Margherita Sarfatti, la musa del Duce e del Fascismo. Di Gino Salvi.

Margherita Sarfatti al lavoro nel suo studio romano (1930).

Chi era Margherita Sarfatti (Venezia, 8 aprile 1880 – Cavallasca, 30 ottobre 1961)? Come mai la sua figura è così poco conosciuta dal grande pubblico? La risposta è che la Sarfatti è stata volutamente cancellata dalla storia. Nonostante che fosse stata non soltanto l’amante ma anche il consigliere politico più fidato di Benito Mussolini, quest’ultimo, dopo l’alleanza con Hitler, non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna – un’ebrea – avesse contribuito quanto lui a creare il Fascismo. Perciò, fu una questione d’opportunità politica, insieme agli orrori della seconda guerra mondiale, al desiderio di gran parte degli italiani di dimenticare il passato fascista, all’imbarazzo della famiglia Sarfatti per il coinvolgimento personale e politico di Margherita con Mussolini a far sì che la memoria di questa donna venisse definitivamente seppellita. Invece, indagando nella vita e nella vicenda personale della Sarfatti si scopre che aveva esercitato un’influenza profonda su Mussolini e che molte delle sue idee avevano modellato il nascente movimento fascista e la sua ideologia. Margherita Grassini era venuta alla luce in un palazzo del Quattrocento, posto in quella parte di Venezia chiamata il Ghetto Vecchio. Era la quarta e ultima figlia di Emma Levi e Amedeo Grassini, due ebrei ricchi e colti della buona società veneziana. Margherita nel corso della sua vita professionale intensa, densa di impegni, è stata una giornalista, un critico d’arte e scrisse oltre una ventina di libri e migliaia di articoli. I Grassini, rispettando le consuetudini della loro classe, cercarono in tutti i modi di proteggere la figlia dal mondo esterno. Non le era concesso giocare con gli altri bambini del vicinato, né uscire dal giardino senza essere accompagnata. Perciò, a Margherita questo giardino, pervaso dal profumo dei ciliegi in fiore e dall’umida fragranza del canale lungo le Fondamenta della Misericordia, apparve come il paradiso terrestre. Uno dei punti di riferimento più importanti nei primi anni di vita di Margherita fu suo padre, Amedeo, il fulcro della famiglia e colui che fissava i principi a cui la famiglia doveva ispirarsi: il conservatorismo politico, il senso di responsabilità, la fede nell’autorità e nella religione. Margherita sbocciò in una adolescente straordinariamente bella, con lunghi capelli biondo rame e profondi occhi grigio – verde. Però la sua nota dominante era l’intelligenza. Come diceva Margherita stessa era “sempre stata una studentessa ma non sono mai andata a scuola”. Infatti, i primi passi della sua formazione intellettuale, Margherita li fece con la madre, Emma. La madre e l’istitutrice svizzera le insegnarono a leggere, a scrivere, a far di conto e i primi rudimenti del francese, dell’inglese e del tedesco. Insieme all’istitutrice, che era una donna dolce e affettuosa, passeggiava lungo gli angusti vicoli del Vecchio Ghetto, vedeva le case operaie umide, cadenti, popolate da sciami di bambini sporchi e di madri sempre incinte e cominciò a rendersi conto che altri erano meno fortunati di lei. Margherita, sempre in compagnia dell’istitutrice, visitava le innumerevoli chiese e i numerosi musei, gli edifici pubblici che esibivano i capolavori voluttuosi di Giorgione e Tintoretto. Ancora anni e anni dopo, le fantasie scintillanti dei mosaici bizantini, i marmi dalle ricche venature e i tetti di ceramica dei palazzi erano ancora vivissimi nel ricordo di Margherita che, come notò più di un suo ammiratore, sceglieva gioielli e abiti che ne sottolineavano la pienezza del corpo, gli occhi e i capelli, quasi a imitare volutamente Tiziano. Ogni estate la famiglia partiva per Conegliano, dove Margherita trascorreva momenti preziosi con i nonni materni, Dolcetta e Giuseppe