di Vasken Berberian
Il fatidico incontro fra l’Armenia e la Cinematografia, la decima musa dell’Arte, tarda ad arrivare ma sboccia, quasi subito, in un amore a prima vista.
All’inizio del secolo scorso, il piccolo fazzoletto di terra chiamato Armenia sta timidamente alzando il capo dopo i duri colpi subiti da parte di potenti nazioni e di imperi in lotta. Molti cineasti stranieri scelgono i suoi incantevoli paesaggi come sfondo per le loro opere, ma la cinematografia locale non riesce a decollare. È solo con la sua adesione all’Unione Sovietica e la formazione di un vero Stato che il cinema nazionale inizia a fare i suoi primi passi. Infatti, il 16 aprile 1923 è considerato il giorno della nascita del Cinema Armeno; è la data in cui è costituito il Comitato del Cinema dello Stato Armeno, alias Goskino, con un decreto del governo sovietico. I due fondatori sono il giovane talentuoso Daniel Dzuni e la figura di spicco del cinema pre-sovietico Hamo Bek-Nazarov. Quest’ultimo porta a Yerevan il suo bagaglio di esperienze maturate negli studios Goskinprom della Georgia e, presto, dirige in Armenia il suo primo film: Namus. Namus è un tipico melodramma del cinema muto che narra la storia di una giovane coppia vittima dei pregiudizi e delle stagnanti concezioni d’onore, il namus, appunto, in armeno. La pellicola riscuote ampio successo in patria ma anche all’estero. Bek-Nazarov sfoggerà il suo talento in una moltitudine di film successivi. Film epici come Zare che racconta la vita dei curdi, oppure Khapush, la struggente pellicola sulla lotta del popolo Iraniano contro i loro oppressori. È evidente che i registi armeni si sono presto interessati alle problematiche di altre nazioni esposte a soprusi e torture. L’apice del genere film denuncia arriva con L’Oriente smascherato in cui l’Asia, al contrario di altri film orientali in cui è decantata come la terra delle meraviglie, viene “smascherata” denunciando aspetti come la schiavitù sociale, l’ottusità e i tabù ma lodando, dall’altro canto, i primi tentativi dei suoi popoli a scuotersi di dosso queste pesanti catene. Il canto del cigno del cinema muto armeno, però, è il film Ghikor , la dolorosa vicenda di un ragazzo in un mondo crudele e disumano. Nel 1980, dopo molti decenni, Ghikor sarà nuovamente proiettato nelle sale in una versione sonora e a colori.
Agli inizi degli anni ‘30, dunque, l’Armenia può già vantarsi di una completa industria cinematografica. Il celeberrimo studio Armen Kino è attivo a Yerevan da parecchi anni ed è attrezzato di ottimi mezzi tecnici per l’illuminazione e per la ripresa sonora. Il primo film sonoro, Pepo, è realizzato nel 1935 in cui sono già evidenti i primi tratti di uno stile neorealista. È una storia allegorica su come la sfrontata ricchezza può corrompere i valori ben custoditi nella dignitosa povertà. I dialoghi lasciano ampio spazio all’immagine; la città, la strada stessa con i suoi passanti e suoi rumori sono attivamente partecipi sullo grande schermo. Pepo diventa all’estero il portavoce dei grandi cambiamenti in atto della società armena di quell’epoca.
La prima Scuola del Cinema armeno si fonda proprio in quegli anni. È presto frequentata da giovani talentuosi ed ambiziosi, pieni di buona volontà ed ideali. Sfortunatamente, la produzione affronta il suo primo calo e la situazione continua a peggiorare fino al 1940. Questa crisi può essere attribuita al diktat ideologico imposto dal regime totalitario che vuole condizionare, addirittura censurare gli spiriti liberali dei giovani cineasti. Chi accetta i compromessi realizza dei film castigati, dove tutto è stereotipato, delimitato in rigide cornici dettate dal regime. Questa fase critica sfocia nella produzione di film concentrati, quasi tutti, su epopee storico-patriotiche come Zanghesur, David-Bek e il documentario Paese natio che rasentano il ridicolo.
