Pietro Germi e l’egemonia culturale del P.C.I. Di Gino Salvi.

Pietro Germi.

Con gli accordi di Yalta (scaturiti dalla conferenza tenutasi dal 4 all’11 febbraio 1945, in Crimea) si ebbe la spartizione politica dell’Europa, in due sfere d’influenza, marxista l’una, e, come osservò lucidamente il filosofo Rosario Assunto (Caltanissetta, 28 marzo 1915 – Roma, 24 gennaio 1994), pragmatica l’altra. Nel senso che, essendogli, allora, inibita, in forza, appunto, degli accordi di Yalta, l’ascesa al governo, il Partito Comunista Italiano scelse di giungervi mediante il radicamento nella società civile. Perseguendo questa strada, il P.C.I. , pur essendo escluso dalle forze governanti, divenne la forza egemone nella società italiana. Infatti, il P.C.I. era stato, indubbiamente, tra le forze che fecero la Resistenza, quella numericamente più folta e la meglio organizzata. Per cui, nel dopoguerra, era sicuramente possibile dirsi anticomunista. Però, d’altra parte, anche così, era impossibile contrapporsi frontalmente al P.C.I., pena l’essere condannato quale reazionario, neofascista ed essere posto “fuori gioco”. Ora, Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) aveva individuato nella cultura quella forza che adeguatamente “storicizzata” sarebbe diventata lo strumento principale di azione e di trasformazione, all’interno della società civile. Perciò, il P.C.I. dedicò le sue energie migliori proprio a far sì che la cultura diventasse il nucleo forte della società. Infatti divenne giocoforza, da un lato criticare quegli artisti che avessero scelto una linea di disimpegno politico e, dall’altra parte, stroncare quelli che si riconoscessero su sponde ideologicamente differenti da quella comunista. Sia per i primi che per i secondi l’alternativa era o l’integrazione o l’esclusione. In questo contesto, Pietro Germi (Genova, 14 settembre 1914 – Roma, 5 dicembre 1974) non si integra. Non si integra non perché Germi non faccia parte del neorealismo, inteso in senso ampio come “un calderone che ribolliva”, ma perché sviluppa a modo suo le tematiche neorealiste e svolge, sempre a modo suo, l’impegno civile, illustrando, direttamente o indirettamente,  la condizione della donna, la famiglia, il lavoro. Per esempio, a proposito del tema della famiglia in due dei suoi film (ne “Il ferroviere”, del 1956, e ne “L’uomo di paglia”, del 1956), Germi mostrerà “la ricerca fiduciosa della sua unità e la constatazione amareggiata della sua disgregazione”. Anzi, Germi considerava il cinema uno strumento (del suo “valore polemico” il regista si sentiva “completamente investito”) dell’impegno civile, indispensabile al popolo italiano “per criticare gli aspetti negativi della sua vita, per autoeducarsi a un concetto veramente superiore e operante di libertà”. Però, c’è di più. Infatti, se da  un lato il cinema di Germi è un frutto dell’albero neorealista, la sua visione autoriale è influenzata da altri riferimenti filmici quali “Chiamate Nord 777” (“Call Northside 777” – 1948), di Henry Hathaway (Sacramento, 13 marzo 1898 – Hollywood, 11 febbraio 1985), “La città nuda” (“(The Naked City” – 1948) di Jules Dassin (Middletown, 18 dicembre 1911 – Atene, 31 marzo 2008), “Giungla d’asfalto” (“The Asphalt Jungle” – 1950) di John Huston (Nevada, 5 agosto 1906 – Middletown, 28 agosto 1987); o quei due capolavori di John Ford (Cape Elizabeth, 1º febbraio 1894 – Palm Desert, 31 agosto 1973) che sono “Furore” (“The Grapes of Wrath” – 1940) e “Il massacro di Fort Apache” (“Fort Apache” – 1948); o, ancora, “Fronte del porto” (“On the Waterfront” – 1954) di Elia Kazan (Istanbul, 7 settembre 1909 – New York, 28 settembre 2003). Sia la vocazione ad un cinema più narrativo che polemico che la natura eclettica del suo impegno cinematografico avvicinano Germi ad una parte dei registi americani di cui sopra. Come ha raccontato lo sceneggiatore Tullio Pinelli, Germi “aveva, diciamo, quella educazione cinematografica, lui veniva da lì”. Infatti, proprio un regista statunitense, Billy Wilder affermò che Germi è “uno dei massimi”. La questione è, comunque, assai complessa. Perché, nel cinema di Germi si può osservare, anche, una certa continuità anche con quello venuto o prima del modello neorealista o non inscrivibile in quel modello e, cioè, con Alessandro Blasetti (Roma, 3 luglio 1900 – Roma, 1º febbraio 1987), Augusto Genina (Roma, 28 gennaio 1892 – Roma, 18 settembre 1957), Ferdinando Maria Poggioli (Bologna, 15 dicembre 1897 – Roma, 2 febbraio 1945), Mario Soldati (Torino, 17 novembre 1906 – Tellaro, 19 giugno 1999) e Alberto Lattuada (Vaprio d’Adda, 14 novembre 1914 – Orvieto, 3 luglio 2005). Tutti i