Levi. Dolcetta, “piccola e grassa, come una palla”, aveva una personalità forte e lasciò in Margherita un segno profondo. La sua morte fu la prima vera tragedia nella vita della nipote, Margherita. In agosto, i Grassini lasciavano Conegliano per Bagni della Porretta, una nota stazione termale sull’Appennino, dove il padre asmatico di Margherita faceva le cure. Gli amici più cari qui erano i Marconi, e il figlio Guglielmo fu preso da passione per lei. Margherita non dimenticò mai le calde sere estive passate insieme sui colli, mentre Marconi le insegnava a riconoscere le stelle. La loro amicizia durò a lungo, anche quando Marconi, con l’invenzione della radio, divenne famoso in tutto il mondo. Nel 1894, Amedeo Grassini, decise di abbandonare il Ghetto Vecchio per stabilirsi in una casa che rispecchiasse meglio il prestigio crescente di cui godeva la sua famiglia. La nuova residenza era Palazzo Bembo, un edificio gotico, imponente massiccio, che si affacciava sul Canal Grande. Quando Margherita compì quattordici anni, i genitori decisero d’assecondare la sua sete di conoscenza tre tutori privati: Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto. Orsi le spiegò che il progresso sociale e intellettuale era lo specchio della storia di una nazione almeno quanto lo erano le guerre e la politica: una lezione che Margherita non dimenticherà mai. Molmenti, invece, fece accostare Margherita all’idea che la pittura e la scultura rafforzano i valori civici. Mentre Antonio Fradeletto, segretario generale della Biennale, trasmise a Margherita, con la quale instaurò un rapporto intenso e vivacissimo, l’idea che lo spirito di collaborazione della società tradizionale si era infranto sotto l’impatto degli interessi egoistici di classe e l’eccessivo culto dell’individualismo che caratterizzavano il capitalismo moderno. Influenzato da Schopenhauer e Nietzsche, Fradeletto predicava la necessità di una volontà nazionale collettiva che ispirasse tutti gli italiani a cooperare alla grandezza del proprio paese. Prendendo a modello l’antica Roma, Fradeletto convinse Margherita che ogni forma d’arte veramente creativa nasceva da una cultura unificata, nella quale credenze, costumi e aspirazioni non fossero lacerati da dissensi e conflitti. Fu ancora Fradeletto a farle conoscere le opere di John Ruskin e, particolarmente, “Le sette lampade dell’architettura” in cui sosteneva che nelle chiese, nei palazzi, nelle case era iscritto il carattere nazionale di un popolo. Margherita collego il pensiero di Ruskin con l’idea di unità sociale di Fradeletto e concluse che l’arte poteva riformare lo spirito, la morale e la politica di un popolo. Dopo aver scoperto, a quindici anni, grazie al suo primo vero corteggiatore, un professore socialista di Firenze,il Capitale di Marx e le opere dell’anarchico russo Kropotkin, Margherita sposò, con rito civile, il 29 maggio 1898, l’avvocato Cesare Sarfatti. La coppia arrivò a Milano il 15 ottobre 1902, con i due figli, Roberto, nato nel maggio del 1900 e Amedeo Giosuè Percy nato il 24 giugno 1902. Nella città più tecnologica d’Italia, come la definiva il poeta Filippo Tommaso Marinetti, Margherita (che veniva chiamata la “Vergine rossa”, come Louise Michel che, nel 1871, aveva capeggiato l’insurrezione della Comune di Parigi) collaborava sia con “L’Unione Femminile” (ossia il giornale della Lega femminista milanese) che, dagli inizi del 1908, con l’”Avanti” (cioè il giornale ufficiale del Partito socialista). Il 22 gennaio 1909, Margherita partorì Fiammetta, la figlia che aveva sempre desiderato e, nello stesso anno, lei e Cesare si trasferirono dal modesto appartamento di via Brera in uno più grande e più elegante in corso Venezia. Margherita incontrò Benito Mussolini nel 1912, probabilmente, durante una delle sue rare apparizioni nel salotto di Anna Kuliscioff, che era la decana delle donne socialiste.

