Per decenni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli albori degli anni Novanta, buona parte della storia e delle vicissitudini dei popoli dell’Europa orientale e balcanica sottoposti ai regimi comunisti sono rimaste avvolte da un alone di mistero. Ragion per cui bisognò attendere il definitivo collasso del sistema sovietico per venire a conoscenza della lunga lotta armata clandestina che, tra il 1945, la metà degli anni Cinquanta ed oltre, si sviluppò e diffuse nei Paesi Baltici, in Ucraina, in Polonia, in Romania e, con caratteristiche e modalità diverse, anche in alcuni stati balcanici e caucasici, come la Iugoslavia, l’Albania e l’Azerbaigian.
L’ESTONIA
Alla fine del Secondo Conflitto Mondiale l’Estonia, al pari degli altri due stati baltici di Lituania e Lettonia, venne indebitamente inglobata dall’URSS e sottoposta ad una gigantesca operazione di pulizia” etnica (che portò allo sterminio di almeno 250.000 estoni) e di forzata “colonizzazione” del territorio da parte di cittadini russi e bielorussi. Fu per questa ragione che già a partire dal settembre 1944 circa 25.000 tra ex-militari e civili estoni si diedero alla macchia nei fitti boschi del paese, formando i primi raggruppamenti partigiani chiamati i Fratelli della Foresta. Tra i leader di questo movimento resistenziale figurava Ülo Altermann (1923–1954) Sotto la sua direzione, le bande raccolsero tutte le armi e le munizioni abbandonate dalla Wehrmacht prima della sua ritirata verso ovest, riuscendo ad equipaggiare alcuni battaglioni della forza unitaria di circa 250/350 uomini che, già prima della fine del 1944, incominciarono a sferrare attacchi contro colonne motorizzate, presidi e caserme sovietici. Agli inizi del 1945, le autorità russe e quelle del nuovo governo estone comunista organizzarono una serie di operazioni di controguerriglia, colpendo i gruppi partigiani, ma soprattutto la popolazione sospettata di fornire appoggio diretto o indiretto ai ribelli. Da Mosca giunsero migliaia di soldati appartenenti ai corpi speciali e centinaia di agenti del NKVD (Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del, Commissariato del Popolo degli Affari Interni) che, dietro ordine di Stalin, iniziarono ad arrestare e deportare in Siberia gran parte delle famiglie dei partigiani, avviando nel contempo, nelle campagne, il sequestro proprietà, armenti e raccolti. Nonostante queste rappresaglie, nell’estate del 1945, i Fratelli della Foresta intensificarono le loro incursioni contro l’invasore. In questo periodo, la NKVD registrò quasi 350 attacchi gran parte dei quali compiuti dalle formazioni del leader partigiano Arnold Lindermann. All’inizio del 1946, nella repubblica baltica giunsero altri 25.000 soldati russi, appoggiati da carri armati, autoblindo e aerei da ricognizione. Oltre a ciò, il Comando Sovietico di Tallinn mise taglie su tutti i capi partigiani, minacciando severe rappresaglie nei confronti di tutti i cittadini che si fossero rifiutati di collaborare con le autorità comuniste. Tuttavia, gran parte della popolazione, soprattutto quella delle campagne, già defraudata dalla collettivizzazione forzata avviata dai Soviet locali, continuò a sostenere o, quantomeno, a parteggiare per i Fratelli della Foresta. E fu così che, per un paio di anni, le formazioni ribelli riuscirono a tenere testa all’Armata Rossa e alle milizie bolsceviche infliggendo a queste perdite molto severe. La svolta avvenne verso la fine del 1948 quando Stalin ordinò l’incarcerazione e il sequestro dei beni di decine di migliaia di semplici cittadini. Non solo. Nell’inverno 1948-1949, i sovietici ridussero drasticamente tutte le forniture di generi alimentari e combustibile ai villaggi contadini per indurre gli abitanti ad isolare il movimento resistenziale. Con la massiccia deportazione del marzo 1949 (nel corso della quale oltre 100.000 estoni vennero fatti sparire in Siberia) la situazione iniziò a farsi drammatica e tale da indurre una parte dei partigiani ad arrendersi. Malamente aiutati dall’Occidente (all’inizio degli anni Cinquanta, aerei anglo-americani effettuarono soltanto alcuni voli di rifornimento ai guerriglieri estoni utilizzando una base situata sull’isola di Bornholm, Mar Baltico), circa 5.000 partigiani continuarono a combattere la loro disperata battaglia, fino a quando, nel.1953, i sovietici, che ormai potevano fare conto su un esercito di non meno di 260.000 tra soldati e poliziotti, scatenarono l’offensiva finale, catturando, deportando o giustiziando circa 3.500 ribelli Secondo le stime del KGB, nel 1955 rimanevano in armi, nascosti nei boschi più fitti, non più di 900 Fratelli della Foresta. Detto questo, Stalin dovette attendere ancora molto tempo prima di dichiarare completamente liquidata la questione estone. Secondo i documenti d’archivio moscoviti, l’ultimo manipolo partigiano, agli ordini del comandante Oskar Lillenurm, venne annientato nel 1975. Lillenurm – che riuscì a sfuggire al massacro – venne trovato morto, in circostanze ancora tutte da chiarire, nella primavera del 1980, in un bosco della contea di Läänemaa.
