Premesse storiche.
Prima della rivoluzione bolscevica, molti intellettuali nazionalisti ucraini si erano dichiarati favorevoli alla realizzazione di una Federazione Russa nella quale l’Ucraina avesse potuto svilupparsi, sotto il profilo amministrativo e politico, in maniera autonoma. La quasi totalità della classe colta era infatti disposta ad accettare l’idea di un grande stato russo caratterizzato però da un forte decentramento. Tuttavia, avendo i bolscevichi dimostrato evidente avversità a tale prospettiva federalista, gli ucraini dovettero optare per l’alternativa secessionista, proclamando, nel gennaio 1918, l’indipendenza e la repubblica. Anche se, nella parte occidentale dell’Ucraina (quella ancora occupata dalle forze austriache) la popolazione fu costretta a procrastinare la sua adesione alla nuova realtà statuale fino al novembre 1918, cioè dopo la resa degli Imperi Centrali. La vita della Repubblica Ucraina Unita (istituita nel gennaio 1919), fu comunque molto breve in quanto le sanguinose vicende legate alla Guerra Civile russa trasformarono il paese in un gigantesco campo di battaglia che vide contrapposti gli eserciti “bianchi”, quelli polacchi, quelli bolscevichi e l’’Armata anarchica’ di Nestor Makhno che, dopo avere combattuto contro le forze ‘bianche’, venne tradita, attaccata e distrutta dalle armate bolsceviche che costrinsero lo stesso Makhno e poche centinaia di suoi seguaci a fuggire in Occidente attraverso il confine romeno.
Questi tragici avvenimenti non disarmarono però i patrioti ucraini che nel 1921 confluirono, assieme ad ex-militari del vecchio esercito zarista, nell’UVO (Ukrainska Viiskova Orhanizatsiia, Organizzazione Militare Ucraina), movimento che si pose come obiettivo la cacciata degli occupanti polacchi e bolscevichi (questi ultimi usciti vincitori dallo scontro con i “bianchi”) e l’indipendenza totale della vasta regione. E sulla base di questo scarno ma concreto programma, l’UVO scatenò in Bielorussia una sanguinosa guerriglia tesa a destabilizzare e delegittimare il potere di Varsavia.
Agli inizi del 1923, anche l’Ucraina orientale iniziò a manifestare in maniera più che palese la propria avversità nei confronti di Mosca. Il 30 dicembre del 1922, con la creazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Lenin aveva infatti concesso alle singole repubbliche di conservare un buon margine di autonomia culturale, arrogandosi tuttavia l’assoluto controllo politico delle stesse tramite le organizzazioni locali del Partito Comunista: atteggiamento che spinse anche gli elementi più moderati dell’UVO verso la deriva secessionista.
Nel 1929, grazie all’adesione di altri gruppi e formazioni indipendentisti ucraini, l’UVO si ampliò e rafforzò, trasformandosi nell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (Orhanizatsiia Ukrainskykh Natsionalistiv) o OUN e passando sotto la guida del colonnello Yevhen Konovalets, un alto ufficiale dell’esercito già facente parte dell’UVO, eletto nel corso di un congresso straordinario del movimento svoltosi lo stesso anno a Vienna.
Anche l’OUN aveva come scopo primario la formazione di uno stato ucraino indipendente: obiettivo da raggiungere, se necessario, attraverso l’utilizzo della forza. Proprio per questo motivo, l’OUN decise di tagliare i ponti con gli altri partiti politici ucraini moderati, tollerati – ma nel contempo anche controllati – dagli occupanti polacchi e bolscevichi. Dal punto di vista ideologico, l’OUN prese in prestito i fondamenti dall’idealismo nazionalista dell’intellettuale Dmytro Dontsov (1883-1973), abbracciando dottrine piuttosto radicali e, come si è detto, comunque contrarie a quelle di altri gruppi politici ucraini e bielorussi, accusati di arrendevolezza nei confronti del governo polacco che a quel tempo occupava ed esercitava il potere in tutta l’Ucraina occidentale. Non a caso, l’OUN si diede una struttura molto forte, gerarchica, caratterizzata da un direttivo decisionista e autoritario.
In Ucraina occidentale, il programma politico-militare dell’OUN si sviluppò quasi esclusivamente attraverso la lotta armata e l’azione terroristica nei confronti delle forze e delle istituzioni polacche (nel 1936, un commando dell’OUN assassinerà il ministro degli Affari Interni polacco Pieracki).
