Il conte Gilles de Rais, un eroe, maresciallo di Francia a soli 25 anni, ha pagato con l’impiccagione le sue efferate scelleratezze. Non è un personaggio di fiaba ma il protagonista di una vicenda scritta nei documenti giudiziari.
Barbablù. Una storia horror del XV secolo. La cronaca vera di una vicenda truce a tal punto da apparire incredibile. Un episodio mostruoso che si concluse nel mattino di mercoledì 26 ottobre 1440 quando, alle nove in punto, i battenti della Cattedrale di Nantes si aprirono per lasciar uscire un solenne corteo, guidato dal Vescovo Malestroit, la mitra dorata sul capo, il pastorale in pugno, le mani guantate di bianco. Dietro di lui venivano i canonici del capitolo, i sacerdoti, i novizi, i chierichetti e poi la folla dei popolani. C’era insomma tutto l’apparato di ogni processione solenne, con cui una città festeggia la fine di una pestilenza o rende grazie per un miracolo. Ma questa volta l’occasione era ben diversa: la processione si dirigeva fuori della città e aveva come meta i prati dell’isola di Biesse: là era pronta la forca per giustiziare un uomo che si era macchiato di crimini abominevoli: Gilles de Rais, erede di una fortuna colossale, eroe nazionale alla presa di Orléans, compagno d’armi di Giovanna d’Arco, maresciallo di Francia a soli venticinque anni. E ispiratore, secondo i più, del personaggio di Barbablù. Gilles de Rais saliva sul patibolo a soli trentasei anni: ma in un periodo cosi breve aveva vissuto con un’intensità frenetica la sua avventura, provando ad essere di tutto e il contrario di tutto: eroe militare, munifico nobiluomo, cattolico fervente, ingenuo evocatore di demoni e mostro: tra il 1432 e il 1440 alcune centinaia di fanciulli e ragazzi vennero uccisi o fatti uccidere da Barbablù, il più delle volte dopo essere stati oggetto di abusi sessuali. Ogni sera, dopo i sontuosi banchetti che si tenevano nel castello di Tiffauges, o in quello di Champtocé, o in un’altra delle residenze dove conduceva la sua vita errabonda, il sire di Rais si ritirava, seguito da una corte di pochi intimi, succubi e profittatori, tra i quali non mancavano mai i due servi, Henriet e Poitou, che seguiranno il loro signore fin sul patibolo. Nelle stanze del signore venivano introdotte le vittime: giovinetti del popolo, in genere attratti al castello col miraggio di entrare nella corte come paggi o servitori, di poter quindi avere abiti buoni e cibo quotidiano. E per questi infelici si spalancavano invece le porte di un abisso di sofferenze. Oggetti di abusi sessuali, prima o dopo esser torturati, venivano infine uccisi quando la furia del loro “signore” si era finalmente acquietata. I poveri resti venivano poi bruciati o gettati nelle cantine più profonde. Si é parlato di “qualche centinaio” : la cifra é necessariamente approssimativa perché, nonostante l’accurata istruttoria condotta dai giudici e nonostante la piena confessione dell’imputato, la macabra contabilità non poté mai essere completata, data la frenetica attività di Gilles de Rais.
L’impiccagione concluse la carriera del mostro: ma non si deve pensare che la pubblica esecuzione fosse stata accompagnata dalla soddisfazione della folla, come spesso accade quando viene giustiziato chi si é macchiato di crimini particolarmente abietti e come, a maggior ragione, doveva avvenire quando il criminale apparteneva alla nobiltà, alla casta quasi sempre intoccabile. Al contrario: le cronache dell’epoca ci parlano di una giornata di “edificazione” perché Gilles de Rais aveva saputo, anche in punto di morte, essere protagonista. Reo confesso dei suoi crimini, si era calato cosi efficacemente nella parte del pentito, da giungere a commuovere i giudici e la folla. E le sue ultime parole, davanti al boia, furono di affidamento alla Divina Provvidenza. Nessuno può dire quanto ci fu di sincero in questo pentimento e quanto fu invece espressione della malattia mentale che rodeva il sire di Rais. Di sicuro anche in tribunale e anche sul patibolo aveva saputo (o voluto) essere un personaggio inclassificabile, centrifugo, unico.