LA LETTONIA
Nel periodo compreso tra la fine del 1944 e la metà degli anni Cinquanta, il movimento partigiano lettone mise in campo una forza di circa 15.000 combattenti suddivisi in 900 piccoli gruppi, affiancati da 20.000 tra ausiliari e addetti alla logistica. Le più importanti organizzazioni partigiane lettoni furono la Latvijas Tēvijas sargu (partizānu) apvienība operante nelle regioni di Latgale e Augšzeme; la Latvijas Nacionālo partizānu apvienība dislocata a nord del Latgale e del Vidzeme; la Latvijas Nacionālo partizānu organizācija attiva nel Kurzeme e Zemgale e la Tēvijas Sargu (partizānu) apvienība presente in prevalenza nella parte meridionale della regione di Kurzeme. Al pari dei partigiani estoni, anche i ribelli lettoni erano soliti agire nelle zone boschive e paludose che ricoprono gran parte del paese. I loro principali obiettivi erano rappresentati da stazioni di polizia e presidi dell’Armata Rossa e degli istrebiteli (o ‘sterminatori’): unità speciali della NKVD impiegate in operazioni di rastrellamento. Tra il 1945 e la fine del 1949, il movimento vantò un effettivo controllo su diverse aree, soprattutto laddove i partigiani potevano avvalersi di un maggiore sostegno da parte della popolazione. Secondo fonti russe, i ribelli operarono nelle circoscrizioni corrispondenti a 135 parrocchie sparse sul territorio, usufruendo anche della protezione del clero. Complessivamente, tra il 1944 e il 1955, i partigiani eliminarono oltre 3.000 tra agenti e soldati della NKVD dell’Armata Rossa e della milizia estone comunista, contro la perdita di 2.500 uomini. Per cercare di recidere i legami tra i civili e il movimento nazionalista, il 25 marzo 1949, i sovietici arrestarono e deportarono nei gulag 15.000 tra reali e presunti fiancheggiatori della resistenza e tutti i parenti dei combattenti alla macchia. Nel dopoguerra moltissimi civili e parecchi ribelli tentarono con mezzi di fortuna di raggiungere la Svezia e l’Inghilterra. Qui, verso la fine del 1948, una quota di combattenti si mise a disposizione dei servizi segreti britannici per effettuare operazioni di guerriglia in patria. Nel 1949, la CIA statunitense e il SIS inglese, addestrarono un certo numero di volontari lettoni disposti a farsi paracadutare nei rispettivi paesi di origine. Sembra che dall’inizio del 1949 e fino al 1952, aerei inglesi pilotati da volontari polacchi e decollati da basi situate in Germania Occidentale, abbiano raggiunto la Lettonia lanciando piccoli gruppi di sabotatori e informatori. Tuttavia, la quasi totalità di queste missioni si rivelò un fallimento. Tutti i commando lettoni trasferiti in patria, con mezzi aerei e speciali battelli britannici, furono infatti catturati dalle forze della NKVD, grazie alle informazioni trasmesse a Mosca dalla celebre spia inglese Kim Philby. Tra il 1951 e il 1955, le residue bande armate dovettero nascondersi sempre più frequentemente nella profondità delle foreste e limitarsi a sopravvivere fino a quando la proclamazione da parte delle autorità di una serie di amnistie indusse gli ultimi raggruppamenti a consegnarsi alle forze di polizia che, nonostante le promesse di indulgenza, incarcerò, processò e condannò a lunghe pene detentive tutti i partigiani.