Sotto il profilo economico e sociale, i vertici dell’OUN ponevano in evidenza il ruolo dello Stato quale unico, o quasi, controllore di tutti i settori produttivi e della vita civile: un progetto che ricalcava in buona misura il modello rappresentato dall’Italia fascista. Yevhen Onatsky, un giornalista ed intellettuale che fece parte della nomenclatura della cosiddetta Repubblica del Popolo Ucraino in qualità di ambasciatore, viene ricordato come uno dei più ferventi ammiratori di Mussolini ed uno dei maggiori sostenitori del modello politico fascista. Nel corso delle sue missioni in Occidente e in Italia, Onatsky tentò anche di ottenere l’appoggio del regime italiano alla causa nazionale ucraina, senza però ottenere alcun risultato concreto. Un altro importante teorico di uno stato ucraino modellato su quello creato da Mussolini fu Mykola Stsiborsky che nel 1935 patrocinò l’istituzione di un’organizzazione politica e statuale molto simile a quella italiana dell’epoca, soprattutto sotto il profilo economico e sociale. Stsiborsky sosteneva infatti la necessità di dare vita ad uno stato corporativo, robustamente industrializzato, modernista, tale da consentire all’Ucraina, paese tradizionalmente legato all’agricoltura, di entrare un giorno a fare parte del gruppo delle nazioni europee più progredite. Quello di Stsiborsky era però un progetto destinato a fallire, in quanto gran parte dei vertici dell’OUN mantenevano riguardo alla “modernizzazione” socio-economica non pochi pregiudizi, essendo essi stessi ancorati all’immagine di un’Ucraina sì forte, ma contadina, fondata su valori antichi, ma anche antiquati, e comunque condivisi da buona parte della stessa popolazione. Ciò che l’élite tradizionalista ucraina auspicava era senz’altro un rafforzamento economico e politico dello Stato e soprattutto un contestuale miglioramento delle condizioni della classe contadina. I tradizionalisti spingevano in direzione di una grande riforma agraria che garantisse agli agricoltori l’affrancamento dai retaggi dei vecchi regimi feudali, pur nel rispetto della proprietà (cioè in antitesi con le tesi bolsceviche), ma nel contempo diffidavano dei modelli occidentali e modernisti considerati, probabilmente, troppo distanti dalla mentalità del popolo ucraino.
Nel 1933, con l’ascesa di Hitler in Germania, i leader e gli intellettuali dell’OUN si vennero a trovare in una situazione particolare e per certi versi imbarazzante. Sulle prime, infatti, il nazionalsocialismo tedesco e le sue teorie relative al ruolo e al primato di uno Stato forte, autoritario e popolare, esercitarono, seppure con qualche distinguo, una certa influenza o attrazione su alcuni membri dell’OUN, anche se l’Onatsky ne diffidò subito, comprendendo tra l’altro l’evidente diversa natura esistente tra il fenomeno nazista e quello fascista italiano, che egli prediligeva. Successivamente, Onatsky giunse a condannare senza riserve il nazionalsocialismo come fenomeno imperialista, pangermanista, razzista e anticristiano, andando così ad unirsi al fronte critico rappresentato da Stsiborsky. Tuttavia, alla metà degli anni Trenta, la Germania (nonostante alcune intese raggiunte con l’Unione Sovietica relative a scambi commerciali e consulenze militari) appariva agli occhi di buona parte dei vertici OUN l’unica potenza dell’Europa centrale in grado, almeno teoricamente, di controbilanciare la Russia comunista dal cui giogo l’OUN e gli ucraini volevano liberarsi. Queste considerazioni circa il ruolo della Germania nel futuro dell’Ucraina continuarono ad esercitare per molto tempo un discreto fascino su diversi esponenti del movimento. Il fatto poi che, successivamente, la Germania si dimostrasse una delle peggiori nemiche della Polonia (nazione che gli ucraini ovviamente detestavano), non fece altro che consolidare in alcuni la convinzione che Hitler potesse un giorno rivelarsi un buon interlocutore e finanche un alleato. E fu così che, pur mantenendo molte riserve di carattere ideologico sul nazismo, nel 1937 l’OUN decise di allacciare contatti con gli ambienti militari e dell’intelligence tedeschi, fornendo ad essi informazioni sulle attività del governo polacco e sovietico.
Questo nuovo rapporto di cooperazione venne accolto positivamente da ideologi nazionalisti ucraini come Dmytro Dontsov che lodarono più volte la politica interna ed estera di Hitler. Pur condividendo, almeno in parte, queste opinioni, Dontsov non tralasciò mai di sottolineare nei suoi scritti le sue personali simpatie nei confronti dei regimi fascisti, falangisti e corporativisti europei come quelli di Mussolini, Franco e Salazar. Sebbene Dontsov non facesse parte dell’OUN, i suoi trattati esercitarono comunque una considerevole influenza sui membri più giovani dell’organizzazione. Senza considerare che molti intellettuali ucraini, anche moderati, sottoposti alla persecuzione polacca, iniziarono, con il passare del tempo, ad assumere posizioni molto vicine a quelle dello stesso Dontsov, che ricevette critiche soltanto da Onatsky e Stsiborsky. L’atteggiamento sempre più filotedesco assunto dall’OUN, indusse sia la Polonia che l’Unione Sovietica ad accentuare la sorveglianza e ad inasprire la repressione contro il movimento ucraino, tanto che, il 23 maggio 1938, a Rotterdam, agenti della NKVD giunsero ad assassinare (utilizzando una carica di esplosivo) il leader Konovalets, al quale succedette il colonnello Andrij Melnyk.
