Se nella mia età giovanile fui affascinato da Robert Brasillach e divorai in una notte d’estate il suo “Les sept couleurs”, dopo quaranta e più anni, ho provato lo stesso entusiasmo, in una notte altrettanto estiva, nel leggere il libro di Franco Nerozzi. Premetto che non amo solitamente questo tipo di lettura, ma, entrambi i libri, rappresentano ben più di un seppur apprezzabile romanzo. Innanzitutto “Nascosti tra le foglie” primo libro di Franco Nerozzi, edito da Altaforte Edizioni, è il tentativo riuscito “di trasferire sulla carta i sentimenti nobili di coloro che lottano per una causa e le pulsioni insane di chi vede soltanto nell’acquisizione di potere e nell’arricchimento economico personale il senso della propria esistenza”, nonché possiede la capacità di stigmatizzare “il gioco sporco di chi arbitrariamente distribuisce le maschere agli attori della tragica commedia della vita”. Il libro già nel titolo ha un altro elemento di indubbio interesse, trattandosi della traduzione letterale di “Hugakure”, opera settecentesca del Maestro Yamamoto Tsunetomo, codice dei Samurai giapponesi, breviario nel loro percorso terreno verso l’eliminazione dell’Io. Il romanzo di Franco Nerozzi è una creazione doppia, forse trina, unisce il diario di vita vissuta ad un romanzo d’avventura, a sua volta caratterizzato da una duplice narrazione, che lentamente procede verso l’unicità del racconto, il tutto in un quadro appassionato di “lotta e militanza” ove la realtà storica affiora con la prepotenza della verità e appare in tutta la sua drammaticità in buona parte del libro. Quindi “un diario di vita vissuta e un romanzo di lotta” che permette al lettore di affiancare Franco e condividere con lui la voglia di “vedere la guerra”, partendo dall’Afghanistan, oppresso dall’invasore sovietico, ove combatte un esercito di uomini liberi legati tra loro da legami di sangue o fede tra cui svetta come un gigante Ahmad Shāh Massoūd, il “Leone del Panjshir” con i suoi Mujāhidīn. L’autore rimane sicuramente colpito ed affascinato dal grande condottiero, dalla sua capacità strategica, dalla sua tenacia e l’abilità nell’arte della guerra, ma soprattutto percepisce “il tajlly, che il misticismo islamico definisce come il manifesto irradiarsi del divino su un animo puro” . Proseguendo in Africa, dilaniata da centinaia di guerriglie locali, da interessi internazionali inconfessabili, divisa in stati i cui confini vennero arbitrariamente tracciati dalla penna o meglio dalla spada dei precedenti Imperi Coloniali, retta a volte da democrazie di cartapesta, ma molto più spesso da potentati corrotti e crudeli, strumento delle precedenti potenze coloniali o di nuovi dominatori, che si affacciano avidamente al ricco tavolo del “Continente Nero”. In questo panorama si staglia la figura di Robert “Bob” Denard un “affreux”, un soldato perduto, un mercenario o meglio un “corsaro” come lui stesso si definiva, decisamente un”Uomo” rispetto alla “canaglia” che dietro una scrivania e in qualche “salotto buono” decide della vita e della morte di intere comunità, di popoli, di etnie, di culture in nome del supremo interesse usuraio .
Questi sono i passaggi obbligati che porteranno l’autore a proseguire il suo cammino “iniziatico” “al fianco di un piccolo grande popolo in armi nel cuore delle foreste birmane. Questa volta la lotta è a tutto campo e nei distretti dello Stato Karen dove Franco opera oggi sorgono scuole, cliniche, villaggi, pozzi, coltivazioni di caffè e frutta oltre a continue missioni mediche a sostegno della popolazione civile”. L’autore riesce a trasferire al lettore il significato esoterico del suo percorso, l’immanenza della lotta tra il bene e il male, specularmente invertita rispetto ai canoni dettati dagli attuali fautori del mondo globalizzato e del pensiero unico. Terminando il suo libro emblematicamente affida una preghiera agli Dei, chiedendo loro “di vegliare bonariamente su quei giovani che sceglieranno la lotta per la giustizia come loro unico sentiero. Quelli che imboccheranno la via del Samurai, nascosti tra le foglie”.
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