riferimenti cinematografici di cui sopra sono rintracciabili in tutti i film di Pietro Germi, a cominciare da “Il testimone” per giungere a “Un maledetto imbroglio” e passando per “Gioventù perduta, “In nome della legge”, “Il cammino della speranza”, “La città si difende”, “La presidentessa”, “Il brigante di Tacca del Lupo”, “Gelosia”, “Il ferroviere” e “L’uomo di paglia”. Scorrendo gli intrecci dei film di cui sopra non è difficile trovare dei punti di contatto con la cinematografia statunitense degli anni Quaranta e degli anni Cinquanta. “Il testimone” (1945) era la storia di un condannato a morte che viene graziato per un errore giudiziario perché un testimone  ha una crisi di coscienza e ritratta. Mentre sia “Gioventù perduta” (1947) che “La città si difende” (1951) raccontavano le imprese criminali di una banda di giovani delinquenti. “In nome della legge” (1949) è stato, invece, uno dei primi film italiani ambientati in Sicilia sui fenomeni del banditismo e della mafia. Ne “Il cammino della speranza” (1950) veniva mostrato il viaggio, dalla Sicilia alla Francia, di un gruppo di minatori siciliani e delle loro famiglie. Il brigantaggio meridionale, all’epoca del Risorgimento, era invece protagonista ne “Il brigante di Tacca del Lupo” (1952). “La presidentessa” (1952) e “Gelosia” (1953) erano, rispettivamente, le trascrizioni  di una commedia teatrale francese di Maurice Hennequin (Liegi, 10 dicembre 1863 – Montreux, 3 settembre 1926) e del romanzo “Il marchese di Roccaverdina” (1901) di Luigi Capuana (Mineo, 28 maggio 1839 – Catania, 29 novembre 1915). “Il ferroviere” (1956) era il ritratto realistico appunto di un ferroviere e della sua famiglia. Ne “l’uomo di paglia” (1958) il tema classicamente borghese dell’adulterio veniva trasportato in un ambiente popolare, come se il mondo di “Ladri di biciclette” (1948) di Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974) s’incontrasse con l’universo di “Breve incontro” (1945) di  (Croydon, 25 marzo 1908 – Limehouse, 16 aprile 1991). Infine, “Un maledetto imbroglio” (1959) era la versione cinematografica del romanzo di Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” (1957). Del romanzo di Gadda, Germi portò sullo schermo l’intreccio, traducendolo nelle forme di un poliziesco calato nella realtà italiana. Di tutte queste pellicole di Germi la critica mise generalmente in luce la solidità, la compattezza, la sobrietà, il valore delle sceneggiature, la capacità del regista di conferire ritmo alla narrazione. Però, al tempo stesso, ci furono le accuse di “facilità”, di “sentimentalismo”, di “convenzionalità”, di “commercialità”, di “ibridismo”. Si rimproveravano a Germi sia le influenze culturali estranee al neorealismo che la contaminazione tra la realtà in presa diretta e la finzione. Si tratta di critiche strumentali. Tra l’altro, fu lo stesso Germi, per esempio, a non essere soddisfatto né de “La presidentessa”, né di  “Gelosia”, considerandoli film su commissione dei produttori e non opere d’autore. Certo, è vero (nonostante che il romanzo “Piccola pretura”, da cui era tratto, fosse del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo) che la raffigurazione del fenomeno mafioso ne “In nome della legge” era, talvolta, eccessivamente romanzesca.  Pensiamo, ad esempio, alla figura del bandito siciliano Turi Passalacqua, interpretato dall’attore francese Charles Vanel. Però sono comunque cose di scarsissima importanza, commisurate al valore della sua opera cinematografica. Perché, nel complesso le critiche portate avanti a Pietro Germi ed ai suoi film erano, appunto, massimamente strumentali. Perché Germi (diversamente da altri grandi autori cinematografici dell’epoca) non fu mai organico al Partito Comunista Italiano e nemmeno gli si avvicinò. Anzi, Germi volle rimarcare il suo non essere comunista ed il suo restarne lontano. Germi, in ogni caso, ribadì anche il suo antifascismo e la sua scala di valori che discendeva dalla Resistenza e dalla Costituzione repubblicana. In questo senso, Germi si riconosceva nell’area socialista. Perciò, da parte comunista, venne descritto, con evidente intento critico, come un socialista umanitario, sentimentale, deamicisiano. Si trattava, anch’esso, di un attacco strumentale. In quanto, Germi non era umanitario, sentimentale, deamicisiano per calcolo; lo era per passione, lo era perché voleva bene ai personaggi dei suoi film. Germi partecipava, profondamente partecipava della sorte del minatore Saro Cammarata (interpretato vigorosamente da Raf Vallone, ne “Il cammino della speranza”) e del ferroviere Andrea Marcocci (interpretato dallo stesso regista). Germi riteneva, infatti, che fossero “tempi duri”, anzi “tempi maledetti”, quelli in cui l’uomo “che non porta risvolto ai pantaloni non si commuove”.  