Nel tentativo di arginare e superare le posizioni dei membri più giovani ed estremisti dell’organizzazione, l’OUN si diede una struttura maggiormente solida e centralizzata, modificando la sua stessa costituzione. Ciononostante, nel 1940, un gruppo di radicali (molti dei quali erano stati perseguitati e incarcerati dai polacchi) decise uscire dall’OUN, considerata ormai troppo statica e inconcludente, per dare vita ad un nuovo soggetto politico-operativo: la Direzione Rivoluzionaria, alla cui testa si pose l’ex-capo dell’Esecutivo Territoriale dell’Ucraina Occidentale dell’OUN, Stepan Bandera.
La resistenza antisovietica in Ucraina.
Nella seconda metà di settembre del 1939, in seguito all’invasione sovietica della Polonia orientale, la posizione dell’OUN in Ucraina occidentale si fece molto complessa, in quanto Mosca – lasciata dai tedeschi libera di agire in Polonia orientale e in Bielorussia – avviò una violenta repressione nei confronti dell’organizzazione nazionalista ucraina, arrestando, uccidendo o deportando in Siberia centinaia di militanti o di semplici simpatizzanti. Il fatto che Hitler avesse avvallato, in virtù del patto Ribbentrop-Molotov, l’occupazione sovietica della Polonia orientale creò nei vertici OUN un notevole disappunto, anche perché, nella primavera del 1939, la Germania aveva ad essi già dimostrato la sua evidente e scarsa considerazione nei confronti della causa ucraina, consentendo all’Ungheria di liquidare la neonata Repubblica Ucraino-Carpatica, appoggiata dall’OUN. Gli ostili atteggiamenti del Fuhrer raffreddarono la simpatia precedentemente manifestata dai leader dell’OUN per il Terzo Reich, anche se una parte di essi continuò a sperare in un possibile deterioramento dei rapporti tra Berlino e Mosca: eventualità in effetti non del tutto remota, che avrebbe potuto ridare all’Ucraina una nuova possibilità di perseguire l’agognato obiettivo dell’indipendenza. Per questo motivo, dopo l’attacco tedesco alla Russia (22 giugno 1941), l’OUN non ebbe esitazioni nello scatenare la guerriglia contro le forze sovietiche, organizzando i primi nuclei combattenti (pokhidni hrupy): unità che, approfittando della travolgente avanzata della Wehrmacht, disturbarono le retrovie dell’Armata Rossa. Con questa mossa, i leader ucraini sperarono, abbastanza ingenuamente, di indurre Hitler a prendere un atteggiamento più favorevole nei confronti dell’Ucraina.
Proprio in questo periodo, la fazione “eretica” del movimento guidata da Stepan Bandera (personaggio destinato a diventare il vero, seppure molto discusso e criticato, leader del movimento indipendentista armato ucraino) mise in piedi due battaglioni di volontari che, dopo essere stati addestrati da ufficiali della Wehrmacht, andarono ad affiancare l’esercito tedesco ormai all’inseguimento dell’Armata Rossa. Vista la situazione, anche l’OUN non tardò a dichiarare apertamente il proprio sostegno alle forze germaniche che nel frattempo stavano facendo sloggiare i russi dall’Ucraina occidentale. Se da un lato questa dichiarazione di intenti venne accolta con favore dai generali tedeschi – ai quali faceva assai comodo l’appoggio della popolazione e delle unità di volontari ucraini – dall’altra essa lasciò del tutto indifferente Hitler che, oltre a non ritenere affatto esiziale il contributo dell’OUN allo sforzo militare germanico, confermò le sue pesanti opinioni circa la natura dei popoli slavi (ucraini inclusi) – paragonati ad esseri “sub umani” – e ordinò nel contempo alla Gestapo di eliminare i leader del movimento indipendentista ucraino. Secondo i piani di Hitler, l’Ucraina sarebbe infatti diventata un territorio di conquista da sottomettere e sfruttare. Per questa nazione si apriva dunque un periodo tra i più neri e contraddittori della sua lunga storia. Il duro regime di occupazione nazista e la negazione da parte della Germania di una benché minima forma di autonomia, spaccò il movimento indipendentista ormai incapace di prendere una coerente e dignitosa posizione tale da mantenere unito lo sfortunato popolo ucraino. La sostanziale incapacità politica palesata dai vertici OUN gettò infatti il paese nel caos spingendo i giovani, ma anche i meno giovani, ad optare per scelte politico-militari degradanti se non addirittura infamanti (tra l’estate del 1941 e l’estate del 1944, molti accettarono – in odio ai russi e al bolscevismo – di arruolarsi in formazioni paramilitari che vennero poi utilizzate dai tedeschi per combattere i partigiani sovietici, ma anche per dare la caccia agli ebrei e ai polacchi). Fino a quando, nel 1944, in seguito alla ritirata tedesca e al ritorno dell’Armata Rossa, tutti gli indipendentisti ucraini compresero che la loro lotta, fattasi ormai disperata, si sarebbe ancora protratta per molto tempo e, probabilmente, nell’isolamento più totale.
