Economista britannico tra i più influenti del XX secolo, Keynes nacque da una ricchissima famiglia aristocratica. Per analizzare gli scritti e le “formule” economiche di Keynes sono stati scritti interi volumi, pertanto nel nostro limitatissimo spazio ci accontenteremo di un riassunto assai succinto.
Secondo la teoria economica da lui sviluppata un Paese deve espandere la spesa pubblica, attraverso grandi opere ed assistenzialismo, anche creando masse di parassiti e lavoro improduttivo (per i critici scavare buche e poi ricoprirle a spese dei contribuenti che pagano le tasse: in breve i lavoratori privati).
Per mantenere l’espansione statale l’inglese valutò l’aumento della tassazione e la produzione di enormi quantità di carta moneta, senza curarsi che più denaro viene stampato e meno vale. Difficile dire se nel nostro personaggio tale atteggiamento nascesse dall’ideologia socialista di fondo, per la quale il denaro è essenzialmente malvagio, o piuttosto dall’essere uno dei rampolli della vecchia aristocrazia terriera, avente le spalle coperte dai propri possedimenti immobili. In entrambi i casi a fare difetto sono la moralità e forse anche l’onestà…
Feroce critico del capitalismo, per sua stessa ammissione Keynes non seppe ipotizzare un’alternativa, limitandosi a rassicurare che un immenso debito pubblico non avrebbe rappresentato un problema, in quanto destinato ad essere affrontato in futuro.
Di facile comprensione anche per dilettanti e seducente per Governi preoccupati di creare un immediato consenso, il keynesismo è stato smontato dai maggiori economisti del XX secolo: Ludwig von Mises (1881-1973), Friedrich von Hayek (1899-1992) e Murray Rothbard (1926-1995). Ciononostante il pensiero keynesiano cominciò ad essere accantonato solo negli ’80 del Novecento, non a caso il decennio del crollo del comunismo.
Appurato che l’anno peggiore della disoccupazione statunitense fu il 1938, in pieno socialismo soft rooseveltiano, e analizzando il disastro economico britannico tra gli anni ’50 e ’70 del ‘900 (prodotto da un “keynesismo puro”) si può affermare che nessun Paese sia mai uscito da una crisi seguendo le teorie errate di Keynes: un “comunista soft” ed un radical chic a cui mancò sempre il coraggio di definirsi apertamente bolscevico.
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