Sul finire del XIX secolo un religioso francese, l’abate Eugène Brossard, si recò a Nantes per prendere conoscenza dei documenti e perlustrare i luoghi storici in cui era vissuto Gilles de Rais. Intenzionato a scriverne la biografia, l’abate visitò meticolosamente le terre che furono un tempo il dominio del sire di Rais. Si andava dal sud della Bretagna, a cavallo dell’estuario della Loira a Nantes, al Poitou e all’Anjou. In questi vasti domini, dove restavano e restano tuttora le rovine dei castelli di Tiffauges, Champtocé, Pouzauges, Machecoul, l’abate fece una scoperta: nella fantasia popolare il ricordo di Gilles de Rais si era confuso e poi sovrapposto con quello del Barbablù di Perrault. La storia del conte sadico uxoricida é molto antica e faceva parte della tradizione orale ben prima che Perrault, due secoli dopo i misfatti di Gilles de Rais, scrivesse la sua nota fiaba. Gilles de Rais si sposò, una sola volta, e il suo matrimonio fu, come vedremo, un avvenimento del tutto marginale nella sua vita. La sua furia sadica é di tipo omosessuale, mentre il personaggio della fiaba rivolge alle mogli i suoi istinti omicidi (uccidendone sette, numero biblico che indica una gran quantità). Ma, come ci dice l’abate Brossard “…non esiste madre o balia che nei suoi racconti abbia esitazioni sui luoghi abitati da Barbablù: i castelli che furono di Gilles de Rais (…). Numerosi sono i vecchi che abbiamo interrogato in quei paesi, e i loro racconti sono unanimi….”
In particolare presso le rovine di Tiffauges si indicava addirittura la finestrella di una stanza: era li che Barbablù sgozzava le sue vittime. Cosi il mostro vero e quello della fiaba (che, più pudicamente, é mostro ma almeno non é omosessuale) si sono nei secoli mischiati e confusi. Chi fu, nella storia, Gilles de Rais? Un pazzo, senza dubbio. Un mostro, senza dubbio. Come altrimenti potremmo classificare I’ artefice di una paurosa mattanza di giovinetti? Fu anche, senza dubbio, il sinistro prodotto di un’epoca di disfacimento. Se purtroppo personaggi come Gilles esistono e probabilmente sempre esisteranno, é pur vero che il momento storico in cui visse permise che i crimini durassero nove lunghi anni (anche se la vox populi ne parlava da molto tempo prima) e in un certo senso favori anche lo sviluppo della malattia.
Quando Gilles de Rais viene al mondo, nel 1404, la Francia é impegnata verso l’esterno nella Guerra dei Cento Anni con l’ Inghilterra e al suo interno é scossa dalle convulsioni dell’agonia del sistema feudale. I duchi e i baroni sono impegnati nelle loro guerre reciproche o nelle loro contingenti alleanze contro il re, figura opaca di un potere centrale debole. La popolazione é stremata da uno stato di guerra praticamente infinito, di guerre sempre meno cavalleresche e sempre più apportatrici di carestie ed epidemie. La Chiesa, custode dell’ ordine morale, é a sua volta infettata da vescovi tanto insipienti quanto feroci, occupati ad accumulare ricchezze a cui spesso si oppongono predicatori che, consci del disfacimento, predicano una religiosità sempre più cupa ed angosciosa, molto più vicina alla morte di Cristo che alla sua Resurrezione.
La guerra é pratica quotidiana, ma é difficile stabilire gli schieramenti in una guerra totale, che ha stimmate di furore cieco e gratuito. La guerra é anche e soprattutto un affare, una fonte di guadagni, per chi non ha mai saputo fare altro. E i capitani più capaci hanno ottenuto dai loro condottieri la ricompensa più ambita: oltre alla paga, hanno il diritto di duplice bottino, di cose e di uomini. Anche se la legge cristiana non consente più la schiavitù, il riscatto diviene una pratica lucrosa e corrente in cui l’unica regola comunemente accettata é che venga eseguito rispettando le divisioni di casta che, nello sfacelo generale, resistono e collaborano, con la loro intrinseca carica di sopraffazione, a deteriorare ancor di più il clima morale.
La peste e le carestie completano l’opera omicida dei mille eserciti, regolari e di sbandati. II Vescovo di Lisieux, Thomas Basin, calcola che nella sola Normandia “duecentomila anime siano state rapite in corto intervallo dalla fame e dalla peste”.
