Il vero Lincoln. Alcune considerazioni poco note sul sedicesimo Presidente degli Stati Uniti: l’uomo che impedì la divisione della Nazione nordamericana. Di Fabio Bozzo.

Il presidente Abraham Lincoln.

Nella storia americana il nome Abraham Lincoln (1809-1865) proietta l’ombra di un gigante. E con buon diritto, possiamo aggiungere. Divenuto il sedicesimo capo dell’esecutivo USA in un momento carico di tensione come mai prima e dopo nella storia americana, la sua stessa elezione a Presidente fu la scintilla che incendiò un lago di benzina. Di questo Lincoln non ebbe colpa: pur rappresentando il “partito del Nord”, l’avvocato dell’Illinois (nato nel Kentucky) era un moderato della sua fazione, ben lontano dai radicali, gli estremisti ideologicamente avversi al Sud. Ma all’epoca Lincoln era anche, per la grande massa, uno sconosciuto. Questo permise ai mangiafuoco, l’equivalente sudista dei radicali al Nord, di dare l’ultima spinta verso quella che a molti meridionali sembrava essere (e forse era) l’unica soluzione all’inestricabile diatriba costituzionale tra Governo federale e Stati federati: la secessione del Sud.

Il neopresidente, moderato sull’esplosiva ma sopravvalutata questione della schiavitù, aveva invece ben chiarito quale fosse il cardine imprescindibile della sua politica: la salvaguardia dell’Unione. Di fronte a tale obbiettivo Lincoln si dimostrò sempre pronto a numerosi compromessi, ma niente, eccetto una totale sconfitta militare, lo avrebbe fatto retrocedere dalla conservazione dell’integrità territoriale degli Stati Uniti. Una situazione uguale e contraria si sviluppò al Sud, dove la leadership e la maggioranza dell’opinione pubblica della neonata Confederazione meridionale furono ben presto disponibili a vari accordi con Washington, purché fosse riconosciuta l’indipendenza appena raggiunta. In breve entrambe le parti erano pronte a venirsi incontro su tutto, tranne che sul punto centrale della contesa, Unione da un lato o due diverse federazioni dall’altro.

Lincoln, in qualità di comandante supremo degli Stati Uniti, ebbe la capacità di divenire un formidabile punto di riferimento per le forze armate e la cittadinanza del Nord. Concreto nella strategia ed abile (sebbene non sempre fortunato) nella scelta dei generali, affrontò le numerose sconfitte militari evitando che stanchezza e scoramento abbattessero il morale dei suoi compatrioti. Certo, l’elemento decisivo della vittoria fu l’enorme superiorità industriale e demografica del Nord rispetto ai secessionisti, ma è indubbio che la guida di Lincoln, determinata ed ispiratrice, sia stata un valore aggiunto.

Fu, come è logico aspettarsi, nella politica e nella susseguente propaganda che il sedicesimo Presidente colse i suoi successi maggiori. Con il Proclama di Emancipazione del 1862 e con l’approvazione del Tredicesimo Emendamento costituzionale del gennaio 1865 Lincoln seppe dare una spessa veste morale alla causa dell’Unione, quella della lotta alla schiavitù. In tal modo venne scongiurato un possibile intervento in guerra della Gran Bretagna, maggiore sostegno internazionale dei secessionisti ma avente un’opinione pubblica fortemente antischiavista.

Superiorità materiale, diplomazia raffinata e guida ferma: questi furono gli ingredienti che assicurarono la vittoria al Nord. Ottenuta la capitolazione del Sud Lincoln stava programmando l’opera per la sua ricostruzione e reinserimento effettivo nell’Unione, quando un fanatico sudista lo assassinò. L’uccisione di Lincoln fu, per gli Stati della defunta Confederazione, peggio di una sconfitta in battaglia. Senza il Presidente salvatore della Patria, in realtà un moderato, nulla frenò più gli eccessi dei radicali, che sfruttarono fino in fondo il rancore emotivo del Nord a seguito dell’omicidio.

