Il “Dizionario dei luoghi comuni”, scritto da Gustave Flaubert negli anni durante i quali stava appassendo la sua fede nei valori democratici, è un raffinato modello di stile letterario, che si propone agli aspiranti sociologi, desiderosi di mettere alla berlina le banalità trionfanti per l’influsso della divulgazione progressista.
Purtroppo l’elegante ma superficiale umorismo di Flaubert non è lo strumento adatto a contrastare l’errore postmoderno, che ha messo a soqquadro l’insegnamento della scolastica progressista, oscurandone l’orizzonte utopiano. Incalzato dalla rivoluzione radicale dei francofortesi, il progressismo è disceso al livello dell’insorgenza bacchettona contro l’effimero e il provvisorio. Purtroppo la satira da destra imita il moralismo infuriante nel campo opposto. Gli oggetti esposti alla critica d’ispirazione flaubertiana adesso sono il consumismo e la cultura di massa, vulnerabili residui di un capitalismo che promettevano la felicità.
Agli osservatori estetizzanti – attivi nei labirinti intitolati per abuso alla cultura di destra – non si offre più la tronfia chiacchiera dei progressisti ma la sciocchezza sontuosa e l’indisponente volgarità, ossia profumi dozzinali, che invece di svelare la natura tenebrosa del nichilismo la occultano o la banalizzano.
I successori dei progressisti sono più patetici che ridicoli: fustigatori della camorra in televisione, politici sproloquianti, propagandisti di pomate intime per signore pruriginose, suggeritrici di lassativi al latte acido, diluvianti comici in bilico tra demagogia sdegnata e gratuito turpiloquio, baritonali domatrici di attempati ballerini, biografi della principessa birichina d’Inghilterra, comari rumoreggianti nel perpetuo talk-show.
Detti eredi dell’ideologia del benessere sono soggetti anodini, prossimi allo zero culturale, non testimoni di pensieri filosoficamente strutturati. Sarebbe dunque un’ingenuità predicare che, fra le chiacchiere televisive, si odono allusioni al frammento ultramoderno dell’antichissimo Anassimandro oppure credere che l’effimera incursione sul palcoscenico di patetici figuranti sia lo specchio del nichilismo. Sfortunatamente l’allergia alla bruttezza persuade gli esteti, in azione fra le fumanti rovine seminate dal successore di Luciano Gaucci, ad attribuire agli attori dell’invadente show la funzione di interpreti del pensiero debole.
Separata dalla conoscenza della filosofia l’estetica neodestra si rovescia nella ciancia del salotto, dove la superciliosa insofferenza verso i gusti popolari annulla e sostituisce il senso del reale. L’estetica, umiliata e trascinata nella guerra totale alla divagazione crepuscolare, perde attrattiva e mordente. Incapace di identificare l’ideologia dominante diventa inadatta a coglierne il lato oscuro e grottesco.
Inconfondibili segnali dell’inadeguatezza dell’estetismo erano peraltro le curiose contraddizioni di Flaubert, implacabile flagellatore della stupidità e tuttavia preda, come ben sanno i lettori di “Salambò”, delle grottesche e torbide suggestioni erompenti dal sottosuolo esoterico. Il fatto è che la ridicola sciocchezza rappresenta solo se stessa. Gli sciocchi non hanno radici intellettuali, sono interpreti maldestri dei pensieri in libertà, che sono declamati nelle osterie, dove trionfano abbaglianti bazzecole e leggende metropolitane. Il boccaccesco Calandrino e i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, testimoniano comicamente la fede nel pensiero magico di giornata: la leggenda della pietra filosofale o il mito dell’evoluzione eterna.
La piatta credulità rende gli sciocchi impermeabili ai verbosi arzigogoli degli intellettuali ultimi. La grulleria è superficiale, mai aggiornata, mai seria, dunque incline al culto della volatile quisquilia piuttosto che alla riflessione. In definitiva: il profumo della volgare e perpetua stupidità non può essere legittimamente associato alla filosofia strisciante nel sottosuolo del paganesimo, da cui il pensiero umano era uscito per intraprendere il faticoso cammino dal monismo alla metafisica, ovvero da Parmenide a San Tommaso d’Aquino.
Implacabile e devastante critico della volgarità, Luigi Iannone, autore del saggio “Il profumo del nichilismo”, non riesce a resistere all’abbaglio, che induce a vedere l’ombra maligna del nichilismo sui messaggi diffusi dalla volgarità, seminata da profittatori in lucrosa attività sulla scena postmoderna. La confusione tra nichilismo e cultura di massa è possibile quando si dimentica che il nichilismo è generato da un delirio filosofico utile agli oppressori e agli strozzini e non trasferibile allo svago delle masse o alla pubblicità dell’industria propriamente detta. Lo spaccio della volgarità produce svago banale e puro stordimento, il nichilismo diffonde angoscia, oppressione e dolore.
Accoppiato alla sociologia estetizzante, in circolazione nell’area abitata dagli orfani del Plebe-pensiero, l’oblio della metafisica impedisce di vedere l’ovvia dipendenza del nichilismo dall’irragionevole intenzione di svalutare e calunniare l’essere. Progetto che mette fuori scena la rivoluzione progressista.