In questo clima di violenza e di eccesso quotidiani nasce Gilles de Rais. Non si conosce la data esatta: sappiamo solo che la nascita avvenne nel castello di Champtocé, sulle rive della Loira, verso la fine dell’anno 1404. Il matrimonio dei genitori di Gilles era stato celebrato il 5 febbraio di quello stesso anno, al termine di lunghe trattative e contenziosi anche giudiziari fra tre ricchissime famiglie: quella del padre, un Laval-Montmorency; quella del nonno materno, Jean de Craon; e quella dei Rais, che si estinse nel 1407 nella persona di Jeanne Chabot, detta Jeanne la Sage. L’anziana signora, invecchiata senza eredi sulle terre disposte attorno all’estuario della Loira, presso Nantes, conosciute come “Pays de Rais”, era oggetto delle attenzioni tutt’altro che disinteressate del cugino Guy de Laval. Questi, con la scusa di perpetuare il nome dei Rais, era riuscito a farsi nominare erede universale da Jeanne Chabot. Un altro parente, Jean de Craon, riuscì a convincere l’anziana castellana che il Laval altro non era che un volgare cacciatore di patrimoni. Quali fossero i suoi argomenti, non lo sappiamo, né ci sembra da gentiluomini approfondire l’indagine. Sta di fatto che il testamento a favore del cugino Guy de Laval veniva annullato e sostituito da un nuovo testamento a favore dei Machecoul-Craon. La faccenda a questo punto fini in mano ai giudici che, prudentemente, tirarono le cose in lungo, preoccupati di non inimicarsi due famiglie ugualmente potenti. E fu un bene, perché le parti, sbollita l’ ira iniziale, capirono che era meglio trovare un accordo e, attraverso un complicato intreccio di testamenti e di matrimoni di convenienza, Guy de Laval poteva fregiarsi delle insegne dei Rais, sposando una figlia dei Craon, Marie, la cui nonna, Marguerite de Machecoul, madre di Craon, diveniva erede universale di Jeanne Chabot, signora di Rais.
In breve: sarebbe difficile trovare una storia d’amore all’origine del matrimonio celebrato il 5 febbraio 1404 tra Guy de Laval-Montmorency e Marie de Machecoul-Craon. Infatti si consolidava in questo matrimonio una fortuna immensa, nata dall’unione di tre dei piú ricchi casati di Francia.
Il giovane Gilles ebbe un’educazione non diversa da quella di tanti altri nobili rampolli. Due precettori ecclesiastici gli insegnarono a scrivere e leggere correntemente in latino. II giovinetto era un lettore entusiasta, in particolare di ciò che riguardava la romanità. La lettura della “Vita dei dodici Cesari” fu l’occasione per far la conoscenza con uno dei suoi primi “idoli”: Caligola, il corrotto, l’incestuoso, il sadico, ma anche l’esteta, il prodigo, il malato di titanismo che riesce a sperperare miliardi di sesterzi risparmiati da Tiberio in quelle che al giorno d’oggi si chiamerebbero “opere pubbliche” che avevano il solo scopo di soddisfare le sue manie di grandezza. Nell’etica medievale era normale mostrare ciò che si definiva “exemplum ad vitandum”, capace di muovere alla virtù proprio per la sua eccezionale carica negativa. Gli “exempla” apparivano al giovane Gilles invece come un affascinante programma di vita: l’eccesso, il potere, la libertà da ogni forma di vincolo morale o giuridico erano la massima espressione dell’uomo superiore. L’addestramento militare, anch’esso normale in un giovane nobile e in un’epoca in cui la guerra faceva parte del quotidiano, era seguito con entusiasmo da Gilles, che apprese a uccidere scientificamente, a trovare i punti deboli delle armature, a distinguere i vari tipi di spade, pugnali, mazze, lance.
Se le letture gli avevano fornito i modelli a cui ispirarsi, la guerra gli avrebbe offerto il campo pratico di applicazione delle sue attitudini. Rimasto orfano a soli undici anni di entrambi i genitori, il giovane Gilles trovò nel nonno materno, Jean de Craon, il suo tutore “de facto”. Il vecchio Craon, che aveva perso il figlio Amaury nella battaglia di Azincourt, riversò sul nipote una strana forma di affetto dispotico e cinico. Disposto a tutto per accrescere le sostanze e la potenza del giovane Gilles, Jean de Craon non disdegnava affatto il crimine e la violenza. Veder crescere il nipote crudele, senza scrupoli, corrispondeva ai suoi piani e alla sua personalità ambiziosa. Ma il sessantenne Craon era un uomo pratico: non esitava davanti al delitto, se il delitto aveva un fine pratico chiaro e monetizzabile. Invece il nipote era un istintivo, che si disinteressava di strategie e calcoli; la crudeltà, la sopraffazione, il sadismo erano per lui esercizi della sua personalità, della sua vis interiore, svincolati da ogni previsione su conseguenze, utili o dannose che fossero.
