Rosselli, lei è l’autore di un libro dal titolo emblematico – La resistenza antisovietica e anticomunista in Europa orientale 1944-1956 (tradotto anche in lingua francese) – e che in un certo modo fa riflettere, in quanto non molti sanno che nel secondo dopo guerra, oltre la ‘cortina di ferro’ si sviluppò un vasto movimento armato avverso ai regimi marxisti:La cosa curiosa è che, per scrivere quanto accaduto durante il comunismo, ha dovuto attenderne il crollo…Quando e come ha iniziato ad interessarsi di questo tema storico?
Gli storici occidentali, come il sottoscritto, poterono iniziare ad indagare e studiare questo vasto, eroico, ma sconosciuto fenomeno (tra il 1945 e il 1956, non meno di 150/180.000 individui appartenenti a qualsiasi censo o credo religioso e politico presero le armi contro i regimi comunisti dell’Est) soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’URSS: fatti che permisero la conseguente apertura degli archivi del KGB e di altri Servizi segreti d’oltre cortina. Antecedentemente, curiosare intorno a questa parte di storia risultava quasi impossibile anche perché il seppur vasto fenomeno resistenziale anticomunista del secondo dopo guerra venne sempre abilmente occultato dai regimi comunisti; anche se, a dire il vero, l’Inghilterra e gli Stati Uniti fossero al corrente della questione. E se è vero che qualche limitato tentativo per sostenere i partigiani (soprattutto quelli lettoni, ucraini, romeni e albanesi) fu compiuto da Usa e Inghilterra, è altrettanto vero che le Potenze occidentali preferirono, per prudenza, non intromettersi troppo apertamente in una questione, diciamo, di ‘politica interna’ riguardante nazioni del ‘blocco orientale’.
Riguardo le motivazioni professionali che mi hanno spinto a redigere Il testo queste vanno ricondotte alla ‘curiosità’ per un mondo, quello slavo a me caro, e per gli studi effettuati sulla ‘dottrina marxista’ e le sue applicazioni istituzionali. Sotto il profilo diciamo strutturale, il libro è il frutto, o meglio, è il risultato documentale derivante da una lunga ricerca che avviai verso la fine degli anni Novanta, quando ebbi modo di conoscere la figura e leopere diMart Laar, storico e politico estone (per due volte – 1992–1994 e 1999–2002 – fu Primo ministro). Profondo conoscitore dei movimenti resistenziali estoni, lettoni e lituani, anticomunisti del secondo dopo guerra, Laar è ormai noto per il suo celeberrimo “War in the Woods: Estonia’s Struggle for Survival, 1944-1956” (1992), dedicato, appunto, all’epopea dei cosiddetti “Fratelli della foresta” (in questo modo erano chiamati i partigiani baltici).
Dopo avere approfondito gli studi sui movimenti baltici ed avere pubblicato diversi articoli e servizi su periodici e quotidiani italiani e stranieri, decisi di allargare la mia indagine anche ad altri movimenti resistenziali anticomunisti e antisovietici operanti in Europa Orientale. La già citata caduta del Muro di Berlino permise, infatti, di accedere all’immensa documentazione presente presso i ministeri degli Interni e degli Esteri di Paesi dell’Est, un tempo sottoposti ai regimi marxisti: Cecoslovacchia, Polonia, Ucraina, Russia, Ungheria, Jugoslavia, Albania, Bulgaria e Romania. Una volta raccolto, selezionato e suddiviso per aree il cospicuo materiale ritrovato, proposi ad un Editore di Roma di pubblicare un vero e proprio testo, esteso a tutti i Paesi sopracitati. Anche perché quello della lotta partigiana anticomunista fu un fenomeno complesso, transnazionale non certo elitario in senso sociologico o facente esclusivo riferimento – come per molti anni sostengono ancora diversi storici post marxisti – a pochi gruppi di ‘reazionari’ influenzati dall’”ideologia borghese”. Al contrario, esso fu – come si è detto – fenomeno esteso geograficamente, idealmente motivato, squisitamente politico e socialmente trasversale, che coinvolse direttamente e indirettamente centinaia di migliaia di individui appartenenti – lo ripetiamo – a gruppi etnici, culturali e religiosi diversi – talvolta avversi tra di loro – ma tutti uniti da un unico ideale di libertà. Ed è qui, a mio modesto parere, che alberga l’importanza storica del fenomeno stesso.