Negli anni ’50, con il disgelo, il cinema armeno intraprende nuovamente il suo cammino creativo; la produzione di film e di documentari aumenta notevolmente. I registi già operanti prima della guerra recuperano gradualmente la loro maestria dopo anni di torpore, mentre la nuova generazione di cineasti si sperimenta su favolosi cortometraggi come il Arcobaleno del Nord e Stella della Speranza . Tuttavia, la foga creativa e i modici mezzi di produzione risultano spesso in opere imperfette. Benché la tradizione e i costumi del popolo armeno siano soddisfacentemente rappresentati sullo schermo, i critici cinematografici rimproverano agli autori una notevole mancanza d’estetica. Gli sguardi sono svolti verso prodotti di alta qualità, di paesi già noti per la padronanza di un impeccabile linguaggio cinematografico. I frutti di questa ricerca creativa non tardano a manifestarsi. Negli anni ’60, cortometraggi come Promessa infranta e Tzhvzhik seguono un filo più aderente alle tendenze occidentali. Insieme con l’estetica, nuove tematiche che gravitano attorno all’esistenzialismo danno sfogo a cortometraggi come Il maestro e il servo e La vettura di Avdo. L’audacia e l’intrepidezza con cui vengono dipinti i primi anni del regime sovietico, specie in quest’ultima opera, scaturiscono la rabbia e lo sdegno della leadership del Partito. Entrambi i film vengono censurati, rieditati e, poi, definitivamente vietati al pubblico.
La vera svolta nel Cinema Armeno giunge, indubbiamente, negli anni ’60 grazie ad un artista poliedrico e singolare di nome Serghej Paradjanov le cui opere, surrealistiche e ribelliste, sono da sempre soggette a fortissime censure da parte delle autorità sovietiche. Nato in Georgia, frequenta già giovanissimo il prestigioso Istituto di Cinematografia a Mosca dove realizza numerosi filmati di propaganda che successivamente lui stesso ripudierà definendoli “spazzatura”. Il suo indiscutibile talento visionario, l’uso dei colori e della luce in maniera pionieristica, nonché le sue sceneggiature lontani dai canoni tradizionali conferiscono alle sue opere un formalismo espressivo che rimanda all’Avanguardia Russa. Nel 1969, tornato a Yerevan, Paradjanov realizza il suo capolavoro Il colore del melograno, un film sulla vita di Sayat Novà, il trovatore armeno del 18esimo secolo. Nonostante il grande successo che riscuote all’occidente-una lettera di apprezzamento da parte di Federico Fellini è esposta tutt’oggi nel museo Paradjanov di Yerevan-il film viene ritirato dalle autorità per la sua presunta “estrema deviazione dal Realismo Russo”.
Nei decenni successivi e con la formazione della famosa casa di produzione Armenfilm nella periferia della capitale, l’attività cinematografica si espande. La Armenfilm dispone di moderni teatri di posa e di sale di registrazione; la casa arriva a distribuire fino ad una decina di film annualmente. Si produce una vasta gamma di generi per le sale e la televisione fra cui anche dei film comici che servono ad alleviare l’umore serioso di quel periodo. Tra le commedie di maggior successo degli anni ‘70 e inizi ‘80 spiccano: Il soldato e l’Elefante, Uomini, Un Uomo da Olimpo e il cortometraggio Gelso. Il devastante terremoto del 1988 presto getterà un velo luttuoso sul cinema armeno; le pellicole Canzone dei vecchi tempi e Tango della nostra infanzia, sono entrambi dedicati a Gyumrì, la seconda più grande città dell’Armenia completamente distrutta dal sisma.
In breve, si può dire che il Cinema Armeno, fin dal suo primo documentario di stampo “sovietico”, abbia sempre mantenuto una missione coerente e precisa; per diversi decenni ha saputo creare dei film “litografia” che rispecchiano gli aspetti principali della sua storia e della sua cultura, raffigurando abilmente ritratti di eroi, scienziati e pittori. Un tocco poetico accompagna ogni pellicola con la precisa volontà di conferire un lirismo perfino alle immagini più dure. Una tendenza, però, che è invertita negli anni ’80 in cui gli autori osano imporre la cruda realtà anche nei film romantici creando il nuovo trend di “docu-fiction” che è molto apprezzato nei festival internazionali. Tuttavia, il crollo dell’Unione Sovietica coglie il cinema armeno impreparato. Presto emerge una nuova generazione di registi intraprendenti. Molti di loro si avventurano nel produrre dei film a proprie spese senza dover dipendere più dai fondi statali; vogliono sfidare la crisi economica e l’ingombrante burocrazia che spesso ostacola l’ integrazione del cinema armeno nel libero mercato. Nasce così una moltitudine di film come Voce nel deserto, Labirinto, Sangue, Catastrofe ed altri. In queste pellicole, come i titoli stessi evidenziano, traspare chiaramente l’ansia e la sofferenza durante il periodo della dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma anche uno sprazzo di speranza per un futuro migliore.
Ci auguriamo che il Cinema Armeno continui a intrattenere e a insegnare, restando fedele alla sua rispettabile tradizione.
Ps.
Il ricco apporto dei film prodotti dalle comunità armene all’estero, in particolare quella statunitense e francese, non è minimamente accennato in questa sede per ovvi motivi di spazio. Il discorso, dunque, sul Cinema Armeno resta incompiuto finché non venga approfondito anche questo aspetto.
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