Sedicenne, Gilles de Rais ebbe finalmente modo di essere coinvolto di persona in un fatto d’armi, seguito ai torbidi generati dall’uccisione del duca di Borgogna. Craon si schierò con i Monfort, titolari del ducato di Bretagna, contro i Penthiévre, fedeli ai Valois. Subì cosi la devastazione di alcuni feudi ad opera dei nemici, che poco dopo avrebbero amaramente ripagato le loro effimere vittorie, col trionfo dei Monfort. Le cronache ci dicono che in quest’occasione il giovane Gilles poté mostrare come aveva bene appreso gli insegnamenti dei suoi maestri d’armi, potendo finalmente uccidere e torturare legalmente. Nel frattempo il terribile nonno si stava preoccupando di trovar moglie al nipote, secondo la logica che gli era più consona: organizzare un matrimonio che servisse ad allargare ulteriormente le ricchezze e i possedimenti. La scelta cadde su Catherine de Thouars, figlia di Milet e di Béatrice de Montjean. La giovinetta, sedicenne come Gilles, portava in dote nientemeno che otto castelli. Ci volle un anno e mezzo per giungere alla celebrazione delle nozze. I due “fidanzati” erano cugini, e il vecchio Craon si appellò direttamente a Roma per vincere l’opposizione del vescovo di Angers. L’argomento di Jean de Craon era quello concreto di un uomo privo di ogni moralità, ben accetto da una Chiesa che a sua volta era completamente immersa nel marasma dell’epoca: il danaro. Non si conosce l’entitá dell’oblazione che il messo di Craon portò a Roma; si sa però che fu così notevole da rimuovere ogni impedimento e da indurre anche il vescovo di Angers a mostrarsi più conciliante, fino a celebrare lui stesso le nozze già osteggiate, quando gli fu chiaro che anche per lui c’era posto nel banchetto. E il buon prelato era così disinteressato che l’ultimo ritardo alle nozze fu dovuto solo alle trattative sull’entità dell’offerta “spontanea” che Jeans de Craon avrebbe dovuto fare per “beneficiare i poveri” della diocesi di Angers. Il matrimonio comunque fu per Gilles de Rais un puro fatto formale, fondiario e finanziario. Una figlia, Marie, nacque dopo quasi dieci anni di matrimonio. Condannate ad un ruolo subalterno, moglie e figlia di Gilles de Rais restano ombre cancellate dalla storia, né si é mai potuto stabilire quanto la moglie fosse a conoscenza delle perversioni e dei crimini del marito.
Nel 1424, allo scoccare dei vent’anni, Gilles può assumere finalmente l’amministrazione diretta di tutto il suo immenso patrimonio, iniziando le manifestazioni di sfarzo decadente di cui amò circondarsi in tutta la sua breve ma fin troppo intensa avventura terrena. Arazzi, affreschi, profusione di vetri dipinti iniziarono a rendere meno cupi i castelli. Le eccezionali disponibilità finanziarie permisero anche al giovane sire di Rais di dare sfogo a manie di collezionismo di tutti i tipi, dagli oggetti antichi fino ai reliquiari, ai crocefissi, ai calici. A tavola si mangiava solo usando vasellame e posateria d’oro. E poiché la guerra continuava ad occupare buona parte del suo tempo, fece ornare con perle e smalti anche l’utensileria militare, e intarsiare d’oro i guanti d’acciaio delle armature. Gli abiti dovevano essere il più possibile spettacolari, più simili a travestimenti, e confezionati nelle migliori stoffe. Gilles de Rais divenne ben presto famoso per l’indifferenza assoluta con cui pagava cifre esorbitanti per togliersi ogni capriccio in materia di tessuti pregiati, o di oggetti rari, o comunque di ogni stravaganza che potesse sottolineare la sua grandezza e al tempo stesso la sua indifferenza.
