La ‘crociata antischiavista’ del buon Lincoln fu dettata non da motivi umanitari, ma dalla ricerca del business. Di Paolo Deotto.

Il Presidente Lincoln.

La ‘crociata antischiavista’ del buon Lincoln fu dettata non da motivi umanitari, ma dalla ricerca del business.

Di Paolo Deotto



E’ bello, e soprattutto tranquillizzante per la coscienza, pensare che gli avvenimenti storici siano determinati da grandi ideali. L’eroe purissimo che combatte per una santa causa e la vince (o, meglio ancora, la causa vince ma lui muore, pronunciando però un attimo prima di morire alcune frasi memorabili), è una figura fiabesca così bella che diventa facile credere che esista o sia mai esistita. Senza fare la figura dei cinici sfrenati, vorremmo notare come i Grandi Ideali difficilmente siano la causa dei grandi rivolgimenti politici, delle guerre, e di tutte le altre amenità che costellano la vicenda umana. E questo per un semplice motivo: chi realmente persegue i Grandi Ideali, se questi sono realmente Grandi, in genere non aspira al Potere, non raggiunge quelle posizioni di dominio che permettono di incidere sulla vita degli uomini e sulla politica. Nulla vogliamo togliere alla forza morale degli Ideali e di chi onestamente vive per essi; ma la forza morale è determinante solo sull’onda lunga dei decenni, se non dei secoli, e con modalità che non sono mai quelle della violenza che tanto caratterizza la storia umana. La Guerra di Secessione americana (o la ribellione degli Stati del Sud, per dirla con gli Unionisti, o la Guerra per la libertà, per dirla con i Confederati) è spesso spiegata, anche in frettolosi testi scolastici che, come studiosi di storia e come padri di famiglia ci danno un certo brivido, come una specie di Guerra Santa degli anti-schiavisti contro gli schiavisti, come un conflitto nato insomma specificamente per abolire l’istituto della schiavitù, che oggi appare ripugnante a chiunque (a dimostrazione del fatto che la forza morale agisce in tempi lunghi), ma che all’epoca era diffusissimo e in buona parte accettato, pur in una Nazione che era nata da un anelito di libertà. E vorremmo quindi intrattenere i nostri amici lettori cercando insieme di capire meglio le cause che portarono allo scoppio di quella che fu definita la prima guerra moderna, non solo perché fu il banco di prova di tante nuove armi (mitragliatrici, fucili a retrocarica e a ripetizione, artiglierie ferroviarie ecc.) ma anche perché fu nella storia il primo conflitto che non coinvolse solo gli eserciti, ma in grado diverso investì ogni gruppo sociale, comportando l’impegno completo della vita di una nazione. 
Anzitutto ci sembra utile notare che in una Nazione come gli Stati Uniti, che in meno di settant’anni erano divenuti una repubblica transcontinentale e una potenza su due oceani, con una formidabile velocità di sviluppo che non ebbe pari nella Storia, il concetto stesso di Nazione era oggetto di discussione; e si trattava di discussioni che, dal piano puramente dottrinale del diritto costituzionale, sfociavano fatalmente sul piano pratico. Il punto focale era questo: l’Unione era Lo Stato o era semplicemente una federazione di Liberi Stati, che affidavano a un governo federale la competenza solo su alcune, ben specificate, materie? Per fare un esempio pratico, nel 1832, sotto la presidenza Jackson, la Carolina del Sud mise in atto, con una ordinanza di nullificazione le teorie del senatore Caldwell Calhoun. Di cosa si trattava? Il senatore Calhoun, rappresentante appunto della Carolina del Sud, aveva elaborato una teoria difensiva che partiva dal presupposto, generalmente accettato, che gli Stati in origine erano parti contraenti di un accordo (la Costituzione) per il quale il governo federale veniva limitato a certe funzioni. Ora, se un atto del governo federale esorbitava dai propri poteri, lo Stato che si riteneva danneggiato aveva il diritto di nullificare l’atto federale. In breve, il senatore Calhoun considerava lo Stato come arbitro ultimo dei limiti del potere costituzionale, negando questa qualifica alla Corte Suprema, perché questa, come emanazione del governo federale, non poteva essere giudice imparziale. E, se vogliamo tornare per un attimo all’introduzione un po’ cinica del nostro studio, l’ordinanza di nullificazione della Carolina del Sud riguardava argomenti che ben poco hanno a che vedere con gli ideali: questa ordinanza infatti sospendeva l’esazione di tributi federali ritenuti ingiusti. Il Presidente Jackson rispose alla decisione della Carolina del Sud facendo approvare un Force Act (legge di emergenza) che lo autorizzava a servirsi delle Forze Armate per imporre il rispetto della legge federale. 
