la donna di Giuseppe Sofia; Angela Iacullo, fidanzata di Vito Palumbo; Sofia Martuscelli, favoreggiatrice e spia, e altre. Quando Gaetano Tranchella venne ucciso, il 14 agosto 1864, cessò la ragione del domicilio coatto e Luigia Cannalonga venne rilasciata, ma non ritornò a Serre, e fece perdere le sue tracce. Andò in montagna dove era stato il figlio, e qui trovò una giovane donna che ne era diventata l’amante e aveva da poco partorito. Con la nuora e la nipotina rientrò finalmente a Serre, e il Prefetto di Salerno annotava sul fascicolo: “27 marzo 1865, essendosi rinvenuta la sunnominata Cannalonga, è cessato il bisogno di continuare le pratiche”. Così Luigia Cannalonga si presentò a testimoniare nel processo contro i briganti Rosario e Gennaro Passamandi.
Maria Brigida fu una brigantessa calabrese, compagna di Domenico Strafaci detto “Palma”. La loro relazione amorosa era stata funestata dall’uccisione del padre di Maria. La storia di questa donna comincia con un incontro furtivo con il brigante; appare improvvisamente il padre, e Vulcano, compagno di Palma addetto alla vigilanza lo uccise con una coltellata. Maria Brigida sperava che Palma la sposasse, ma Palma correva verso altri delitti e altre donne. Palma e Vulcano decisero di sbarazzarsi di Maria Brigida, diventata fastidiosa e, con il pretesto di accompagnarla per una missione, l’abbandonarono in un burrone. Maria Brigida riuscì a salvarsi e, tornata al paese, si mise a servizio del capitano della Guardia Nazionale. Una sera Palma, lacero, ferito, affamato, chiese ricovero proprio nella casa del capitano, e Maria Brigida nel vederlo, rimase atterrita e sorpresa. Il brigante ebbe i primi soccorsi, ma il capitano lo fece andar via per non compromettersi. Palma chiese due cavalli, Maria Brigida li preparò, ma avvertì anche alcuni soldati. Una pattuglia irruppe, sparò alla cieca, colpì Maria e anche il brigante e il suo amico, Vulcano, poi fuggirono a cavallo. Maria morì poco dopo per dissanguamento, Palma scontò tutte le accuse nel penitenziario di Portoferraio, anche quella di aver profittato dell’amore della ragazza che sperava in lui.
Giuseppina Gizzi, detta Peppinella “bella di viso e di tratti” era la fidanzata di Giacomo Parra detto Scorzese. Il brigante Michele di Gè racconta nella sua autobiografia come una volta Parra mandò a chiamare per la biancheria e i viveri Peppinella, che da allora rimase con lui e si aggregò alla banda. Un tale Alfonso Panaro convinse il manutengolo Pasquale Lisanti a uccidere Parra e Peppinella. Le due teste non furono portate al sindaco di Muro Lucano, che aveva garantito l’impunità al Lisanti, ma al Sindaco di Bracigliano, con cui segretamente il Lisanti aveva avuto altri contatti. Ci fu contesa fra i due Comuni, Muro Lucano e Bracigliano, per avere le teste degli uccisi.
Maria Orsola D’Acquisto fu un’altra leggendaria brigantessa. La sua storia è venuta alla luce in seguito a un rapporto dei Carabinieri Reali di Salerno, del 18 marzo 1867, nel quale si menzionava uno scontro a fuoco e il recupero di indumenti e oggetti abbandonati e del rinvenimento di un brigante ormai senza vita, che si rivelò poi essere una donna, appunto Maria Orsola D’Aquisto, di Palinuro, che si era data alla clandestinità con il brigante Pietro Ielardi, al quale si era unità lasciando la banda del brigante Scarapecchia. Quando fu ritrovato il suo cadavere, Maria Orsola aveva 27 anni, gravi ferite, un orecchio reciso. Era morta in combattimento con i Carabinieri Reali, mentre Ielardi si trovava impegnato in altre razzie.
Un’altra era Maria Pelosi, donna del brigante salernitano Angelo Croce che terminò la sua carriere nel marzo 1866 dopo che il Sindaco del paese, già in rapporti con la sua banda aveva arrestato l’amante, con molte promesse per la collaborazione e la dissociazione. In questa occasione Maria Pelosi si lasciò sfuggire nomi, rapine e il nascondiglio delle provviste.
Esistono diverse altre storie, come quella di Filomena Miraglia, informatrice di Gennaro Cretella detto Diavollillo e divenuta poi la sua compagna, oppure quella di Maria Luisa Ruscitti di Cercemaggiore, dove morì nel 1903. Fu catturata dall’intendente di polizia, colonnello Michele Caruso, in una delle sue incursioni a Cercemaggiore in contrada Cappella. Aveva 18 anni ed era di condizione fra le più umili, bracciante agricola quando trovava lavoro e donna di fatica nella casa del possidente Leopoldo Chiaffarelli. Costretta a soggiacere a Caruso, era stata da lui rapidamente istruita nell’uso delle armi e, sotto la guida di quel maestro, era diventata in pochi mesi di permanenza nella banda, un soldato esemplare. Per il suo istruttore ebbe rispetto da subordinato a superiore, nella ingenuità delle anime semplici. Per lei il colonnello Caruso era un primitivo, duro e spietato perché cresciuto in un ambiente arretrato, in cui per sopravvivere si doveva lottare. Maria Luisa è tuttavia per impegno e disciplina, una capitana. Quando uscì di galera nel 1888, era stata condannata dalla Corte di Assise di Trani a 25 anni di reclusione, per avere ucciso un ufficiale durante uno scontro a fuoco, e sopportò per tutta la vita la sorveglianza speciale.