Nel febbraio del 1425 Gilles fa per la prima volta la conoscenza con la corte del delfino Charles, personaggio mediocre, perennemente in crisi finanziaria. Subito l’ambiente gli appare insopportabile, penoso. Ne viene peraltro ripagato con odio e diffidenza: le sue manifestazioni di prodigalità, che giunsero fino ad imprestare considerevoli somme al re stesso, senza mai richiederle in restituzione, erano fatte con una tale distratta freddezza da attizzare i risentimenti degli stessi beneficiati.
Gilles si trovava più a suo agio sui campi di battaglia: e ben presto i rudi capitani, che diffidavano di questo giovane nobile che schierava cinque compagnie che si distinguevano per l’eleganza delle livree, dovettero accorgersi che il sire di Rais era nato per la guerra. Non solo era un ottimo comandante di uomini, ma mostrava anche un coraggio personale indiscutibile. Il nonno Jean de Craon aveva spinto il nipote alle rudezze della vita militare sperando di allontanarlo cosi dalle suggestioni “decadenti” alle quali il nipote sembrava inclinare: mai calcolo fu così sbagliato. Gilles de Rais trovò presto il suo spettacolo preferito: l’impiccagione dei collaborazionisti e di quanti operavano per gli inglesi. Assisteva personalmente ad ogni esecuzione, né si allontanava finchè la vittima non aveva esaurito tutto il tragico repertorio di spasimi, contrazioni e sussulti. II fascino della morte entrava sempre di più nell’animo del giovane signore, per il quale la guerra era l’occasione di scoprirsi una vocazione, di inventarsi una figura ed un ruolo, di tradurre in realtà le fantasie malate che si sviluppavano nel suo intimo. Non fu mai patriota, ma non fu mai spinto neanche da particolari desideri di potere o di ascesa politica. Gilles de Rais combatteva, uccideva e torturava, conducendo una guerra: la “sua” guerra. Tutto il resto, gli era semplicemente indifferente.
Nell’autunno del 1428 gli Inglesi pongono l’assedio a Orléans. E in questa contingenza, nella battaglia per liberare la città assediata, la vicenda di Gilles de Rais si intreccia con quella di un altro personaggio enigmatico: Giovanna d’Arco. La Pulzella, ispirata da Dio secondo alcuni, strumento di astuzie politiche secondo altri, era il contrario di Gilles ed era al contempo una delle poche persone che potessero intendersi con lui. Entrambi eccessivi, l’una di fervore mistico, l’altro di freddo estetismo e di crudeltà, i due personaggi avevano molti punti in comune. A Gilles de Rais era stato affidato il comando della spedizione di soccorso alla città assediata: era l’uomo più adatto, perché all’indubbia bravura militare univa il più completo disinteresse per le trame politiche e di corte. Giovanna d’Arco scacciava le prostitute che normalmente costituivano il codazzo degli eserciti in marcia, obbligava truppa e capitani ai sacramenti, redarguiva i bestemmiatori. Gilles vedeva in Giovanna il soprannaturale portato all’abnorme e apprezzava lo sprezzo che la Pulzella manifestava con tutti, se il caso lo richiedeva. La conclusione vittoriosa delle armi francesi diede a Gilles de Rais il titolo di maresciallo di Francia e il diritto di fregiarsi delle insegne reali. Il 1° luglio 1429, quando partì il corteo reale, diretto a Reims per l’incoronazione di Charles VII a Re di Francia, il sire di Rais non aveva ancora compiuto venticinque anni: era uno degli uomini più potenti e famosi della Francia che faticosamente stava cercando l’unitá nazionale e la ricostituzione dell’autorità regia.
Sarebbe interessante, ma non é qui il luogo, ricostruire le varie fasi della battaglia per la liberazione di Orléans. Ci preme però notare come la vicenda dell’assedio e la successiva battaglia contengano in sé tutti i protagonisti e gli elementi di un’epoca in cui più nulla sembra sicuro e stabile. Abbiamo un re imbelle, peraltro non ancora incoronato, capace solo di temporeggiare; abbiamo una ragazza di vent’ anni, che la tradizione vuole figlia del popolo, che ha di sicuro in sé una carica carismatica senza pari, tale da smuovere il re stesso. Ma nei pregiudizi di un’epoca in cui ormai l’unica morale era solo quella apparente, la fanciulla deve sottostare anche ad un esame di un comitato ristretto di dame d’alto lignaggio, per verificarne la verginità. Se infatti fosse stata inviata dal diavolo, come dicevano alcuni suoi detrattori, non avrebbe potuto essere, come invece verificò il comitato, “né corrotta né violentata”. E mentre Giovanna inizia la sua avventura militare invocando il nome di Dio quale suo mandante, i soccorsi alla città assediata vengono organizzati sulla base di complicati equilibri politici e possono prendere il via quando viene chiarito un particolare non indifferente: che la corte reale, perennemente in crisi finanziaria, aveva ricominciato a battere moneta, avendo ottenuto gli ennesimi prestiti. C’era quindi di che pagare il “soldo” ai militari.