Il conflitto pareva imminente, ma la divergenza fu appianata con una revisione della tariffa da parte del Congresso e con la revoca dell’ordinanza di nullificazione da parte della Carolina del Sud, che tuttavia, in segno di sfida, nullificò il Force Act. La Carolina del Sud si proclamò vittoriosa nel conflitto, per fortuna solo cartaceo e tributario, e il Presidente Jackson si proclamò salvatore dell’Unione. Tutti contenti, dunque; ma il problema sotteso restava irrisolto e le teorie del senatore Calhoun resteranno negli anni successivi un punto di riferimento essenziale per i movimenti anti-unionisti. Abbiamo visto, in questo esempio, che la materia del contendere era di natura fiscale. Ora, le rivalità Nord-Sud, che maturarono per decenni fino a sfociare nella guerra del 1861-65, nascevano principalmente dalle diverse situazioni geografiche in cui si trovavano gli Stati che costituirono la prima Unione, e le conseguenti diverse strade che presero le rispettive economie. Gli stati meridionali si distinguevano per la ricchezza del suolo, per il clima caldo con la sua lunga stagione favorevole alle coltivazioni, e per il bassopiano costiero penetrato da fiumi soggetti alle maree. Erano tutti questi elementi favorevoli alla coltivazione intensa di prodotti, principalmente tabacco e riso, ampiamente superiori al fabbisogno interno e che quindi determinarono un grosso movimento di esportazione verso l’estero. Viceversa, gli Stati del Nord, che per condizioni ambientali potevano dedicarsi solo ad una coltura di sussistenza, ben presto indirizzarono le loro forze sull’industria, sulla pesca e sull’attività commerciale. 
Questi diversi modelli di sviluppo economico portarono alla costituzione di due tipi di società che, con tutti i limiti di ogni schematismo, possiamo definire come patriarcale con una ben articolata definizione di classi sociali (quella del Sud) e come mercantile (quella del Nord). Nel Sud la mano d’opera composta principalmente di schiavi era una necessità imprescindibile, dato il gran numero di lavoratori necessari per le colture. Al Nord si andava invece affermando la figura del salariato, dell’operaio libero, in attività che richiedevano numericamente ben meno personale, ma che puntavano di più sulla specializzazione. Si tratta, lo ripetiamo, di una schematizzazione, che ha i suoi limiti, ma che ci aiuta a capire un’altra conseguenza inevitabile: l’uomo del Nord tendeva ad essere più aperto, perché meno preoccupato di difendere una stratificazione sociale; anzi, il progresso sociale, la promozione dell’operaio da manovale a specialista, era un interesse essenziale per quell’economia; l’uomo del Sud invece tendeva a conservare uno status quo, perché la sua economia poteva mantenere quei ritmi e quella produttività solo se molte braccia, a bassissimo prezzo, lavoravano. Non c’era quindi spazio per alcun discorso di promozione sociale, né tanto meno di uguaglianza. Queste sono considerazioni che prescindono ovviamente da qualsiasi valutazione morale su un problema come quello dello schiavismo: sono pure constatazioni di dati di fatto. Né d’altra parte vogliamo figurare il popolo americano come una congerie di cinici, preoccupati solo di far quattrini. Il problema morale dello schiavismo esisteva, e una prima soluzione, seppur alquanto pilatesca, era stata data nel 1808, vietando l’importazione di nuovi schiavi dall’Africa. 
Ma all’epoca gli schiavi negri sul territorio dell’Unione erano già oltre due milioni, e con una spiccata tendenza alla riproduzione. Il divieto all’importazione non mutava una legislazione schiavista, che era affidata ai singoli Stati, all’interno dei quali non mancava il dibattito sulla materia, come non mancarono peraltro episodi di violenta ribellione (A Charleston nel 1822, in Virginia nel 1831), che, con l’inevitabile corollario di violenze, non fecero che rafforzare il senso di difesa conservatrice dei bianchi del Sud. Ma, tornando alle diverse organizzazioni economiche che si erano andate configurando nel Nord e nel Sud, notiamo che le stesse portarono altre conseguenze, anzitutto di tipo fiscale e doganale. Gli Stati del Nord, che al congresso federale detenevano comunque la maggioranza, in virtù della loro maggior popolazione, si trovarono ad imporre una fiscalità che serviva a favorire la realizzazione di una serie di infrastrutture, principalmente ferrovie e strade, indispensabili in una società in espansione industriale, che ha bisogno di favorire il più possibile il movimento sul territorio. Si pensi che tra il 1830 e il 1860 si costruirono 50.000 chilometri di ferrovie, si istituirono migliaia di società per azioni, mentre dall’Europa arrivavano quasi 5 milioni di emigranti; il valore annuale dei manufatti americani raggiunse la cifra di 1.885.000.000 dollari (dati del 1858). Questa situazione portava con sé anche la necessità di una politica doganale protezionistica, come mezzo per proteggere lo sviluppo interno. Al Sud, viceversa, era accaduto un altro tipo di rivoluzione
L’invenzione, nel 1793, della sgranatrice per il cotone di Eli Whitney aveva dato ulteriore vigore all’economia agricola; le piantagioni di cotone erano più facili di quelle tradizionali di riso e tabacco, potendosi estendere anche negli altipiani e nelle regioni interne; in pochi decenni il cotone avanzò di un migliaio di