Filomena Cianciarullo fu legata al cugino di Angelo Antonio Masini detto Colicchione. La Cianciarullo aveva cominciato fin da giovinetta a commettere furti e grassazioni; poi entrò nella banda di Colicchione e conobbe Mariarosa Marinelli. Era incinta; dopo una seconda gravidanza, fu abbandonata; ricoveratasi in una casa di campagna sarà arrestata alla fine del 1864. Accusata di “complicità di estorsione, sequestro di persona, furto di pecore, e lesioni”, il tribunale di Potenza la condannerà a tre anni di reclusione e sei anni di vigilanza speciale. Scontata la pena, la Cianciarullo, trovò marito e visse tranquillamente nel suo paese di Marsiconuovo.
Maria Rosa Marinelli, una povera contadina di Marsicovetere fu abbandonata per turpe mercato nelle mani di Angelantonio Masini, capobanda lucano. Come una preda indifesa e impotente, non potette resistere ad Angelo Antonio e ne divenne l’amante, facendo anche la vivandiera della banda e partecipando alle azioni. La sua vita di amante e brigantessa si protrasse dal 1862 al 1864; dopo un conflitto a fuoco a Padula, in cui morì Angelo Antonio, Maria Rosa si costituì. Il tribunale di Potenza la condannerà a quattro anni di reclusione per “associazione di malfattori, estorsione, sequestro di persona, lesioni”. Scontata la pena, potè sposarsi e vivere nel suo paese, confortata dall’affetto dei suoi paesani.
Celebre è poi l’episodio di Monte Cavallo, dove fu combattuta una accanita battaglia il 30 marzo 1868, e dove accanto ai briganti combatterono accanitamente tre donne, Maria Capitanio, Gioconda Marini, Carolina Casale, che rifiutarono di arrendersi. I soldati dovettero legare la Capitanio che sembrava una belva, Suppiello e Antonio Luongo furono presi, le tre donne furono imprigionate e condannate. Solo Maria Capitanio si salvò, perché il padre, già all’indomani della fuga della figlia, aveva cominciato a prezzolare falsi testimoni per dimostrare che era stata rapita e non aveva partecipato volontariamente alle imprese brigantesche della banda; il Tribunale di Isernia credette e la prosciolse dalle imputazioni. Nella banda di Ciccone e Pace faceva da vivandiera e guardiana Carolina Casale, giovane contadina di Cervinara, nell’Avellinese. Innamorata di Michele Lippiello, di cui era già incinta, non poté sposarlo perché Lippiello si era aggregato alla banda di Ciccone e Pace. Il fidanzato-brigante una notte fece irruzione nella pagliaia dove abitavano i familiari di Carolina, e la costrinse a seguirlo. Cosi Carolina Casale si aggregò anch’essa alla banda e conobbe Giocondina Marino, una compaesana di Cervinara. Da allora la Casale partecipò alle azioni della banda, vestita da uomo, agli agguati, ai sequestri. Il fratello Pasquale, altro aggregato, si era costituito, convinto da conoscenti di Cervinara, che, per questo suggerimento, furono uccisi da Alessandro Pace. A Roccamonfina partecipò al sequestro di Antonio Petrilli, del fratello e dei suoi cugini, un colpo solo. Non esitò a buttarsi nella mischia di Monte Pipirozzi contro la truppa e non rimase estranea all’omicidio di Giuseppe Di Francesco, a Mignano, perché Ciccone ebbe sospetti su di lui nonostante si fosse unito alla banda. In un successivo combattimento con un distaccamento di Fanteria, fu catturato insieme ai briganti Santo e Moscatelli, e tradotta a Mignano con Gioacchina Marino e Maria Capitanio. La Corte d’Appello di Napoli la condannerà per associazione a delinquere, estorsione, sequestro di persona, e omicidio premeditato. Quando fu scarcerata, riprese il mestiere di carbonaia; il suo uomo, Michele Lippiello, morì in un conflitto a fuoco. Anche la compaesana Giocondina era stata rapita da Alessandro Pace mentre lavorava nella carbonaia di Valleprata e partecipò alle numerose imprese di questi, fra Caserta e Campobasso, fra cui quella in danno della famiglia Petrilli di Fontanafredda. Riunitesi le bande dei briganti Fuoco, Guerra, Ciccone e Santaniello, combatté con esse contro la truppa che presidiava Terra di Lavoro, a Piedimonte d’Alife, Caiazzo, Conca, Isernia, Presenzano, diventando una vera e propria furia scatenata. Ma a Presenzano rimasero uccisi Luongo, Savastano, Gargano, e Michele Marino, e Giocondina, un’altra volta incinta, andò a raggiungere a Mignano la Casale e la Capitanio. Alla cattura seguirono le inevitabili condanne.
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