LA LITUANIA
Il movimento di resistenza antisovietico lituano nacque per iniziativa del generale Motiejus Peciulionis che, il 9 luglio 1944, diede vita al primo nucleo combattente delle Squadre Speciali di Difesa o Samogitian. Per parare il colpo, Stalin inviò subito in Lituania, in qualità di Commissario Straordinario per la Pacificazione, l’abile e sanguinario generale Mikhail A. Suslov. Tuttavia, dopo alcuni successi iniziali, Suslov dovette scontrarsi con la tenace volontà del popolo lituano, tanto che il “governatore” sovietico fu costretto ad ammettere il fallimento della sua missione, riferendo a Mosca che nel 1945 il paese “risultava in buona parte controllato da ben 1.067 gruppi partigiani e da 839 nuclei di banditi”. In un primo tempo, la resistenza lituana mise in campo formazioni piuttosto consistenti, composte da alcune centinaia di uomini. Ma ben presto i comandi del movimento optarono per un radicale ridimensionamento dei reparti in modo da renderli più manovrieri. Nel 1946, le forze della resistenza risultavano distribuite sul territorio in maniera piuttosto difforme. Nella parte meridionale e occidentale del paese erano attive essenzialmente le bande più minute ma agili, specializzate in attacchi a sorpresa, mentre nella parte orientale e settentrionale agivano gruppi numericamente più consistenti: come ad esempio quello del leader partigiano Žalgiris che arrivò a contare ben 800 uomini. Nel 1947, si stima che nelle foreste lituane operassero dai 22.000 ai 28.000 patrioti, suddivisi in unità ‘militarizzate’ e ben organizzate, armete con pistole, fucili, mitragliatori e fucili-mitragliatori di preda bellica sovietica, ma anche di fabbricazione tedesca, polacca e cecoslovacca. A differenza dei guerriglieri estoni e lettoni, quasi tutti i partigiani lituani, avevano l’abitudine di indossare vecchie uniformi dell’esercito nazionale o di foggia tedesca o sovietica, con mostrine e placche regolamentari. Anche nel contesto della guerra di resistenza lituana, i servizi segreti occidentali ebbero modo di svolgere un certo ruolo. Il 24 giugno 1948, il leader partigiano Juozas Lukša (nome di battaglia, Daumantas) riuscì a fuggire in Svezia a bordo di un natante, per poi proseguire per la Germania. Tra il 7 e il 9 luglio, a Baden Baden, Lukša si incontrò con i vertici del Comando del VLIK (il Comitato Supremo per l’Indipendenza della Lituania in esilio) con i quali discusse circa le modalità attraverso le quali i partigiani avrebbero dovuto condurre la lotta per la liberazione della Lituania. Tuttavia, con il progressivo consolidarsi del potere sovietico, il movimento indipendentista lituano perse gradualmente l forza fino ad estinguersi del tutto. D’altra parte, già nel 1950, buona parte delle componenti operative della resistenza confluirono nel LKS (Laisvės Kovų Sąjūdis, Movimento per la Lotta e la Libertà della Lituania) che, a partire dal 1952 decise di abbandonare la lotta armata. Secondo fonti sovietiche, i rimanenti gruppi combattenti vennero neutralizzati nel 1955. Complessivamente, tra la fine del 1944 e il 1955, il movimento lituano ebbe dai 25 ai 30.000 caduti. Pesanti, ma non esattamente quantificabili (si parla di almeno 45.000 tra morti e feriti), risultarono le perdite subite dalle milizie governative comuniste e dalle forze di occupazione sovietiche.