chilometri attraverso l’estremo Sud, fino al bacino inferiore del Brazos nel Texas, portandosi dietro lo schiavismo, la piantagione, tutto un modello cioè di società organizzata in modo diverso da quella Nordista, assolutamente anti protezionista, perché anzi tesa al commercio con l’estero, e che sempre più si sentiva vessata da una politica fiscale per la quale reputava di dover pagare dei prezzi per beneficiare solo l’economia industriale e mercantile del Nord. Il dibattito sullo schiavismo si incrociava con le differenti realtà economiche. Ma anche in un’altra materia il contrasto Nord-Sud si fece acuto: sul problema dei territori. Così erano denominate le regioni che via via venivano annesse all’Unione e che ancora non erano Stati. Gli abolizionisti volevano che la costituzione dei nuovi Stati comportasse anche, negli stessi, il divieto dello schiavismo; questa proposta era vissuta, dai grandi piantatori del Sud, come un tentativo che, celandosi dietro la maschera dell’umanitarismo, voleva in realtà chiudere loro la possibilità di espandere l’attività di coltura, per la quale la mano d’opera costituita dagli schiavi era irrinunciabile. I secessionisti più accesi, i cosiddetti fire-eaters (mangiafuoco), guidati da William Yancey, dell’Alabama, esortavano alla secessione, prima che “il Nord ostile soggiogasse completamente il Sud”. Tra il dicembre 1860 e il marzo 1861 Carolina del Sud, Georgia, Florida, Alabama, Louisiana e Texas tennero delle convenzioni di secessione e formarono un’unione sudista, chiamandone alla presidenza Jefferson Davis, del Mississippi. Virginia, Carolina del Nord, Tennessee e Arkansas aderirono in seguito, per non obbedire all’ordine di mobilitazione che il neo eletto presidente dell’Unione, Abramo Lincoln, aveva emanato dopo l’apertura delle ostilità da parte del Sud, il 13 aprile del 1861, con il bombardamento del Forte Sumter, nella Carolina del Sud, dove una guarnigione nordista restava come spina nel fianco. La guerra, è utile notarlo, non fu tra stati schiavisti e stati abolizionisti. Quattro stati dell’Unione, che parteciparono al conflitto, Kansas, Missouri, Kentucky e Virginia Occidentale, erano schiavisti. Altri quattro stati, i due Dakota, il Nebraska e l’Oklahoma, quest’ultimo schiavista, si mantennero neutrali. L’ordine presidenziale con cui Abramo Lincoln dichiarava liberi gli schiavi a partire dal 1° gennaio del 1863, riguardava solo gli schiavi che appartenevano a proprietari “nemici dell’Unione”. 
Era chiaramente un ordine teso a dare il colpo di grazia al Sud, la cui economia risentì non poco delle fughe degli schiavi, sicuri di andare verso la libertà rifugiandosi negli stati unionisti. Si creò così una curiosa situazione: dal 1° gennaio del 1863 fino alla fine del 1865, quando, già morto Lincoln, la schiavitù fu abolita in tutta l’Unione, era lecito avere schiavi nei quattro stati schiavisti del Nord ed illecito averli negli Stati del Sud.