Lo stesso viaggio del corteo reale a Reims fu tutt’altro che una marcia trionfale; durante il tragitto, che durò per quindici giorni, le città di Auxerre, Troyes e Chalons furono convinte con sostanziosi argomenti a lasciar passare il regio corteo. L’incoronazione nella Cattedrale di Reims avvenne alla presenza di solo tre dei dodici pari di cui era stato richiesto l’intervento. Insomma, l’unzione solenne più che un punto di arrivo era una parentesi nel gioco politico tutt’ altro che risolto che contrapponeva ancora il duca di Borgogna al re, nonché i gruppi di corte in lotta tra di loro, in una Francia in cui la presenza militare inglese era ancora pesante e fonte di tentazione per cambi di alleanze, sulla base delle convenienze di potere del momento. Non scordiamoci infatti che in un clima in cui il richiamo alla Fede era costante e quasi ossessivo, e in cui si potrebbe quindi pensare che gli stimoli ideali fossero comunque determinanti, era assolutamente normale, come avvenne per la stessa liberazione di Orléans, che i nobili sottoscrivessero col re o con i suoi procuratori dei regolari contratti in cui venivano meticolosamente fissate le retribuzioni dei capitani e della truppa, il numero di armati che il nobile si impegnava a mettere in campo, i premi in caso di vittoria, e cosi via. Sicché la fedeltà alla corona, che si voleva legittimata da Iddio stesso, passava sempre attraverso lo studio del notaio e l’ufficio del tesoriere.
L’inattività seguita alla liberazione di Orléans e all’ incoronazione del re mal si confacevano a Gilles de Rais e a Giovanna d’Arco, spinti entrambi, da diverse motivazioni, a continuare a combattere. Entrambi insistettero con il re per attaccare Parigi e il re li autorizzò. Ma segretamente, per poterli “scaricare” in caso di necessità. La spedizione si risolse in un nulla di fatto, il 13 settembre 1429, con un improvviso ordine regio di ripiegamento, dopo un sabotaggio ordito, secondo i più, dallo stesso cugino di Gilles de Rais, La Tremoille, potente e intrigante ministro del re.
Gilles de Rais rientrò a Champtocé dove apprese, con la massima indifferenza, che la moglie Catherine aveva messo al mondo una bimba, cui fu dato il nome di Marie. Gilles era insoddisfatto e inquieto. Lo sfogo militare era, almeno temporaneamente, sospeso, e con esso anche lo sfarzo, l’esibizione di sé stesso che sempre accompagnava le sue imprese. Come molti reduci, il sire di Rais faticava a riprendere i ritmi di una vita normale, con l’impossibilità di scaricare su oggetti adeguati il gusto della violenza, contratto ormai come una malattia cronica. Inoltre per la prima volta Gilles si accorse che le sue casse languivano: il soldo ai capitani e alla truppa era stato superiore ai rimborsi regi. E fu sulla fine di quel 1429 che il sire di Rais mise in vendita il castello di Blaison: é il primo atto di una liquidazione di beni che qualche anno più tardi assumerà cadenze sempre più serrate e rovinose. Del resto Gilles neppure pensava di potersi privare dello sfarzo che doveva far da contraltare alla sua insoddisfazione: e riprese le spese folli per collezioni sempre più stravaganti, per un lusso maniacale nelle pretese di perfezionismo e per alimentare la piccola corte che lo seguiva ovunque, fatta di servi e profittatori, di adulatori laici e religiosi, di quella stessa varia umanità dalla quale trarrà poi i complici per i suoi crimini.