L’UCRAINA
Tra il 1941 e il 1956, in Ucraina, l’organizzazione politico-militare dell’UPA (Ukrainska Povstanska Armiia) – creata il 14 ottobre 1942 a Volyn dal leader nazionalista Roman Shukhevych (1907—1950) – ebbe un ruolo determinante nel corso della lunga e misconosciuta lotta di resistenza di questo popolo nei confronti dei russo-sovietici, ma anche dei tedeschi. Nell’estate del 1941, dopo l’entrata in Ucraina della Wehrmacht e la ritirata dell’Armata Rossa, l’UPA tentò, inutilmente, di costituire un esercito nazionale indipendente per affiancare quello tedesco contro i bolscevichi, per la ferma (ed ottusa) opposizione di Hitler. E allorquando, il 30 giugno 1941, a Lvov, il leader nazionalista Stepan Bandera (1909–1959) osò proclamare l’indipendenza dell’Ucraina, la Gestapo lo arrestò. E stessa sorte toccò anche al capo dell’OUN (l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini) Andrii Melnyk (1890– 1964), che dopo essere stato richiuso in un carcere, nel 1944 verrà internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Nonostante le insensate rappresaglie tedesche, nel 1942 l’UPA riuscì comunque a rinforzarsi. Nell’agosto 1943, i leader dell’OUN riconobbero l’UPA quale formazione militare ufficiale rappresentante l’intero popolo ucraino: gesto che favorì l’arruolamento di circa 100.000 combattenti, suddivisi in numerosi gruppi operativi, sia in Ucraina occidentale che nei Carpazi orientali. All’inizio del 1944, gli organici del movimento si ingrossarono ulteriormente salendo – sembra – a quasi 200.000 elementi, parte dei quali impegnati contro i tedeschi e parte contro i partigiani comunisti. Tra la primavera e l’estate del 1944, in seguito alla grande offensiva russa, l’esercito tedesco dovette ripiegare verso ovest e l’UPA si ritrovò sola nel contrastare l’avanzata sovietica. A Stalin si presentava finalmente l’occasione per liquidare una volta per tutte l’annosa “questione ucraina” e cancellare il vecchio sogno indipendentista di questo popolo. Ma i partigiani dell’UPA non si diedero per vinti, accettando l’impari confronto. A fianco dei gruppi combattenti iniziarono ad operare unità di supporto e logistiche e numerose cellule composte da informatori e agenti, alle quali venivano affidati compiti di intelligence e missioni di sabotaggio e di “eliminazione” di importanti personalità militari sovietiche. Va ricordato a questo proposito l’uccisione del maresciallo dell’Armata Rossa Nikolaj Vatutin (marzo 1944). Contrariamente ad altri movimenti anticomunisti dell’Europa orientale, l’UPA fu l’unica organizzazione ad accogliere nelle sue file anche elementi appartenenti ad altre nazionalità, religioni ed etnie. Oltre a molti tedeschi (alcune centinaia di soldati della Wehrmacht rimasti isolati in seguito all’avanzata russa), tra il 1944 e il 1945, confluirono nell’UPA georgiani, armeni, uzbechi e azerbaigiani, tartari, russi, bielorussi e perfino qualche ex-militare italiano. Abbastanza significativa risultò anche la presenza di ebrei che pur di contrastare i sovietici accettarono di arruolarsi nell’UPA dove, come è noto, figuravano non pochi elementi antisemiti. Pesanti furono le perdite subite dai partigiani nel corso della loro lunga lotta. Nell’autunno-inverno 1944, l’Armata Rossa e le forze speciali della NKVD eliminarono 57.405 combattenti ucraini e ne catturarono 50.387. Nell’arco dei primi quattro mesi del 1945, i sovietici liquidarono poi 95.083 tra uomini e donne e portando, entro la fine dell’anno, il totale degli ucraini uccisi a 218.865 unità. Tra il 1944 e il 1954 l’attività dell’UPA si tradusse in 14.424 attacchi contro raggruppamenti motorizzati e di fanteria dell’Armata Rossa e della NKVD, presidi, caserme, uffici e depositi: fatti d’armi: operazioni che causeranno la morte e il ferimento di almeno 39.000 tra ufficiali e militari sovietici. Per arginare l’attività sovversiva dei guerriglieri, i bolscevichi cercarono di isolare il movimento nazionalista dalla società civile che, nel contempo, venne sottoposta a vessazioni di ogni tipo. La tattica più frequentemente fu quella (già sperimentata con successo da Stalin negli anni Trenta) di bloccare le forniture alimentari e di sementi ai centri agricoli ucraini sospettati di dare appoggio ai partigiani. Ciononostante buona parte della popolazione continuò a sostenere i ribelli ucraini che continuarono a battersi con grande accanimento. Nel corso del 1948, i commando dell’UPA effettuarono 42 attacchi nella zona di Volyn, trecentottantasette in quella di Drohobych, otto in quella di Kamianets Podilskyi; due