Senza voler nulla togliere al merito del Presidente Lincoln, che diede comunque il colpo di piccone al vacillante ed immorale istituto della schiavitù, vorremmo chiudere queste brevi note sui principi morali che guidano le azioni in politica proprio con una frase contenuta in un’intervista rilasciata da Lincoln stesso nell’agosto del 1862 al New York Times: “Il mio obbiettivo essenziale in questa battaglia è salvare l’Unione… Se potessi salvare l’Unione senza liberare un solo schiavo, lo farei e se potessi salvare l’Unione liberando tutti gli schiavi, lo farei ugualmente.”

E gli indiani? Se la Guerra di Secessione portò, tra gli altri risultati, anche la fine dello schiavismo, non possiamo scordarci che un altro problema di natura razziale travagliava il giovane stato americano: i rapporti con i pellerossa. Ed è interessante studiare come le due parti in conflitto affrontarono questo problema. Nell’autunno del 1862 la situazione nei territori del Sud-Ovest era estremamente difficile. Le tribù Apache, approfittando del ritiro delle forze militari, richiamate più a Nord allo scoppio della Guerra di Secessione, avevano messo a ferro e fuoco le zone del Nuovo Messico, del Texas e dell’Arizona, attaccando e distruggendo numerosi insediamenti dei bianchi, e compiendo moltissime uccisioni. Il Presidente della Confederazione del Sud, Jefferson Davis, aveva nominato governatore dell’Arizona il colonnello John R. Baylor, che pensò di dare rapida ed efficace soluzione al problema ordinando, alle forze da lui dipendenti, di uccidere a vista qualsiasi apache maschio adulto, dovunque venisse trovato, e di catturare donne e bambini, da vendere poi come schiavi.
In una lettera datata 29 dicembre 1862 il colonnello Baylor fa presente al suo diretto superiore, generale Magruder, comandante del distretto confederato del Texas, Arizona e Nuovo Messico, che “Poiché gli Apache vivono quasi esclusivamente di rapine e di furti… è ormai opinione comune che lo sterminio di tutti gli indiani adulti e la schiavitù per i bambini sia l’unico rimedio… Il sistema è già in atto nel Nuovo Messico, ove non vi è famiglia benestante che non possieda schiavi indiani ottenuti in tal modo. Questo sistema per civilizzare gli Apache è tanto popolare che vi sono state molte iniziative per introdurre nella legislazione del Nuovo Messico una legge che consenta di rendere gli indiani schiavi a vita… ” Non si può dire che il colonnello-governatore non avesse le idee chiare, e non le esprimesse chiaramente, al di là di un uso delle parole molto personale (francamente ci sembra che parlare di “civilizzare” gli indiani sterminandoli sia quantomeno curioso). Gli ordini di Baylor, nonché la lettera appena citata, vennero però anche a conoscenza del presidente confederato Jefferson Davis, che rimosse immediatamente lo spietato colonnello dal suo incarico, abrogandone le disposizioni. Non dovremmo comunque, almeno secondo una certa oleografia tradizionale, stupirci molto dell’iniziativa del colonnello Baylor: un ufficiale sudista, ergo schiavista, non può che essere una carogna. 
Però… però, l’anno dopo, 1863, i territori di cui trattiamo tornarono sotto il controllo delle truppe unioniste. Il comandante di zona delle giacche blu era il generale James Carleton, che si trovò ovviamente tra le mani la patata bollente degli Apache. Da buon soldato, anch’egli amava le soluzioni veloci e radicali: “Gli indiani hanno compiuto devastazioni e crimini di ogni genere… pertanto si