Raffinato politico eletto Presidente durante la più terribile prova che gli USA abbiano mai affrontato, guida ispirata verso la vittoria, abolitore della schiavitù e martire nel momento del trionfo: tutto questo ha creato intorno a Lincoln una vera leggenda, meritata quanto imprecisa. In particolare riguardo alla popolazione afroamericana vi sono molte inesattezze nella memoria del grande kentuckyano, inesattezze a lungo ed in parte tutt’oggi coltivate da una storiografia di sinistra a dir poco disastrosa. I danni inflitti alla ricerca della Verità da parte degli storici marxisteggianti e disonesti sono stati superati solo da quelli di una cinematografia appena superiore all’orrendo, che nell’immaginario comune ha trasformato Lincoln in un personaggio stucchevole e perbenista degno di libro Cuore, piuttosto che nel leader carismatico e geniale che fu.

Nell’era nichilista e terzomondista che l’Occidente vive dagli anni ’60, e che solo negli ultimissimi tempi appare in via di conclusione, l’elemento peggio trattato dell’esperienza lincolniana è, manco a dirlo, il pensiero che il Presidente ebbe riguardo alle persone di colore. Come abbiamo visto l’emancipazione prima e l’abolizione della schiavitù poi, sebbene siano stati indubbi traguardi civili, per Lincoln non furono altro che strumenti tattici volti alla salvezza dell’Unione. Certo ritenne sempre la schiavitù un’istituzione ingiusta e retrograda, ma cosa pensava in realtà il nostro protagonista degli afroamericani? Per rispondere non vi è fonte migliore che lui in persona, attraverso alcuni estratti dei suoi discorsi pubblici. Premessa necessaria: quando Lincoln pronunciava o scriveva la parola negri lo faceva, come tutti all’epoca, senza accezione negativa. Il termine ha acquisito la sua connotazione offensiva negli anni ’70 del XX secolo, venendo sostituita (nelle conversazioni educate) dai termini neri o di colore.

Riguardo all’uguaglianza razziale, nel 1857, scrisse “Esiste presso quasi tutti i bianchi una naturale ripugnanza all’idea di una mescolanza senza discriminazioni tra la razza bianca e quella nera. Mi ribello alla logica secondo cui se non voglio una donna negra come schiava debbo volerla necessariamente per moglie. Non ho bisogno né dell’una né dell’altra. Sotto certi aspetti essa non è certamente una mia pari. La separazione delle razze è la sola maniera efficace per prevenire l’amalgama”. Non a caso, quando fu membro del parlamento dello Stato dell’Illinois, fu uno dei promotori della legge che vietava i matrimoni razziali misti.

Su cosa fare degli schiavi, una volta liberati, il futuro Presidente non fece mai mistero della sua posizione: la deportazione di massa. In questo poteva vantare un predecessore di peso della politica americana, Thomas Jefferson (1743-1828), padre della Patria e uomo del Sud. Sull’argomento Lincoln, in un discorso tenuto nell’Illinois nel 1852, disse “Considero perfettamente morale l’idea di restituire all’Africa i suoi figli”. Due anni dopo si dichiarò “Favorevole al trasferimento in Africa degli schiavi liberati”. Andò ancora oltre durante una campagna elettorale nel 1854, in cui disse “Personalmente ritengo, e lo ritiene anche l’opinione pubblica, che non è possibile trasformare gli ex schiavi in cittadini con pieni diritti sociali e politici”. La frase più forte riguardo alle differenze razziali la pronunciò però nel 1858, quando già cominciava ad essere uno dei papabili per la Presidenza, “Non penso di introdurre il concetto di uguaglianza fra bianchi e neri. Esistono fra le due razze differenze tali da non consentire una coesistenza basata sulla assoluta eguaglianza”.