Dal punto di vista storico, il periodo dell’occupazione tedesca dell’Ucraina corrisponde alla cosiddetta “prima fase bellica” (luglio 1941-luglio 1944) della resistenza antisovietica. Questo periodo fu caratterizzato dal vigoroso sviluppo di un nuovo soggetto politico-militare ucraino: l’UPA (Ukrainska Povstanska Armiia), creata a Volyn il 14 ottobre 1942 da Roman Shukhevych. Lo scopo principale di questa organizzazione fu inizialmente quello di difendere la popolazione dalle operazioni di pulizia etnica intraprese dai nazisti e dagli attacchi delle formazioni partigiane comuniste che, a partire dalla fine dell’estate del 1941, iniziarono ad operare nelle retrovie tedesche. L’UPA perseguì inoltre l’obiettivo di ricostituire un esercito nazionale ucraino indipendente: progetto che, tuttavia, non riuscì mai a concretizzare per la ferma opposizione di Hitler. A dimostrazione della palese quanto profonda avversità dei nazisti nei confronti dei nazionalisti ucraini si ricordi che, il 30 giugno 1941, a Lvov (l’ex-Leopoli), allorquando Stepan Bandera osò proclamare l’indipendenza dell’Ucraina, la Gestapo lo arrestò immediatamente assieme ai suoi più stretti collaboratori. E stessa sorte toccò anche al leader dell’OUN Melnyk che dopo essere stato richiuso in un carcere, nel 1944 venne internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Sempre nell’estate del 1941, la Gestapo iniziò a rastrellare e ad eliminare tutti i membri delle principali fazioni nazionaliste ucraine, deportando in Germania migliaia di attivisti e semplici cittadini impiegandoli nei lavori più duri e umilianti. Il vero volto della “Nuova Europa” nazista stava venendo alla luce.
Nonostante le rappresaglie tedesche, nel 1942, l’UPA annoverava tra le sue file circa 100.000 combattenti, suddivisi in numerosi gruppi operativi, sia in Ucraina occidentale che nei Carpazi orientali. All’inizio del 1944, i suoi organici salirono a quasi 200.000 uomini, parte dei quali impegnati contro i tedeschi e parte contro i partigiani comunisti appoggiati e riforniti tramite mezzi aerei dall’Armata Rossa. Nell’agosto 1943, in occasione della Terza Assemblea Straordinaria indetta dalla fazione di Bandera, l’OUN, ormai alle strette, adottò una guida collegiale, riconoscendo l’UPA quale formazione militare ufficiale rappresentante l’intero popolo ucraino. Tra la primavera e l’estate del 1944, sotto la spinta delle armate sovietiche, l’UPA si ritrovò praticamente sola nel contrastare l’avanzata russa. A Stalin – che ai suoi generali aveva già impartito l’ordine di sterminare tutti i ribelli accusati di collaborazionismo con i nazisti – si presentava finalmente l’occasione per liquidare una volta per tutte l’annosa “questione ucraina”. Sebbene consci della gravità e pericolosità della situazione, i partigiani ucraini accettarono però il confronto, iniziando a raccogliere armi e a creare basi nelle vaste foreste e paludi presenti nella regione. In breve tempo i vertici UPA riuscirono a costituire una struttura militare efficiente e completa, dotata di comandi centrali e intermedi, suddivisa in reparti che agivano secondo criteri operativi e tattici molto precisi. A fianco dei gruppi combattenti, manovravano unità di supporto e logistiche e numerose cellule composte da informatori e agenti, alle quali venivano affidati compiti di intelligence e missioni di sabotaggio e di “eliminazione” di importanti personalità militari sia sovietiche che naziste. Va ricordato a questo proposito l’assassinio del maresciallo dell’Armata Rossa Nikolai Vatutin (marzo 1944), ma anche l’uccisione diversi alti ufficiali delle SS e della Gestapo, come il capo di stato maggiore delle SA, Viktor Lutze.
Nonostante le molteplici ed oggettive difficoltà, il comando dell’UPA fronteggiò quindi piuttosto bene l’avvio della “seconda fase” della resistenza antisovietica che, tra alterne vicende e tramite il seppur discontinuo appoggio dei servizi segreti occidentali, si sarebbe protratta fino alla metà degli anni Cinquanta.