 
 

dispone che gli indiani maschi adulti, indipendentemente dal fatto che siano o non siano in guerra con i bianchi, siano uccisi in qualunque momento e dovunque vengano trovati. Donne e bambini possono essere presi prigionieri, ma naturalmente non devono essere uccisi… “. Da notare, il capolavoro di ipocrisia costituito da quella parola “possono”. Fortunatamente l’esecutore materiale di questa politica di sterminio fu il colonnello Cristopher “Kit” Carson, un uomo che aveva vissuto buona parte della propria vita tra gli indiani, imparando a conoscerli per ciò che erano realmente. La grande popolarità di cui godeva Kit Carson gli permise di disattendere, almeno in parte, gli ordini del generale Carleton. Per completezza bisogna anche ricordare che, mentre il governo di Jefferson Davis (come dicevamo sopra) aveva esautorato il colonnello Baylor, il governo di Abramo Lincoln non adottò alcun provvedimento nei confronti del generale Carleton. Bisognerà arrivare al 1868, con l’elezione alla Casa Bianca del generale Ulisse Grant, perché le autorità di Washington inizino una politica verso gli indiani indirizzata (almeno come tentativo) verso la pacificazione e la convivenza, anziché verso lo sterminio. Ma troppi anni di odio e violenza reciproci tra indiani e bianchi avrebbero lasciato il segno ancora per decenni.

Siamo convinti che i fatti narrati si commentino da soli, e da soli siano più che sufficienti a chiarire quanto sia difficile, in tutti i conflitti, fare quelle distinzioni tra buoni e cattivi, così tranquillizzanti per le coscienze e così inesistenti nella realtà. Piuttosto ci sembra interessante soffermarci un attimo a riflettere sull’apparente contraddizione di un governo che da una parte affranca dalla schiavitù i negri e dall’altra avalla lo sterminio dei pellerossa. La contraddizione è, appunto, solo apparente: i negri manifestarono sempre il loro desiderio di integrarsi nella società americana, e lo fecero. Dopo il proclama di emancipazione degli schiavi, numerosissimi negri si arruolarono nelle forze unioniste e la storia degli USA è ricca di figure di negri che hanno raggiunto posizioni eminenti in politica, nelle forze armate, nelle attività economiche, nelle attività intellettuali. A parte fenomeni tutto sommato circoscritti (come quello delle Pantere Nere), il negro non è mai stato una minaccia per l’America. Il pellerossa invece si è sempre posto in chiara antitesi con un mondo e un modo di vita che non erano i suoi, ma che ciò nonostante gli venivano imposti. Il pellerossa difendeva la propria terra, e il diritto a mantenere la propria identità culturale e religiosa. Il pellerossa era l’eretico che considerava la libertà più importante dello sviluppo delle ferrovie o della ricerca dell’oro; addirittura, non conosceva l’uso del danaro. Era insomma quello che oggi si definirebbe un anti-sistema. Costituiva un pericolo mortale per il rullo compressore del progresso; e l’unico modo per difendersi dai pericoli mortali è eliminarli.

Bibliografia:

  Storia del Mondo Moderno, di AA. VV. – vol. X – Cambridge University Press – Ed. it. Garzanti, 1979

  Gli Stati Uniti, di R. Luraghi, in “Storia universale dei popoli e delle civiltà” – Ed. UTET, Torino 1974

  Uomini bianchi contro uomini rossi, di Gualtiero Stefanon – Ed. Mursia, Milano 1985

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