IL MASSACRO DEI ‘CRISTEROS’ MESSICANI
(1926-1929)
1. Per una civiltà cattolica iberoamericana
La rivolta dei cristeros inizia nel 1926 e si conclude, anche se non definitivamente, nel 1929. E cristeros deriva da Cristos Reyes, i “Cristi-Re”, come gli avversari definivano con intento spregiativo gli insorti cattolici che combattevano al grido di “Viva Cristo Re!”, riprendendo il tema della regalità di Cristo, all’epoca molto popolare e in sintonia con l’enciclica sull’istituzione della festa di Cristo Re Quas primas, pubblicata nel 1925 da Papa Pio XI (1922-1939).
Nel Messico, nei secoli seguenti la scoperta e la conquista dell’America, era avvenuta una feconda fusione fra cattolicesimo e cultura indigena. La civiltà iberoamericana, una miscela di elementi senza eguali nel tempo e nello spazio, vi aveva dato frutti di grande originalità in tutti i campi, compresi quelli delle arti figurative e della musica. All’inizio del secolo XX questa cultura, con una religiosità luminosa, pubblica, sopravvive ancora, anche se allo stato residuale e subalterno, nei ceti popolari e rurali, mentre le classi alte e il ceto politico e intellettuale hanno ampiamente assorbito le idee illuministiche e liberali. Dagli inizi del secolo alla guida della repubblica presidenziale federale messicana, per lo più a seguito di colpi di Stato e di guerre civili, si era avvicendata una serie di generali o di despoti, espressione della fazione di volta in volta vincente all’interno dell’unico e intoccabile establishment massonico e laicista, prevalso nella seconda metà dell’Ottocento. Quando scoppia l’insurrezione cattolica è al potere un generale, Plutarco Elías Calles (1877-1945), che pratica una politica rigidamente “modernizzatrice” – il suo partito si autodefinisce “rivoluzionario istituzionale” -, filostatunitense e con simpatie per il nascente socialismo latinoamericano. Questa politica porta il governo messicano a inasprire la lotta contro la Chiesa, vista non solo come centro sovranazionale di diffusione dell'”oppio del popolo” – secondo il cliché laicista – ma pure come bastione della conservazione e come ostacolo al latente totalitarismo statale. Il regime di Calles si differenzia dai precedenti per lo stile, il pugno di ferro, lo spirito da scontro epocale che egli ostenta, anche personalmente, nel realizzare la sua politica e che gli varrà, fra i cattolici, il nomignolo di “Nerone”.
2. Il conflitto fra Stato e Chiesa
Nel 1917 il governo di Venustiano Carranza (1859-1920) vara una costituzione fortemente laicistica, che però non viene mai applicata. Nel 1926 il Governo Calles ordina ai governatori dei diversi Stati di emanare decreti volti a far applicare il dettato costituzionale in materia di disciplina dei culti. Essi prevedevano, di fatto, la radicale separazione fra Chiesa e Stato, la completa scristianizzazione dei luoghi pubblici – tribunali, scuole, e così via -, l’esproprio totale degli edifici di culto e dei seminari, la proibizione dei voti e degli ordini religiosi, la trasformazione del clero in un corpo di funzionari statali e il “numero chiuso” per lo stesso clero, che doveva essere messicano di nascita, sancendo così l’espulsione dei missionari stranieri. Nel 1925 il Governo, mentre favorisce la diffusione delle missioni protestanti nordamericane, tenta anche – ma invano, a causa della reazione dei cattolici -, di dar vita a una Chiesa Nazionale separata da Roma. Le violenze poliziesche seguenti il tentativo di applicare la nuova disciplina antiecclesiastica, in vigore dal 31 luglio 1926, generano immediatamente la reazione del mondo cattolico, che dà vita a una Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa. L’episcopato messicano, in sintonia con la Segreteria di Stato vaticana, retta dal card. Pietro Gasparri (1852-1934), dopo diversi tentativi, falliti, di resistenza legale non violenta – scioperi, boicottaggi e petizioni popolari -, ritiene di reagire alla escalation del terrorismo governativo con un provvedimento inusitato e clamoroso: in segno di protesta sospende completamente l’esercizio del culto pubblico. L’atto, senz’altro legittimo, si rivela però imprudente perché non teneva conto della determinazione degli ambienti governativi di andare fino in fondo nell’affermare il proprio controllo sulla Chiesa – anche se prove in questo senso non erano mancate negli anni precedenti – e, soprattutto, sottovalutava l’impatto che la sospensione del culto avrebbe avuto sul vissuto popolare quotidiano, specialmente dei più umili. Infatti, la cultura del popolo, profondamente nutrita di Bibbia e di leggende religiose, caratterizzata da una forte tensione escatologica, vivacizzata da un’intensa e diffusa pratica devozionale, interpretava consuetamente gli avvenimenti all’interno di categorie che si potrebbero definire “mistiche” e “apocalittiche”. Anche la persecuzione di Calles viene dunque letta come l’abbattersi di un flagello biblico, e con altrettanto spirito apocalittico nasce nel popolo la convinzione che occorra reagire, come i fratelli Maccabei, impugnando le armi per ripristinare la giustizia violata.