Con l’entrata dell’Armata Rossa in Ucraina, l’UPA provò, prima di dare campo alle armi, a persuadere i soldati russi circa l’inutilità di una lotta fratricida. E a questo scopo fece trovare lungo il cammino delle colonne sovietiche manifesti e volantini inneggianti alla “pace e l’unità dei popoli russo e ucraino”. Incredibilmente, questa apparentemente bizzarra iniziativa riscosse un successo tale da indurre centinaia di soldati dell’Armata Rossa a ribellarsi ai propri comandanti e addirittura a disertare. In alcune zone dell’Ucraina si verificarono infatti casi di ribellione e disobbedienza da parte di intere unità che vennero passate per le armi da truppe scelte della NKVD. Ripristinato l’ordine e la disciplina, la Stavka, cioè il Comando Supremo delle forze armate sovietiche, riprese quindi all’offensiva contro l’UPA. Nell’autunno-inverno 1944 l’Armata Rossa e le forze speciali della NKVD eliminarono 57.405 combattenti ucraini e ne catturarono 50.387. E sempre secondo fonti sovietiche sembra che 15.990 ribelli si siano arresi spontaneamente. Va comunque segnalato, anche a fronte di questi dati, che, tra il 1944 e il 1954, l’attività dell’UPA si rivelerà molto intensa e si tradurrà in ben 14.424 attacchi contro raggruppamenti motorizzati e di fanteria dell’Armata Rossa e della NKVD, senza contare gli attentati a presidi, caserme, quartieri generali, uffici e depositi: fatti d’arme che provocheranno la morte e il ferimento di almeno 35.000 tra ufficiali e militari sovietici e la distruzione di centinaia di autoveicoli e mezzi blindati.
Inferti i primi duri colpi ai raggruppamenti partigiani, i sovietici cercarono di isolare il movimento nazionalista dalla popolazione civile che, nel contempo, venne sottoposta a vessazioni di ogni tipo. La tattica più frequentemente adottata fu quella (già sperimentata con successo negli anni Trenta) di bloccare le forniture alimentari e di sementi ai villaggi e ai centri agricoli ucraini sospettati di dare appoggio ai partigiani. Queste misure, applicate da Stalin anche nei Paesi Baltici, si protrassero con maggiore o minore intensità per diversi anni. Secondo i documenti emersi nel 1995 dagli archivi moscoviti, tra il 1945 e il 1948, il Cremlino fece ridurre in percentuale variabile tutte le derrate alimentari e di generi di prima necessità destinati all’Ucraina: iniziativa che provocò la morte per inedia di almeno 10.000 persone. Come seconda mossa, sia nelle città che nei villaggi agricoli, i commissari politici avviarono una martellante propaganda avente come scopo quello di gettare discredito sull’UPA, facendo ricadere su di essa la responsabilità di tutte le stragi e privazioni inflitte al popolo ucraino. Nei paesi maggiormente colpiti dalle “carestie artificiali” i funzionari comunisti giunsero a promettere non soltanto cibo, ma anche generi di conforto a chi avesse collaborato in qualità di spia o delatore. Queste operazioni (concernenti perquisizione dei villaggi, distruzione di abitazioni e raccolti, sequestro di bestiame e deportazione di contadini nei gulag) vennero condotte soprattutto dalle forze speciali della NKVD ed in misura minore da reparti dell’Armata Rossa. Nell’arco dei primi quattro mesi del 1945, i sovietici fucilarono o impiccarono altri 95.083 tra uomini e donne, portando, alla fine dell’anno, il totale degli ucraini eliminati a 218.865 unità. Contestualmente, essi scatenarono una serie di offensive contro i nuclei più consistenti dell’UPA, ottenendo diversi successi: tra il 1945 e il 1947 vennero infatti uccisi oltre 35.000 aderenti al movimento.
Nel 1945, il confine fra URSS e Polonia venne ridisegnato da Mosca, e in questo nuovo contesto Stalin impose anche uno “scambio di popolazione su base etnica”: manovra che innescò il processo di “russificazione” dell’Ucraina occidentale. Alla metà del 1947, la pratica della deportazione e quella del ripopolamento forzato portarono allo spostamento di circa 14.000 ucraini dalle zone orientali della Polonia ad altri siti. In Ucraina occidentale circa 78.000 individui – per la maggior parte intellettuali e attivisti, ma anche ex-prigionieri e forzati che erano stati rimpatriati dalla Germania – vennero deportati in Siberia e in altre zone remote dell’Urss. Tra il 1945 e il 1946, il cosiddetto “scambio volontario di popolazione” con la Polonia permise al primo segretario del Partito Comunista Ucraino, Nikita Kruscev,di attuare la pressoché completa deportazione dei suoi compatrioti occidentali in Ucraina orientale. Oltre a ciò, Mosca ordinò che certe zone della regione venissero “colonizzate” da contadini provenienti da altre repubbliche dell’Unione. Si trattò indubbiamente di una pratica molto efficace che permise a Stalin di “tagliare l’erba” sotto i piedi dei partigiani. La “colonizzazione” e l’immissione in Ucraina di elementi etnici estranei ruppe infatti quei legami con la popolazione che avevano garantito all’UPA buona parte del sostentamento necessario. Tra il 1946 e il 1947, venne poi varato il Quarto Piano Quinquennale che ebbe come risultato un’intensa collettivizzazione dell’agricoltura e un contestuale, rapido aumento dell’industrializzazione: provvedimenti che, se da un lato consentirono la raccolta, e quindi il controllo, nelle fabbriche, di gran parte della popolazione, dall’altra non sortirono alcun sostanziale effetto benefico sull’economia della regione. La grave siccità del 1946 e la paurosa diminuzione della produttività agricola causata dalla deportazione di decine di migliaia di contadini, provocarono infatti una spaventosa carestia che colpì quasi un milione di persone.