nell’area di Kiev, duecentosettantaquattro nel comprensorio di Lvov, sessantasette in quello di Rivne, più 344 nella zona di Stanyslaviv, duecentoottantadue in quella di Ternopol, due a Chernihiv, dodici a Chernivtsi e due a Brest (Bielorussia). Con l’inizio della Guerra Fredda, gli anglo-americani cominciarono a prendere in esame piani segreti per appoggiare i partigiani ucraini. A questo proposito, va ricordato che tra il 1948 e il 1952, tre speciali reparti aerei alleati, il 580°, il 581° e il 582° nucleo dell’Air Resupply and Communication Squadron e dello Psycological Storm Wing, dotati di speciali quadrimotori a grande autonomia Boeing B29 (totalmente dipinti di nero, privi di insegne ed affidati ad equipaggi polacchi e cecoslovacchi), effettuarono, partendo da basi situate in territori cipriota, turco e tedesco, diverse missioni di supporto ai guerriglieri dell’UPA. Nell’ambito di un’operazione segreta chiamata in codice “Integral”, anche il SIS inglese organizzò aviolanci per trasferire in territorio sovietico commando e informatori di origine ucraina. Ma come abbiamo già avuto modo di dire, la spia Kim Philby provocò il quasi totale fallimento di queste missioni. Nel marzo 1951, Philby riferì a Mosca che la CIA aveva in programma un lancio in Ucraina di tre squadre di sei uomini ciascuna. L’articolata operazione scattò nel mese di maggio dello stesso anno quando da una base inglese di Cipro, un bimotore britannico Douglas C47 con immatricolazione civile trasferì 18 agenti ucraini in territorio turco, da dove avrebbero poi dovuto raggiungere la Moldavia e poi l’Ucraina. La prima parte della missione ebbe esito positivo, ma quando il raggruppamento tentò di entrare in Bulgaria esso venne individuato e neutralizzato dalle forze di polizia comuniste. Tra l’agosto e l’ottobre 1951, gli americani tentarono altri voli con relativo trasferimento di agenti e materiali, ma tutte queste operazioni ebbero esiti disastrosi. Nel novembre dello stesso anno, un altro velivolo, questa volta americano, con a bordo apparecchi radio, materiale militare e valuta russa destinati ai partigiani ucraini, venne intercettato e catturato dai sovietici.
Intanto, l’offensiva sovietica proseguiva. Il 5 marzo 1950, nei pressi del villaggio di Chorny Lis in Ucraina occidentale, un contingente speciale dell’Armata Rossa eliminò il leader partigiano Roman Shukhevych. Anche se alcune fonti ucraine sostengono che il loro comandante si sia invece suicidato per non cadere nelle mani dei russi. Nel 1952, in seguito alla progressiva repressione sovietica, l’UPA iniziò a spostare molti suoi raggruppamenti verso occidente nella speranza che essi, dopo avere attraversato Polonia, Germania Orientale, Ungheria o Cecoslovacchia, potessero trovare asilo nell’Europa libera. Già nel settembre 1947, infatti, ad un reparto (la Compagnia 95) era riuscito, seppure al prezzo di alte perdite, di passare in Germania Occidentale. Su 100 uomini facenti parte dell’unità, soltanto 36 arrivarono alla meta. Dopo la morte di Shukhevych tutte le attività clandestine, condotte dal suo successore, il colonnello Vasyl Stepanovich Kuk (1913–2007), iniziarono a perdere mordente e intorno al 1955 (dopo la cattura di Kuk da parte di un commando sovietico) gli ultimi gruppi armati dell’UPA cessarono ogni resistenza. Anche se sembra che per ancora qualche anno, fino ai primi mesi del 1960, alcune unità rimasero in armi.
LA ROMANIA
Tra l’autunno del 1944 e la primavera del 1945, in Transilvania iniziarono a formarsi diversi nuclei di partigiani romeni antisovietici, composti in parte da appartenenti alla folta minoranza etnica ungherese e tedesca. Va notato a questo proposito che fino alla fine del 1944, i raggruppamenti della Transilvania ottennero dalla Germania un qualche aiuto. Nella fattispecie attraverso la Fallschirmschpringer-Aktion: un’operazione aerea nel corso della quale, per qualche mese, apparecchi tedeschi paracadutarono in Romania settentrionale un certo numero di consiglieri militari della FAK (Front Aufklarungs Kommando) che già in precedenza, tra il 1942 e il 1944, aveva sostenuto i guerriglieri nazionalisti e anticomunisti operanti nelle regioni caucasiche mussulmane. Nonostante questi (modesti) tentativi di soccorso, nel marzo del 1945 le forze di polizia rumene riuscirono a ripulire i boschi transilvani e ad annientare quasi tutti i gruppi di resistenza, proprio mentre il nuovo governo di Bucarest avviava una grande purga all’interno dei quadri dell’esercito per eliminare qualsiasi soggetto legato al precedente regime del