3. L‘insurrezione
Fin dai giorni immediatamente seguenti la sospensione del culto, in più di uno Stato, iniziano ad accendersi focolai di sollevazione. La Santa Sede si oppone alla rivolta armata, l’episcopato non la promuove né l’appoggia. Il mondo cattolico ufficiale – la Lega Nazionale di Difesa della Libertà Religiosa – persiste nell’azione di resistenza legale, che viene repressa con ancora maggiore asprezza: i federali non fanno distinzioni troppo sottili fra cristeros e circoli di Azione Cattolica, il che provoca innumerevoli martiri, particolarmente fra il clero. Il più noto è il sacerdote gesuita Miguel Agustín Pro (1891-1927), beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988.
Dall’agosto del 1926 i focolai di rivolta diventano un incendio che divampa in quasi tutti gli Stati della federazione. Comunità intere si sollevano in massa. Clan familiari e confraternite laicali si danno alla macchia sulle montagne, da dove attaccano le truppe federali e le formazioni irregolari filogovernative, i cosiddetti “agraristi”. Lo scontro è fin da subito violentissimo. Contro i ribelli – che gli avversari disprezzano come esseri subumani -, numerosi ma male armati e privi d’inquadramento militare, il Governo mobilita le truppe migliori dell’esercito nazionale, inclusa l’aviazione. Cionostante, i cristeros, forti dell’appoggio popolare e praticando la guerriglia, infliggono gravi perdite ai federali e aumentano, passando a controllare e ad amministrare aree sempre più vaste del territorio nazionale, in particolare nella parte centro-meridionale del paese, negli Stati di Durango, Morelia, Jalisco, Zacatecas, Michoacan, Veracruz, Colima e Oaxaca. Un salto di qualità si ha quando, nel 1927, la guida dell’esercito cristero – che conta circa ventimila uomini – viene presa dall’ex generale federale Enrique Gorostieta Velarde (1891-1929), che aderisce inizialmente alla rivolta più per spirito anticonformista che per convinzione religiosa, ma che maturerà in consapevolezza, prima di essere ucciso a tradimento, in combattimento, il 2 giugno del 1929. Fra il 1927 e il 1928 gli insorti sono in grado di affrontare l’esercito federale in vere e proprie battaglie campali, con impiego dell’artiglieria e della cavalleria. Gli aiuti ai combattenti provengono dalla rete creata dalle famiglie, dalle confraternite e dalle organizzazioni di soccorso. In questa sanguinosa guerra clandestina si distinguono le brigate paramilitari femminili, intitolate a santa Giovanna d’Arco (1412-1431). Il clero – i vescovi, tranne due o tre, sono fuggiti all’estero e i sacerdoti vivono nella clandestinità – è pressoché assente fra i combattenti, che devono supplire alla mancanza dei sacramenti con la preghiera, soprattutto con la recita del rosario e dei salmi e con la devozione ai santi patroni. Alla fine del 1928 per i federali comincia a profilarsi il fantasma di una sconfitta sul campo: non riescono più a sostenere il peso della guerra civile su tanti fronti e, soprattutto, sembrano stanchi del terrore su vasta scala, che hanno scatenato contro il loro stesso popolo. Grandi battaglie hanno luogo agli inizi del 1929 – la maggiore è quella di Tepatitlán, nello Stato di Jalisco, il 19 aprile – e il movimento cristero, che conta circa cinquantamila combattenti, è molto vicino alla vittoria.
4. Gli “Arreglos” e la “Segunda”
Davanti alle crescenti difficoltà di domare l’insorgenza, il Governo fa balenare la possibilità di una tregua e i vertici cattolici, che non comprendono la guerra dei cristeros e sono sempre rimasti in spasmodica attesa di un segno di buona volontà da parte dell’avversario, raccolgono subito il segnale e accordi, del tutto informali, gli Arreglos, vengono frettolosamente sottoscritti il 22 giugno 1929, con l’attenta e determinante regìa della Segreteria di Stato vaticana, e il culto pubblico riprende. Per la Chiesa e per la popolazione questo costituisce un indubbio sollievo, ma per la sollevazione armata significa la fine.