Secondo gli storici, il vero e proprio “stato di assedio” dell’Ucraina da parte delle forze sovietiche ebbe inizio nel marzo 1945, quando Stalin, fondamentalmente insoddisfatto dai risultati conseguiti, diede il via alla prima campagna di pulizia etnica del secondo dopoguerra. Il massiccio intervento, affidato alla polizia politica, ma anche ad alcuni reparti dell’esercito, cominciò nel distretto di Sambir e, nell’arco di poche settimane, portò al massacro di 6.000 civili, in gran parte impiccati o fucilati. In certe zone paludose prescelte per le esecuzioni era pratica corrente eliminare i cadaveri legandoli con filo di ferro e facendoli sprofondare negli acquitrini, mentre in altri casi i corpi venivano ammassati in grandi fosse scavate da bulldozer, cosparsi di calce viva ed interrati; dopodiché sull’area venivano piantati alberi e arbusti.
Questo nuovo giro di vite non piegò però la popolazione e tanto meno i combattenti dell’UPA che, a partire dalla primavera del 1945, scatenarono numerosi attacchi a colonne motorizzate e a caserme e depositi sovietici. Non mancarono, da parte dei partigiani, azioni terroristiche nei centri urbani, anche con l’utilizzo di esplosivi. Nel corso di queste imprese, vennero fatte saltare in aria centrali di polizia, locali e ristoranti frequentati da militari e agenti. Secondo alcune stime, tra il 1945 e il 1946, i ribelli uccisero o ferirono 35.000 tra soldati e uomini della sicurezza. Nel febbraio 1947, in una località non precisata dei Carpazi, un commando UPA tese un’imboscata ed uccise il generale polacco Karol Swierczewski. Attentato che indusse il governo di Varsavia a deportare – di comune intesa con Mosca – dall’area di Lemkivschyna in altri siti migliaia di contadini ucraini sospettati di dare appoggio ai commando dell’UPA.
Documenti di fonte ucraina forniscono alcune indicazioni circa il numero delle azioni di guerriglia condotte dalle forze dell’UPA. Nel corso del 1948, i commando nazionalisti effettuarono 42 attacchi nella zona di Volyn, trecentottantasette in quella di Drohobych, otto in quella di Kamianets Podilskyi; due nell’area di Kiev, duecentosettantaquattro nel comprensorio di Lvov, sessantasette in quello di Rivne, più 344 nella zona di Stanyslaviv, duecentoottantadue in quella di Ternopol, due a Chernihiv, dodici a Chernivtsi e due a Brest (Bielorussia).
Sebbene l’UPA riuscisse a portare a compimento molte operazioni, nel 1948, a fronte dell’aumentare degli effettivi dell’Armata Rossa e, soprattutto, delle forze speciali, alcuni reparti partigiani furono costretti ad abbandonare le aree pianeggianti del paese e a trasferirsi più ad occidente verso le zone montagnose dei Carpazi orientali. Già a partire dalla fine del 1946, l’esercito sovietico, avvalendosi anche dell’appoggio di reparti aerei tattici, aveva infatti scatenato una serie di possenti e concentriche offensive circondando ed eliminando diversi gruppi ribelli operanti tra il corso del Dniepr e quello del Dniestr e nell’area di Zitomir e Kiev. Ragione per cui i vertici dell’UPA avevano deciso di ridurre gli organici dei singoli reparti (portati ad un massimo 15/20 elementi ciascuno), rendendoli in questo modo assai più agili e in grado di sgusciare tra le maglie della sorveglianza nemica. La frammentazione dei gruppi consentì anche di ridurre il pericolo di infiltrazione di agenti o informatori nemici, pratica molto utilizzata dai russi.
Di pari passo con le loro offensive militari, i sovietici continuarono ad esercitare una forte pressione materiale e psicologica sulla popolazione locale. Tra il 1945 e il 1946, la NKVD arrestò decine di migliaia (si parla di almeno 50.000 individui) tra cittadini e contadini. Queste attività vennero coordinate in buona misura dal primo segretario Profatilov, divenuto, nel 1945, responsabile di un apparato di sorveglianza e antiguerriglia estremamente efficace e articolato, formato da elementi dell’esercito regolare, reparti della NKVD (utilizzati per la difesa interna), unità Spetsgrup della NKVD (adoperati per interventi speciali), sezioni operative della NKGB, gruppi della GRU (Servizio Informazioni Militari), agenti dalla SMERSH (Controspionaggio Militare), battaglioni della Milizia Territoriale, reparti misti di unità della Milizia (addetti alla sorveglianza di ferrovie, ponti, fabbriche, ecc.), Istrebitelnye Bataliony (o battaglioni “strybki”) e drappelli di autodifesa dei villaggi.