Ritratto di Margherita Sarfatti.

Durante la crescente polemica tra riformisti e rivoluzionari che stava lacerando il Partito socialista, Mussolini militava tra gli estremisti e, nonostante il culto della violenza e l’indifferenza per l’arte, tra lui e Margherita un’attrazione profonda. Ciò porterà Margherita, che fino a quel momento non aveva preso posizione nelle dispute tra i fautori del parlamentarismo e quelli della rivoluzione armata, ad essere uno dei collaboratori principali di “Utopia”, apparsa il 22 novembre 1913, e che voleva essere la nuova rivista del socialismo rivoluzionario italiano. Dopo la pubblicazione, il 18 ottobre 1914, dell’articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, che segnò il passaggio di Mussolini nelle file degli interventisti nella prima guerra mondiale, e la sua successiva fuoriuscita dal Partito socialista, Margherita sostenne Mussolini. Pur, però, senza rompere, finora, apertamente con il socialismo. Nonostante che la sterzata interventista di Mussolini fosse stata accolta dai socialisti al grido di “traditore” è giusto dire che essa era propria di una visione politica socialista. E’ chiaro che il socialismo nazionale e popolare che permeava la scelta di Mussolini non aveva niente a che vedere con il socialismo marxista, internazionalista  e materialista, ossia con l’anima egemone nel Partito socialista. E’ vero che l’anima “nazionale” del socialismo è un filone minoritario all’interno del socialismo stesso. Però, si tratta di un filone che ebbe un ruolo non secondario nella storia politica italiana. Infatti, dopo la rottura del sindacalismo rivoluzionario nel 1908, con la fuoriuscita di Mussolini, questo socialismo “nazionale” emergeva prepotentemente nella storia politica del nostro Paese. Non ho usato a caso il verbo “emergere”. Perché questo socialismo, animato dal senso della nazione, attraversò proprio come un fiume carsico il fascismo (nonostante la confluenza dei nazionalisti, nel 1923, e la normalizzazione successiva alle “leggi fascistissime”, dopo il 1926, ossia i due momenti – chiave che sancirono il passaggio dal fascismo – movimento al fascismo – regime e che tesero a spostarne l’asse in senso conservatore) per riemergere, vigorosamente, con la Repubblica Sociale Italiana, dal 1943 al 1945. Sintetizzato, nella parte riguardante la proprietà privata, l’economia, il lavoro e la casa, nel “Manifesto di Verona”, emanato il 14 novembre 1943, e nel decreto sulla socializzazione delle imprese, del 12 febbraio 1944. E non soltanto questo, visto che secondo questo socialismo “nazionale, la prima guerra mondiale avrebbe segnato il coronamento del Risorgimento. Infatti, Giovanni Gentile (per il quale il fascismo era “la più perfetta forma del liberalismo e della democrazia in conformità alla dottrina mazziniana”) rivendicava la continuità del fascismo con il Risorgimento. Il fascismo rivendicava del Risorgimento il respiro della memoria storica, il primato italiano, la missione di Roma, il socialismo tricolore di Carlo Pisacane, l’unità mazziniana di pensiero e azione e, soprattutto, la forte identità nazionale. Infatti, Mazzini non era marxista e, anzi, aveva sconfessato la Comune di Parigi. Alla fine di questa digressione, possiamo affermare tranquillamente che la scelta interventista, in Mussolini, fu assolutamente coerente (tenendo sempre conto del fatto che, nel nostro Paese, la nascita delle ideologie politiche è sempre avvenuta nel segno dell’eresia e della sintesi) con la sua weltanschauung socialista e nazionale. Come non sorprende la scelta, altrettanto consapevole e conseguente, di Roberto Sarfatti, l’irrequieto e ribelle figlio di Margherita e di Cesare, di arruolarsi, a luglio del 1917, nel 6° Alpini, e di andare in quell’inferno che era la guerra di trincea. Roberto Sarfatti morì, colpito da una pallottola in pieno viso, nelle prime ore del 28 gennaio 1918, durante l’attacco, lungo il versante orientale del col d’Echele, per espugnare Quota 1039.  Margherita, nell’autunno del 1918, anche a  causa sia dell’acuto dolore dovuto alla morte di suo figlio, sia della profonda depressione di Cesare, si innamorò, appassionatamente e totalmente, di Mussolini. Così nacque, tra Margherita e Mussolini, un sodalizio sentimentale, politico e culturale. Un sodalizio che era, certamente, d’amore ma, anche e soprattutto, di condivisione delle idee e degli ideali.  Un sodalizio che portò Margherita a contribuire alla creazione del fascismo. Un fascismo che fu una rivoluzione conservatrice, cioè un regime, come lo ha acutamente definito Marcello Veneziani, “di partecipazione allargata e di decisione accentrata”, in cui confluivano, nietzscheanamente, “rivoluzione dall’alto” e, proudhonianamente, “rivoluzione dal basso”, il cui mito fondante era la Nazione.

Margherita Sarfatti e Benito Mussolini.

Comunque il sodalizio (che era assai più complesso d’una pura e semplice relazione e conteneva oltre ad una complicità profonda anche molti elementi di rivalità e di risentimento, come si evince anche dall’episodio del concerto del violinista Prihoda, che è stato riportato da Philip Cannistraro e Brian Sullivan) tra Mussolini e Margherita venne scandito da momenti culminanti come quando lei divenne la direttrice editoriale della rivista “Gerarchia”; quando fondò con il gallerista Lino Pesaro e gli artisti Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, un gruppo artistico chiamato Novecento; quando scrisse una biografia di Mussolini, pubblicata in Italia, nel 1926, con il titolo “Dux”.  Dopo il 1932, per Margherita, arrivò il declino. Un declino che è stato dovuto sia alla fine del legame con Mussolini (e all’inizio di quello con Claretta Setacci), sia alle accuse di internazionalismo e bolscevismo che vennero scagliate da Roberto Farinacci contro il razionalismo del Novecento e, infine, alle leggi razziali. Dopo il declino, giunsero l’oblio, l’esilio e, il 30 ottobre 1961, la morte.

Bibliografia

“Margherita Sarfatti, l’altra donna del Duce”, Philip V. Cannistraro, Brian R. Sullivan, Mondatori, 1993.

“Margherita Sarfatti, dal mito del Dux al mito americano”, Simona Urso, Marsilio, 2003.

“Il fascismo nella sua epoca”, Ernst Nolte, Sugarco, 1993.

“La rivoluzione conservatrice in Italia”, Marcello Veneziani, Sugarco, 1987.

“La repubblica di Mussolini”, Giorgio Bocca, Mondatori, 1994.

“Né destra, né sinistra”, Zeev Sternhell, Baldini & Castaldi, 1997.

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