Ancora durante la guerra di secessione il futuro eroe dell’emancipazione coltivò a fondo l’idea di un’enorme deportazione di massa dei neri americani, da effettuarsi non appena il Sud fosse stato riconquistato e gli schiavi liberati. Le mete delle navi che avrebbero trasportato le persone di colore sarebbero state lo Yucatan (regione messicana all’epoca quasi priva di controllo statale), le coste atlantiche dell’America centrale, una regione della Colombia che oggi si trova presso Panama, l’Île-à-Vache (piccola isola di fronte ad Haiti) e la Liberia (dove già esisteva uno Stato creato con ex schiavi americani riportati volontariamente in Africa da un ente privato). La zona oggi panamense, in particolare, sarebbe dovuta divenire un piccolo Stato indipendente dal significativo nome di Linconia. Il Congresso degli Stati Uniti dimostrò di appoggiare il piano di deportazione, come registrato nel verbale N. 568 della trentaseiesima legislatura della Camera dei Rappresentanti. Tuttavia, con la guerra civile ancora in corso, vennero stanziati solo 500.000 dollari per iniziare le operazioni, mentre i pianificatori avevano stabilito una cifra minima di 20 milioni. Nei fatti vennero trasferite circa 500 persone ad Haiti ed altrettante nell’immaginaria Linconia. Ovviamente gli Stati centro e sudamericani protestarono fortemente con Washington quando vennero a conoscenza del piano, tanto che l’ambasciatore del Nicaragua, Luis Molina, disse a Lincoln che “L’America Centrale non intende diventare luogo di discarica di una piaga della quale gli Stati Uniti vogliono disfarsi”. Non che all’epoca queste proteste avrebbero potuto granché, se gli USA avessero deciso d’agire, ma il fatto stesso che le rimostranze ci siano state è un altro elemento a discredito di tutta la storiografia di sinistra, che ha sempre dipinto l’America latina come una terra benevola ed accogliente e contrapposta ai razzisti bianchi del Nord.

Per conto suo l’influente senatore Francis Preston Blair (1791-1876) chiese al Presidente a non dare corso all’emancipazione se non si fosse stati certi di un sicuro programma di deportazione all’estero. Ma ormai la macchina politica e propagandistica si era messa in moto, dando per di più dei risultati diplomatici notevoli (in sostanza l’isolamento internazionale del Sud). Del resto il costoso piano di trasferimento era già stato sostanzialmente abbandonato, essendo le finanze federali già sotto pressione per gli oneri della guerra e la marina militare impegnata nel difficile blocco navale della Confederazione. Non che le idee di Lincoln siano mai cambiate, infatti durante un ricevimento alla Casa Bianca del 1862 il campione dell’Unione si rivolse così alla delegazione di colore “È superfluo discutere se ciò sia giusto o ingiusto. Ci basta sapere che voi siete a disagio in mezzo a noi e che noi mal sopportiamo la vostra presenza. In breve, è bene separarsi”.

Il 31 gennaio 1865, su insistenza di Lincoln, il Congresso rese illegale la schiavitù in qualunque sua forma anche senza il piano di espulsione. Nell’aprile dello stesso anno il Sud si arrese e venne riassorbito nell’Unione. Personalmente Lincoln rimpianse fino all’ultimo la mancata attuazione del trasferimento di massa. Il 15 aprile 1865, poche ore prima d’essere assassinato, il Presidente disse al generale Benjamin Butler (1818-1893) che non attuare la deportazione era stato un terribile errore, concludendo con queste parole “Mi chiedo cosa faremo di loro. L’idea di una guerra razziale mi terrorizza”. Forse il politico geniale che era lui aveva visto nel futuro le scene di guerriglia etnica urbana delle grandi metropoli USA, piuttosto che le intere città ostaggio delle gang di strada, anch’esse strutturate su base etnica?

Alla luce di quanto letto non passiamo che riconoscere quanto, ancora una volta, la Storia sia molto più complessa di come quasi sempre ci viene presentata. Chissà se, dopo aver iniziato la crociata contro le statue del generale Lee, il grande condottiero sudista, ed accennato quella contro Cristoforo Colombo, lo scopritore dell’America, la sinistra statunitense vedrà Lincoln per quel che fu: un repubblicano razzista a cui gli schiavi neri debbono la loro libertà.

Bibliografia

Papers of the Abraham Lincoln Association, Washington DC, 1980;

Storia della Guerra Civile Americana, Raimondo Luraghi, Rizzoli, Milano, 1994;

The Real Lincoln, Thomas Di Lorenzo, Three Rivers Press, New York, 2002;

Colonization After Emancipation: Lincoln and the Movement for Black Resettlement, Magness and Page, 2011;Abraham Lincoln and Colonization, Lockett, James D., Journal of Black Studies, 1991.

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