Il libro analizza un periodo preciso che va dal 1944/1945 al 1956. Fu così in tutta l’Europa dell’Est o in alcuni Paesi il lasso temporale risultò più breve o, forse, più lungo, trasformandosi in seguito, magari politicamente, in qualcosa di diverso? E quale lezione l’Occidente contemporaneo può trarre dalla storia della resistenza antisovietica e anticomunista in Europa Orientale?
La Resistenza anticomunista e antisovietica conobbe ovviamente fasi organizzative e strategie operative diverse, da nazione a nazione, anche se è indubbio che, visto nell’insieme, il periodo di maggiore vigore espresso globalmente dall’insieme dei vari movimenti resistenziali vada individuato tra il 1945 e il 1956. Si trattò di una lotta durissima e sanguinosa, caratterizzata da vittorie e sconfitte, ma che alla fine si risolse con l’annientamento di tutti i gruppi combattenti ribelli. A partire dal 1953, praticamente isolata dal resto del mondo e priva di aiuti militari, la guerriglia (contrariamente ai movimenti armati marxisti africani, asiatici, ma anche europei – vedi l’attività del movimento comunista greco – largamente sostenuti dall’Urss, dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Cina e da Cuba) iniziò ad indebolirsi e dovette quindi limitarsi ad effettuare azioni di guerriglia sempre più limitate, per poi tentare di sopravvivere nelle regioni più impervie (come la Transilvania romena, dove alcuni gruppi combatterono fino agli anni Sessanta) ed infine soccombere di fronte ad un apparato militare e di polizia gigantesco. Nella sola Ucraina, il regime di Mosca mise in campo contro i partigiani oltre 350.000 uomini, con aerei, elicotteri e mezzi corazzati, applicando una politica di ritorsioni violentissima (i sovietici eliminarono fisicamente decine di migliaia di partigiani e collaborazionisti, deportando in Siberia non meno di 200.000 ‘individui sospetti’). Spenti gli ultimi fuochi (in Romania e Paese Baltici reparti residui di combattenti si arresero alla fine degli anni Sessanta, mentre l’ultimo partigiano romeno venne impiccato nel 1972). Detto questo, il ricordo e l’insegnamento di questa sconosciuta epopea resistenziale non morì affatto nel ricordo ed in parte servì anche a dare origine ai moti operai della Germania Orientale (1952-1954), alla più famosa Rivolta Ungherese del 1956 e alla epica sommossa ‘primaverile’ di Praga del 1968. Si. Questi accadimenti, destinati in seguito a minare definitivamente l’impalcatura del ‘mondo comunista’ dell’Est, rappresentarono in buona misura, il frutto dell’eredità spirituale e del messaggio politico che la disperata lotta resistenziale anticomunista lasciò a milioni di individui sottoposti al crudele giogo comunista. E se la vita di migliaia di giovani si spense in una lotta impari, ciò non ha importanza, perché, citando Tzvetan Todorov: “La vita ha perso contro la morte, ma la memoria vince nella lotta contro il nulla.”
Secondo Lei, il comunismo è davvero morto?
Come dottrina politica ritengo che il comunismo, inteso come teorema socio-economico, evidentemente utopico, non abbia più alcuna ragione di esistere. Anzi: è già morto e sepolto La Storia lo ha, infatti, giustiziato da tempo, lasciando tuttavia spazio ad un Liberismo finanziario e speculativo fuori misura e controllo, e a pseudo dottrine autodistruttive. Ogni serpente lascia al caldo le sue uova venefiche. La nostra era ne è la prova. In questo Occidente bislacco, scristianizzato, liberticida e corroso dalla risacca islamica, si sta, infatti, diffondendo un ‘morbo’ ben peggiore del marxismo, poiché per certi versi impalpabile ed etereo: quello rappresentato dal relativismo ateo (in forte ascesa grazie anche all’atteggiamento debole, ambiguo e permissivo della Chiesa romana) e quello rappresentato dal nichilismo ateo che, di fatto, ha sempre caratterizzato il profilo culturale del marxismo stesso. Una cifra filosoficamene molto modesta, ma deleteria e foriera di inganni e di danni incalcolabili.
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