Anche a costo d’essere accusato di “irrealismo” per il finale de “Il cammino della speranza”, in cui gli emigranti siciliani tentavano di espatriare clandestinamente ed erano rimasti bloccati dalla neve. Mentre, le guardie di frontiera francese  “con un colpo di buon cuore cancellavano ogni frontiera”. Perché, per Germi, l’essere neorealista non consisteva soltanto nel girare dal vero, ma, giustamente, nel fatto di entrare nelle problematiche della gente, non in modo distaccato ma intensamente partecipe. Comunque, che le critiche rivolte a Germi fossero proprio strumentali lo si evince da quanto disse lo stesso regista quando gli venne proposto di realizzare un film sulla storia dei sette fratelli Cervi. Germi affermò che essendo stati i Cervi dei partigiani comunisti, un film realizzato da lui, non comunista, non avrebbe inquadrato correttamente la personalità dei sette fratelli. Germi fu limpido e sincero, e il film sui fratelli Cervi venne diretto, nel 1968, da Gianni Puccini.  Però, a Germi non perdonarono il suo rimarcare la distanza tra sé ed il Partito Comunista Italiano. Anche se va detto che a Germi venne a mancare soltanto l’apprezzamento della critica più schierata ideologicamente, mentre non gli mancarono mai quello del pubblico e della critica libera o che, pur essendo schierata, guardava, com’era giusto, ai valori cinematografici dei film. Le critiche, sempre più crescenti, condussero, comunque, Germi ad accentuare vieppiù le sue caratteristiche di “falegname” del cinema, di “regista all’antica”, il suo rigore e le sue durezze di genovese, e ad appartarsi all’interno del mondo cinematografico italiano con “l’orgoglio e anche l’amarezza e la rabbia” di dover superare “certe chiusure, certe incomprensioni, certe umiliazioni”.  Infatti, anche se nessuno dei suoi film si svolge in Liguria e nemmeno a Genova, sia Germi che il suo cinema hanno, però, al loro interno una “genovesità”, caratterizzata dall’essere contemporaneamente “burbero e generoso, moralmente risentito e disponibile ad improvvisi abbandoni sentimentali”. Giunto a questo punto di questo saggio, credo sia giusto fare un proposta concreta. Sarebbe magnifico se Genova, la Genova che Germi ammirava (“per la bellezza incredibile nei suoi aspetti scenografici, architettonici, ambientali”) gli dedicasse un concorso per sceneggiature che debbano essere appunto ambientate a Genova e che uniscano robustezza narrativa, sapienza spettacolare e tensione d’autore, nell’ambito di quel “cinema classico” che il regista portò avanti coerentemente per tutta la sua carriera. Propongo ciò perché altri tipi di omaggio, come una rassegna completa dei suoi film o una mostra illustrativa sarebbero sicuramente altrettanto ottimi, ma sarebbero anche transitori. Mentre, un concorso, come quello che propongo, vorrebbe essere un omaggio stabile e duraturo. Infatti, non dimentichiamo che per Germi una sceneggiatura rigorosa e scritta con pignoleria era il fondamento indispensabile per i suoi film.  Nella seconda parte della carriera, ovvero con film quali “Divorzio all’italiana” (1961), “Sedotta e abbandonata” (1964), “Signore e signori” (1966), da un lato le critiche contrarie si affievolirono, mentre, dall’altro, al plauso del pubblico e di quella parte della critica a cui abbiamo già accennato, si unirono i calorosi riconoscimenti dall’estero. Pensiamo al premio per la migliore commedia e all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale vinti da “Divorzio all’italiana”. Pensiamo al premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes, vinto da Saro Urzì, per “Sedotta e abbandonata”. Pensiamo alla Palma d’Oro vinta, sempre al Festival di Cannes, da “Signore e signori”, per il miglior film. Proprio perché Germi è stato un grande regista sia di quel cinema italiano ammirato in tutto il mondo che della “Genova in celluloide” credo che sarebbe davvero giusto, giustissimo dedicargli il concorso di cui ho scritto più sopra.

Bibliografia

Enrico Giacovelli, Pietro Germi, Il Castoro Cinema n. 147, Editrice Il Castoro, 1997;

Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini e Castoldi, 2007;

A cura di A. Aprà – M. Armenzoni, P. Pistagnesi, Pietro Germi. Ritratto di un regista all’antica, Pratiche, 1989;

Carlo Carotti, Le donne, la famiglia il lavoro nel cinema di Pietro Germi, Milano, Lampi di stampa, 2011;

A cura di e con Claudio Bertieri e Marco Salotti, Genova in celluloide. I registi liguri, Genova, 1983.

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