La situazione politica era però ancora in movimento. All’inizio del 1430 il reggente inglese, Bedford, cercò un’alleanza col duca di Borgogna contro il re Charles. Ne seguirono altri due anni di guerre e di torbidi (nel corso dei quali avvenne anche la cattura di Giovanna d’Arco da parte del duca di Borgogna, che poi la vendette agli inglesi per lire diecimila) che si conclusero con la battaglia di Lagny, nella bassa Marna, non lontano da Parigi. Qui l’esercito francese, ancora una volta sotto il comando di Gilles de Rais, forte di diecimila uomini, costrinse gli inglesi allo scontro aperto e li vinse. Eravamo alla fine del 1431.
Nell’ autunno dell’ anno successivo Jean de Craon si ammalava e moriva. Gilles aveva sempre subito l’autoritá del vecchio ribaldo che, solo al tramonto, incominciava ad intuire il mostro che stava maturando in quel nipote in cui aveva riposto tutte le sue speranze. Con un ultimo gesto patetico, il vecchio volle lasciare le sue armi al fratello minore di Gilles, René, quasi a dargli una tardiva investitura. Ma ormai per Gilles, con la morte del nonno, cadeva l’ultimo ostacolo alla totale ed esaltante libertà; ma nel contempo, nel suo animo di adolescente mai maturato, si apriva un enorme vuoto. Sopraggiunse un altro avvenimento pubblico a rinchiuderlo ancor più nel circolo privato delle sue ossessioni: la caduta di La Tremoille, suo protettore a corte, la cui carriera politica fu interrotta dalla regina Yolande con lo sbrigativo ed efficace sistema dell’accoltellamento. Fu per l’incapacitá dei sicari o, come dicono alcuni, per l’obesitá da tricheco del ministro, che l’attentato non fu mortale. Sta di fatto che, secondo lo spirito pratico dell’epoca, l’ex-potente fu convinto a ritirarsi dalla scena politica in cambio della vita, con l’aggiunta, che non guastava mai, di quattromila scudi d’oro. Ora Gilles era completamente solo. Solo con sé stesso, con le sue ossessioni. E per sua stessa confessione fu in quel periodo che iniziò la sua tremenda attività di mostro.
Il primo fanciullo che scomparve fu Jean Jeudon, dodicenne apprendista del pellaio di Machecoul, Guillaume Hilariet. Il buon artigiano non aveva alcun motivo di sospettare nulla quando nella sua bottega si presentò un personaggio altolocato, che faceva parte normalmente del seguito del sire di Rais, Gilles de Sillé. Questi gli chiese “in prestito” il ragazzo per mandare un messaggio urgente al castello. I1 ragazzo parti, emozionato dall’ incarico e con la speranza di ricevere un premio. A sera non era ancora tornato e il pellaio, con l’umiltá dovuta per le differenze di rango, si permise di chiedere notizie. E iniziarono cosi le prime risposte vaghe, che sarebbero poi state ripetute per decine, centinaia di volte, con la signorile seccatura che un cavaliere doveva pur mostrare verso un popolano. Che ne era del ragazzo? Forse era stato mandato per una commissione in un villaggio vicino. Ma forse per la strada era stato rapito dai briganti. O forse, non si era sentito parlare di un fanciullo annegato nel fiume? Più volte si parlò anche di un misterioso “cavaliere scozzese” che aveva preso con sé il fanciullo per farne un paggio. Che c’era dunque da preoccuparsi? Il ragazzo andava a star bene….
L’elenco delle nefandezze a cui erano sottoposti i fanciulli e, più raramente, le fanciulle, é francamente orrendo e si evince dagli atti processuali, che raccolgono la completa confessione di Gilles de Rais e dei due servi, Henriet e Poitou, che seguirono il loro padrone in tutte le possibili crudeltà e bassezze e che lo seguiranno poi sulla forca. Ma bisogna dire che, se i due servi erano i “fedelissimi”, le persone ammesse ad assistere, e talora a partecipare, agli infernali riti notturni erano ben di più. La variegata corte del sire di Rais non ignorava ciò che accadeva nelle stanze in cui le torce restavano accese fino a notte fonda: ma il processo colpì Gilles de Rais, troppo smisurato nel suo crimine, e i due servi, troppo umili per salvarsi. Le ragioni di convenienza lasciarono in libertà non pochi complici. Col tempo poi lo stesso atto sessuale contro natura venne a noia e i riti notturni erano dedicati, per lo più, all’uccisione, alla tortura, al sadismo più scatenati. Poi passava la notte, sorgeva di nuovo il sole e Gilles de Rais tornava ai suoi nuovi tormenti diurni: quelli mistici. In un incredibile miscuglio, Barbablù finanziava un gruppo di cantori della Cappella di Machecoul, che tenevano bellissimi concerti di musica sacra. Ma i cantori erano tutti giovinetti “graziosi, di modi gentili ed educati”. Non mancava mai alla Messa, ma intanto si interessava all’alchimia ed alle evocazioni diaboliche, cadendo vittima di due profittatori, il prete corrotto Blanchet e un astuto furfante fiorentino, Francesco Prelati, che lo aveva convinto di essere in contatto con un diavolo, di nome Barron, dal quale Gilles sperava anche di trovare un rimedio alle situazione sempre più drammatica delle sue finanze.