Venuto meno il generale consenso popolare, costretti a cedere le armi e a tornare ai propri villaggi, i cristeros si trovano immediatamente esposti alla vendetta, anche privata, dei federali, dal momento che gli Arreglos non contenevano nessuna garanzia a salvaguardia dei combattenti. Mentre la Chiesa non ricupera la sua libertà e, anzi, continua a essere perseguitata, la repressione nei confronti dei combattenti cristiani – soprattutto dei capi e dei quadri -, per lo più contadini, continua ininterrottamente, almeno fino agli anni 1940. Così i cristeros, dopo una ripresa disperata della rivolta fra il 1934 e il 1938 – la cosiddetta Segunda -, quasi scompaiono, talora fisicamente, dalla storia del paese: restano ancora oggi, indomiti, alcuni piccoli nuclei di reduci che pubblicano un periodico, David. Nonostante l’oggettivo appeasement, fra Stato e Chiesa permangono strascichi latenti di quella guerra mai vinta e mai persa, fra i quali può forse venire inquadrata la “misteriosa” uccisione, il 24 maggio del 1993, del card. Juan Jésus Posadas Ocampo (1926-1993), arcivescovo di Guadalajara.
La guerra dei cristeros, gloriosa e sfortunata, costata dalle settanta alle ottantacinquemila vite umane, sembra essere considerata tanto dalla Chiesa quanto dallo Stato messicani un malaugurato incidente di percorso nel processo di ralliement fra Chiesa e mondo moderno, sì che ricerche storiche, come quella fondamentale dello storico e sociologo francese Jean Meyer, negli anni 1960, hanno incontrato non pochi ostacoli. In realtà, si tratta di una pagina di storia complessa e ancora non del tutto chiarita – a proposito della quale le animosità, soprattutto laicistiche, non si sono ancora placate -, ma altamente significativa. Sul piano storico, siamo di fronte a un episodio dello scontro plurisecolare, nella sua versione armata e popolare, fra la Modernità, con i suoi processi di secolarizzazione delle culture e delle istituzioni politiche a fondamento religioso, e tali culture, pur residualmente di stampo sacrale tradizionale. Sul piano politico, la “lezione messicana” contribuisce all’elaborazione di una nuova strategia della Rivoluzione nei confronti dei cattolici, quella della “mano tesa”.
Per approfondire: vedi una prima ricostruzione, nel mio La Chiesa e le insorgenze popolari controrivoluzionarie, in AA. VV, Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, a cura di Franco Cardini, 3a ed., Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, pp. 373-407 (pp. 396-401), che fa stato dei risultati della ricerca dello storico e sociologo francese Jean Meyer, da lui stesso condensati nel suo contributo Quando la storia è scritta dai vincitori. Insurrezione vandeana e rivolta dei cristeros messicani: due sollevazioni popolari escluse dalla storia ufficiale e dalla memoria nazionale, in AA. VV., La Vandea, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, pp. 234-246; e nell’intervista Messico 1926-1929. La guerra dei “cristeros”, a cura di Alver Metalli, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno VIII, n. 5, maggio 1990, pp. 56-61; vedi pure la rievocazione del padre comboniano Fidel González Fernández, Messico martire, in Litterae Communionis. Rivista mensile di Comunione e Liberazione, anno XX, marzo 1993, pp. 48-50; e Idem, A causa mia, ibid., anno XX, aprile 1993, pp. 50-52; nonché l’intervista della pittrice messicana Dolores Ortega, Il potere e la gloria, a cura di Stefano Maria Paci, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XI, n. 3, marzo 1993, pp. 66-70.
(*) Oscar Sanguinetti, milanese, è laureato in Storia Moderna all’Università degli Studi di Milano. Opera come ricercatore e Responsabile di Progetto nell’ambito del Dipartimento Identità Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma. Dirige l’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale (Isiin) di Milano, sodalizio di ricerca storica indipendente. Ha svolto ricerche e studi sul periodo napoleonico in Italia – in particolare, sul fenomeno delle insorgenze popolari anti-napoleoniche – e su molteplici argomenti di storia civile e religiosa contemporanea. Ha pubblicato e curato numerosi volumi di carattere storico. È direttore della rivista Cultura&Identità, nonché editor del sito web Storia&Identità. Collabora con i periodici italiani il Timone, Nova Historica. Rivista Internazionale di storia e Cristianità, e con la rivista Verbo, pubblicata a Madrid.
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