Nel 1948, in talune zone dell’Ucraina, il Cremlino varò una politica di pacificazione e normalizzazione, basata su iniziative rivolte a rassicurare la popolazione. Abbandonato momentaneamente il bastone, i sovietici offrirono agli ucraini la carota. Mosca ordinò infatti larghe distribuzioni di viveri e medicinali, intraprendendo nel contempo la costruzione di ospedali, scuole, centri per l’infanzia e case popolari. Furono anche indette elezioni politiche (ovviamente, a scheda unica): uno stratagemma considerato utile per verificare il livello di eventuale disaffezione della popolazione nei confronti del movimento partigiano la cui attività, in effetti, aveva provocato gravi disagi all’intera comunità. Tuttavia, i risultati di questa prima consultazione si rivelarono un autentico fallimento. L’affluenza alle urne non superò infatti il 35% e tale assenteismo costrinse gli scrutinatori di partito a compilare centinaia di migliaia di schede. Come riferirono gli stessi commissari politici incaricati di sovrintendere le operazioni di voto, “quasi il 75% della popolazione non si era infatti presentata ai seggi, accusando malanni e contrattempi di tutti i tipi”.
Nel gennaio 1949, Kruscev venne nominato segretario del Comitato Centrale Comunista a Mosca e al suo posto, in Ucraina, arrivò Leonid Melnikov, che pur continuando con la politica di normalizzazione, non tralasciò di perseguitare molti intellettuali e uomini di chiesa, accusati di connivenza con l’UPA. Nel paese vennero vietate tutte le manifestazioni e le iniziative di carattere culturale o religioso che potessero in qualche modo corroborare o rinsaldare lo spirito patriottico ucraino. E di pari passo Melnikov intensificò ulteriormente il processo di “russificazione” della vasta regione, abolendo anche dal calendario tutte le ricorrenze tradizionali e le festività legate alla storia dell’Ucraina cristiana e ai suoi legami, anche quelli più antichi, con l’Occidente.
Nel corso del 1949, i sovietici incominciarono a “modificare” la struttura stessa della popolazione ucraina, sottraendo alle famiglie contadine la custodia dei propri figli e riunendo tutta l’infanzia e l’adolescenza nelle organizzazioni giovanili di partito (gli Octoborists, i Pionieri e il Komsomol). In ogni villaggio vennero indetti corsi serali di “rieducazione politica” per giovani e meno giovani, gestiti da esperti del ministero dell’Educazione. E contestualmente proseguirono le elargizioni di viveri ai contadini: soprattutto pane, latte, sale, sementi e vestiario.
Con l’inizio della Guerra Fredda, gli anglo-americani, che temevano un progressivo espandersi dell’influenza sovietica nel mondo, incominciarono – come abbiamo già avuto modo di dire – a considerare i movimenti di resistenza anticomunisti dell’Europa Orientale, e in modo particolare quello ucraino, alla stregua di potenziali e utili alleati. A questo proposito, va ricordato che tra il 1948 e il 1952, tre speciali reparti aerei alleati, il 580°, il 581° e il 582° nucleo dell’Air Resupply and Communication Squadron e del Psycological Storm Wing, dotati di speciali quadrimotori a grande autonomia Boeing B29 (totalmente dipinti di nero, privi di insegne ed affidati ad equipaggi polacchi, cechi e più raramente americani), effettuarono, partendo da basi situate in territorio cipriota, turco e tedesco, diverse missioni di supporto ai partigiani dell’UPA. Nell’ambito di un’operazione segreta chiamata in codice “Integral”, il SIS inglese, che da tempo in Inghilterra e in Germania addestrava piccoli gruppi di volontari ucraini, e baltici, che erano riusciti a fuggire in Occidente, organizzò aviolanci per trasferire in territorio sovietico commando e informatori ucraini, ma anche appartenenti ad altre minoranze, come quella armena e azerbaigiana. Ma come abbiamo già avuto modo di approfondire, la spia Kim Philby mise tempestivamente al corrente i sovietici di questi piani, provocandone il loro quasi totale fallimento.
Nella fattispecie, nel marzo 1951, Philby riferì a Mosca che la CIA aveva in programma un lancio in Ucraina di tre squadre di sei uomini ciascuna. L’articolata operazione scattò nel mese di maggio dello stesso anno quando da una base inglese situata nell’isola di Cipro, un bimotore britannico con immatricolazione civile trasferì 18 agenti di origine ucraina (che durante la Seconda Guerra Mondiale avevano prestato servizio nella Divisione SS “Galizia”) in territorio turco, da dove avrebbero poi dovuto raggiungere la Bulgaria, passare in Romania e quindi in Moldavia. La prima parte della missione ebbe esito positivo, ma allorquando il raggruppamento tentò di entrare in Bulgaria esso venne individuato e neutralizzato dalle forze di polizia comuniste.