Siamo nel 1437 quando le voci sul sire di Rais sono ormai troppo insistenti e costringono il vescovo di Nantes ad inviare investigatori nelle varie residenze di Gilles per accertare cosa ci sia di vero in racconti che paiono frutto di fantasie malate. Quel buon prelato condusse inizialmente l’ inchiesta in modo un po’ fiacco, anche perché era stato uno dei maggiori profittatori delle svendite che Gilles de Rais continuava a fare delle sue proprietà e pare fosse ancora debitore di saldi che l’interessato non si sognava neanche di chiedere, perso com’era nei suoi fantasmi. Ma l’inizio delle investigazioni costringe Gilles e i suoi fedelissimi ad una frenetica attività di occultamento dei cadaveri non bruciati. Non sono sufficientemente veloci: troppe erano le vittime e con troppa noncuranza erano state gettate nelle cantine o nelle latrine dei castelli prima di adottare l’ uso, più prudente, di bruciare quei poveri resti nei camini.
Iniziano i primi ritrovamenti di resti umani: le voci erano vere. E il 14 settembre 1440 il maresciallo di Francia Gilles de Rais viene arrestato su ordine del vescovo Malestroit, avendo commesso reati che erano di competenza dell’autorità ecclesiastica: eresia, orribili evocazioni (del demonio), sodomia. Restava di competenza dell’autorità civile il reato di omicidio. Ma già erano sufficienti le violazioni alla legge ecclesiastica per consegnare Gilles al boia.
E Gilles de Rais volle vivere il processo, ultimo atto di una vita smisurata, in modo smisurato. Da mostro esecrando divenne pentito acceso dalla fede. E infatti, ammettendo tutti i suoi crimini, si dilungò a raccomandare ai genitori di esser vigilanti sui loro figli, perché crescessero nella Fede, senza indulgere alle mollezze e ai vizi. Una sola cosa chiese “in ginocchio, con umiltà e lacrime” ai suoi giudici: che gli venisse ritirata la scomunica, perché egli, nel suo vagare confuso tra alchimie ed evocazioni diaboliche, mai aveva perso nozione del fatto che la Salvezza é solo Nostro Signore e la Sua Chiesa. I giudici gli ritirarono la scomunica. Non solo. Quando il suo corpo si distese nell’immobilità, dopo i fremiti dell’impiccagione, venne adagiato in una bara e “accudito da damigelle di alta condizione”. Venne portato nella chiesa dei carmelitani, per l’ufficio religioso, e poi sepolto nella Chiesa di Notre Dame des Carmes, a Nantes.
E i due servi, Henriet e Poitou? Troppo umili: fu concesso loro di pentirsi, ma i loro corpi furono poi dati alle fiamme e le ceneri disperse. Tre secoli e mezzo dopo, la Rivoluzione Francese suscitò anche a Nantes disordini e saccheggi e anche la chiesa di Notre-Dame des Carmes fu devastata. Le tombe furono scoperchiate e, in una sorta di postuma giustizia, i resti di Barbablù andarono a confondersi con la terra e col vento.
E gli orgogliosi castelli, per i quali il vecchio Jean de Craon tanto aveva brigato, con ogni mezzo lecito ed illecito? Subirono danni irreparabili nel corso delle ultime lotte feudali ed ancor oggi emergono nelle campagne, rovine abbandonate e neri monconi di torri sbrecciate. Tra quelle desolanti rovine il primo biografo di Gilles de Rais, l’abate Brossard, trovò ancora, nel secolo scorso, resti di ossa umane.
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