maresciallo Ion Victor Antonescu (1882–1946) o sospettato di favorire i gruppi ribelli. Di conseguenza, diversi vecchi anticomunisti romeni, alcuni dei quali appartenenti all’ex-Legione dell’Arcangelo Michele (formazione parafascista e nazionalista), dovettero unirsi agli ultimi reparti partigiani ancora in armi. Nel 1947, il governo di Bucarest intensificò il processo di collettivizzazione forzata dei terreni agricoli che portò all’arresto e all’eliminazione fisica di non meno di 80.000 contadini accusati di essersi rifiutati di consegnare al governo le proprie terre e i propri averi. Queste repressioni indussero alcune migliaia tra piccoli e medi proprietari e braccianti a rifugiarsi nelle foreste e nelle più sperdute ed inaccessibili regioni montane, resistendo per anni alle forze comuniste. Nella primavera del 1949, sulla base dei rapporti stilati dai servizi anglo-americani, si evince che unità partigiane operanti in Transilvania e in altre zone del Paese, abbiano respinto con efficacia molteplici attacchi sferrati dalle unità speciali della NKVD e da quelle di Bucarest. Fu proprio sulla base di queste informazioni che i vertici della CIA decisero di inviare nella capitale romena l’agente speciale Gordon Mason, al quale venne affidato il compito di raccogliere tutte le informazioni inerenti l’attività militare e politica dei gruppi clandestini, evitando tuttavia di stabilire contatti diretti con i loro capi. L’anno seguente, Mason fu in grado di confermare a Washington i brillanti risultati conseguiti nel frattempo “da almeno 11 gruppi di resistenza armata (forti, complessivamente, di 40.000 uomini), operanti nei Carpazi centrali, della zona danubiana, nelle paludi del fiume Prut, in Bucovina e in Moldavia settentrionale”. Notizia, quest’ultima, che indusse la CIA ad autorizzare Mason ad incontrasi segretamente con i leader delle formazioni alla macchia, riferendo ad essi che gli Stati Uniti sarebbero stati disposti a fornire armi, munizioni ed apparecchiature radio. Mason ritenne però opportuno richiedere anche all’intelligence statunitense l’inoltro immediato per via aerea in Romania di commando romeni da impiegare in operazioni di sabotaggio. Richiesta, questa, che fu accolta dalla CIA. Tanto è vero che, nell’arco di alcune settimane, gli americani reclutarono personale specializzato e volontari romeni in esilio e misero in piedi una base operativa ubicata nei pressi di un aeroporto non lontano da Atene. Da questo sito, tra il 1950 e il 1953, alcuni bimotori Douglas C47 effettuarono diverse missioni nei cieli della Romania, paracadutando commando dotati di armamento leggero, impianti radio, denaro e documenti falsi. Ma stando a fonti americane, soltanto occasionalmente questi nuclei, una volta giunti nel loro paese, riuscirono a stabilire contatti con i partigiani. Il più delle volte, infatti, i manipoli inviati furono rapidamente individuati ed eliminati dalle forze di sicurezza comuniste e sovietiche, allertate dal controspionaggio di Mosca preventivamente informato dal solito Philby. Nonostante questi duri colpi, diversi nuclei partigiani proseguirono egualmente la loro lotta. Nel 1949, sulle montagne di Vrancea risultava attiva una grossa formazione composta da circa 1.500/2.000 uomini. Ma nell’inverno del ’49 una spia comunista riuscì ad infiltrarsi nella compagine, consentendo alle forze di polizia e dell’esercito di circondarla e annientarla. Nel corso di questa lunga e sconosciuta lotta che insanguinò le foreste romene si misero in evidenza alcuni comandanti dalle doti e dal carisma eccezionali come Gheorghe Arsenescu (1907–1962), che oppose resistenza sulle montagne meridionali Fagaras fino al 1952, anno in cui scomparve misteriosamente. Dopo una lunga pausa, nel 1959, Arsenescu e la sua banda ripresero improvvisamente ad operare, ma appena dodici mesi più tardi il capo partigiano venne catturato dalle forze antiguerriglia governative e condotto nella prigione di Campulung Muscel dove fu costretto a suicidarsi. Sui contrafforti settentrionali dei monti Fagaras, un altro gruppo di guerriglieri, guidato dall’ingegnere Gavrilachw, combatté fino al 1956, anno in cui venne preso prigioniero un altro famoso leader partigiano, Dumitru Moldoveanu. Prima di essere strangolato con un filo di ferro dai miliziani, quest’ultimo venne lungamente torturato. Dopo la morte di Moldoveanu, il movimento di resistenza anticomunista iniziò a sfaldarsi fino alla sua totale dissoluzione avvenuta, a quanto pare, agli inizi degli anni Sessanta.F
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