Tra l’agosto e l’ottobre 1951, gli americani tentarono altri voli con relativo trasferimento di agenti e materiali, ma tutte queste operazioni (sempre negate dagli Stati Uniti) fallirono miseramente. Nel novembre dello stesso anno, un altro velivolo, questa volta americano, con a bordo apparecchi radio, materiale militare e valuta russa destinati ai partigiani ucraini, venne intercettato e catturato dai sovietici. E l’incidente si trasformò in un caso molto imbarazzate, almeno per Washington. In sede Onu, il rappresentante di Mosca, Andrei Vysinskiy accusò apertamente gli Stati Uniti di intromissione illegale e di atti palesemente ostili nei confronti dell’Unione Sovietica, costringendo il governo americano a pagare la somma di 120.000 dollari per il riscatto dell’equipaggio che si scoprì essere statunitense. Va notato a questo proposito che in altri casi, quando cioè si trattò di equipaggi polacchi e cecoslovacchi ingaggiati dalla CIA per missioni di intruding finiti nelle mani della polizia politica o dell’esercito sovietico, Washington si rifiutò sempre di patteggiare per la loro liberazione, e tanto meno di riconoscere collusioni o altre responsabilità di sorta.
Nel 1952, in seguito al progressivo aumentare della repressione russa, il comando dell’UPA accelerò lo spostamento di molti suoi reparti verso occidente nella speranza che essi, dopo avere attraversato Polonia, Germania Orientale, Ungheria o Cecoslovacchia, potessero trovare asilo nell’Europa libera. Già nel settembre 1947, infatti, ad un reparto (la Compagnia 95) era riuscito, seppure al prezzo di alte perdite, di passare in Germania Occidentale. Su 100 uomini facenti parte dell’unità, soltanto 36 arrivarono alla meta. (si veda a questo proposito Thousands of Roads di Maria Savchyn Pyskir, traduzione inglese di Ania Savage. Jefferson, N.C.; McFarland & Company, Inc.)
Gli assassini di personalità politiche e militari sovietiche o polacche e di “collaborazionisti” comunisti rientravano nel tipo di lotta armata intrapreso dall’UPA. Nel novembre 1949, a Lvov, un commando ucraino massacrò a colpi di ascia Yaroslav Galan, un ideologo sovietico molto impegnato nella lotta politica contro i cosiddetti “banditi” dell’UPA. Ma il 5 marzo 1950, nei pressi del villaggio di Chorny Lis in Ucraina occidentale, i russi si presero un’importante rivincita. Un contingente speciale della MVD alle dirette dipendenze di Pavel Anatolievich Sudoplatov (uomo di fiducia di Stalin, autore tra l’altro del piano realizzato per assassinare Trotsky), dopo lunghe ricerche riuscì a scovare e ad uccidere il leader partigiano Roman Shukhevych. Anche se alcune fonti ucraine sostengono che il loro comandante si sia invece suicidato per non cadere nelle mani dei sovietici. Sta di fatto che, dopo la morte di Shukhevych tutte le attività clandestine, condotte sotto il comando del successore colonnello Vasyl Kuk, iniziarono a perdere progressivamente mordente e intorno al 1955 (dopo la cattura di Kuk da parte di un commando MVD-MGM) gli ultimi gruppi armati dell’UPA cessarono ogni resistenza. Secondo certi storici, l’ultimo scontro armato degno di rilievo tra partigiani ucraini e forze sovietiche si verificò nel novembre del 1956 ai confini con l’Ungheria, allorquando alcuni guerriglieri UPA si unirono ad un gruppo di ribelli magiari in lotta contro i russi. Successivamente, il leader Kruscev avviò una politica sicuramente meno oppressiva, anche se totalmente illiberale, nei confronti del disgraziato popolo ucraino.
Circa la connivenza ideologica tra parte degli ucraini nazionalisti e tedeschi, nel secondo dopoguerra gran parte della pubblicistica non ha avuto dubbi nel liquidare sia l’UPA che l’OUN alla stregua di “fenomeni prettamente reazionari, filo fascisti e violenti”, e in quanto tali da condannare in toto. Fiumi di inchiostro sono stati versati a questo proposito sulle “nefandezze” compiute dalle formazioni ucraine (formate da volontari o coscritti) inserite nell’esercito tedesco. Si veda, a questo proposito, la 14ma Divisione di fanteria Waffen-SS “Galizia”, che comprendeva numerosi membri sia dell’OUN che dell’UPA. Durante l’occupazione tedesca della Polonia e dell’Unione Sovietica occidentale, le unità ucraine delle SS si distinsero, in effetti, nelle persecuzioni contro la popolazione civile polacca (circa 70.000/110.000 civili residenti in Galizia, Volhynia, Polesie e in alcune zone della Polonia sud-orientale vennero massacrati). Ma sostenere, come è stato fatto, che il movimento nazionalista ucraino si sia dedicato esclusivamente allo sterminio di russi, polacchi ed ebrei non corrisponde al vero, anche se – come si è detto – una parte degli aderenti all’UPA e dei volontari ucraini delle Waffen SS si macchiarono indubbiamente di orribili crimini. .
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