Pier Paolo Ottonello ha proposto una perfetta definizione della rivoluzione filosofica oggi in atto: “Il nichilismo come negazione radicale o metafisica è negazione del senso dell’essere e degli enti in quanto fondati nell’assolutezza dell’essere. Nichilismo è dunque l’assoluta negazione di ogni assolutezza“.
Nichilista è la lezione di Giacomo Leopardi intorno all’invincibile malignità e vanità del tutto. Nichilista è la bramosia nirvanica di Arthur Schopenhauer. Nichilista è Max Stirner, il quale afferma: “L’unico assoluto sono io stesso che nega ogni assoluto ovvero che si nega ponendosi come assoluta negazione”. Nichilista è il giudizio di Friedrich Nietzsche sul mondo che rotola su se stesso senza una ragione. Nichilista è la sentenza di Jean Paul Sartre, secondo cui “vivere è far vivere l’assurdo“. Nichilista è la definizione heideggeriana dell’uomo pastore del nulla. Nichilista è il fantasma intorno alla divina de-creazione, che affascina Massimo Cacciari, lettore gnostico di Simone Weil.
Cornelio Fabro ha peraltro dimostrato che il nichilismo insorge nel neo-panteismo di Hegel, temeraria affermazione dell’uguaglianza dell’essere e del nulla: “Hegel, teologizzando la filosofia mediante l’immanenza, è il responsabile del crollo della filosofia accaduto subito dopo la sua morte”.
Metastasi del nichilismo ad uso delle mezze culture sono i prodotti finalizzati a corrompere, ossia i romanzi angoscianti, i film disperati, le poesie piovigginose, le canzoni iettatorie, le raggelanti profezie degli scienziati apocalittici e i rumorosi gargarismi degli ateologi nel salotto di Corrado Augias. Il pensiero nichilista non diffonde ridicoli profumi ma sgradevoli odori di vespasiano e d’obitorio.
Chi affronta seriamente i testi scritti dalle più qualificate e intriganti sentinelle del nichilismo, ad esempio Walter Benjamin, Simone Weil, René Guénon, Julius Evola, Emil Cioran, Jacob Taubes, Elemire Zolla, Roberto Calasso, Sergio Quinzio, Andrea Emo Capodilista, Massimo Cacciari ecc. percepisce il tanfo della spocchia estetizzante e della disperata malinconia, non il profumo della banalità. Caratteristici miasmi del nichilismo sono i delitti contro la vita e contro la salute mentale: la persecuzione dei cristiani, l’aborto, la contraccezione, l’eutanasia, l’inversione della sessualità, l’uso di droghe nel fracasso delle balere, i giochi della banca strozzina, le sottili istigazioni al suicidio.
Cercare, come fa Iannone, la graffiante firma dell’antimetafisica nelle strategie dei supermercati, nelle piovigginose canzonette, nella pubblicità dei purganti, nell’uggiosa retorica dei comizi, nella desolazione degli spettacoli d’intrattenimento, nella monotonia delle telenovelle, nelle uggiose storie delle principesse birichine e delle star tossiche, comporta una fatica estenuante, dalla quale si può ottenere solamente un modesto risultato: la dimostrazione che l’incremento degli stati d’animo disperati si rovescia marginalmente nella normale stupidità.
La buona intelligenza e lo stile affascinante di Luigi Iannone sono sprecati ed estenuati dalla ricerca di bersagli grossi nella foresta popolata da soggetti appartenenti all’infinitamente piccolo, all’effimero e all’insignificante.
Nella parzialità dell’assillo estetico in rivolta contro la sciocchezza, si manifesta la fragilità della cultura neodestra, condannata a procedere a rimorchio della sinistrorsa sociologia e del moralismo borghese. Un rimorchio cui i pensatori neodestri attribuiscono il nome sontuoso e fastoso di riflessione sulla complessità. La pochezza della destra sedicente nuova, manifesta quanto sia urgente il ricorso a una cultura sostanziata di pensieri atti a ostacolare da destra l’offensiva dei distruttori filosofanti, in guerra da sinistra contro la vita onesta. Il vuoto a destra non può essere colmato da pensieri raccolti nella discarica progressista e/o oligarchica.
Si afferma pertanto la necessità di una rinnovata attenzione agli autori che hanno vivacizzato la storia del Novecento italiano: Matteo Liberatore, Giuseppe Toniolo, Maffeo Pantaleoni, Francesco Orestano, Balbino Giuliano, Giovanni Papini, Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Cornelio Fabro, Michele Federico Sciacca, Antonio Messineo, Romano Amerio, Augusto Del Noce, Marino Gentile e Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano. Vedi caso gli autori appena citati sono assenti dalla complessa biblioteca dei neodestri. Biblioteca che raccoglie invece le opere dei moralisti di obsoleta e smaccata fede marxista, dei sociologi con la puzzetta sotto il naso, dei crepuscolari con ermellino strutturalista, dei poeti da discarica e dei neopagani in corsa su piste visionarie.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.