Jurij Alekseevič Gagarin aveva ventisette anni ed era alto appena un metro e cinquantasette centimetri quando effettuò il suo grande volo. Questo piccolo eroe, nato il 9 marzo 1934, a Klušino, un minuscolo villaggio contadino nei pressi di Smolensk, era il solo membro dell’equipaggio della navetta spaziale Vostok 1. Figlio di una contadina e di un falegname, la sua infanzia e la sua famiglia furono caratterizzate dai terribili anni dello stalinismo e della Seconda Guerra Mondiale. Raggiunta l’età, studiò in un istituto metalmeccanico, per poi diplomarsi, nel 1957, all’Accademia Aeronautica Sovietica di Orenburg. Fu proprio nel 1957 che l’URSS lanciò con successo lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale della Storia, conseguendo una straordinaria vittoria propagandistica sulle democrazie occidentali. Erano gli anni d’oro della segreteria di Nikita Krusciov (1894-1971), non ancora politicamente bruciato dall’umiliazione della Crisi di Cuba e dai fallimenti economici sovietici, soprattutto in campo agricolo. Sebbene assai meno spietato del suo predecessore Stalin (1879-1953), Krusciov fu forse l’ultimo leader sovietico convinto della superiorità del sistema comunista rispetto a quello cosiddetto ‘capitalista’. Quindi, essendo impossibile distruggere l’Occidente con la guerra, occorreva superarlo ed umiliarlo con le imprese di pace. La corsa allo Spazio fu uno dei settori dove la gara con gli USA divenne più serrata e, sicuramente, più mediaticizzata. Dopo il primo grande risultato dello Sputnik, la competizione si spostò su un obiettivo ancora più ambizioso: portare un pilota nello spazio e farlo tornare incolume. Venne pertanto data la massima priorità alla costruzione della navetta Vostok (Oriente, in russo). Si trattava di un mezzo dalla tecnologia rozza quanto robusta e, soprattutto, geniale nella sua semplicità. Composta da una capsula sferica, nella quale avrebbe dimorato il cosmonauta, e da un modulo conico contenente i retrorazzi, necessari per il rientro, con relativo serbatoio di propellente. Il tutto sarebbe stato portato in orbita da un missile balistico intercontinentale R-7 Semërka (evoluzione delle celebri V-2 tedesche del tempo di guerra e catturate dai sovietici). Mente suprema dell’intero Programma Vostok fu l’ingegnere Sergej Pavlovič Korolëv (1907-1966), forse il più grande uomo di genio che il programma spaziale sovietico abbia mai prodotto, nonché sopravvissuto di un gulag staliniano. Tuttavia, malgrado le menti eccelse e le risorse profuse da un regime spietato, gli incidenti non mancarono. Terribile, in particolare, fu la Catastrofe di Nedelin del 24 ottobre 1960, in cui un razzo vettore esplose sulla rampa di lancio, provocando la morte di circa duecento (il regime sovietico tenne sempre segreta la cifra esatta) tra tecnici, militari e scienziati. Un tale disastro in Occidente avrebbe causato la sospensione del programma, ma non fu così nell’URSS. I tiranni comunisti non davano valore alla vita dei propri sudditi, inoltre avevano investito troppo del loro prestigio per rischiare di far vincere il secondo round spaziale agli USA. Quindi i lavori ripresero, passando alla selezione del candidato al volo spaziale. Per prima cosa si valutarono tremila piloti dell’aviazione militare. I tremila divennero poi, a forza di esclusioni, quattrocento ed infine venti. Questi venti vennero inviati, dopo severissimi esami medici, al Cosmodromo di Bajkonur (oggi in Kazakistan). Tra di loro vi era Jurij Gagarin. Qui i giovani, tutti di età compresa tra i venticinque ed i trentacinque anni, vennero sottoposti ad un addestramento intensivo che si pensava li avrebbe preparati alla grande impresa. In realtà l’addestramento dell’epoca, anche a causa delle scarse conoscenze che si avevano dello Spazio, oggi sarebbe considerato totalmente insufficiente, cosa che rende ancor più eroico l’azzardo di quei piloti. Alla fine il prescelto fu il ventisettenne Gagarin. Il 12 aprile 1961 il primo cosmonauta della storia venne lanciato oltre l’atmosfera all’interno della sua navetta. Si trattò di un volo ad orbita bassa (ovvero ad una distanza dalla Terra compresa fra i 160 ed i 2.000 km) in cui Gagarin si trovò sempre tra i 169 ed i 315 km dal nostro pianeta. Viaggiando a circa 27.400 km/h in 89.34 minuti il russo effettuò la prima orbita terrestre completa. Tutta l’epopea si svolse grazie ai comandi automatici, sebbene in caso d’emergenza il cosmonauta avrebbe potuto assumere il controllo manuale (per fortuna ciò non fu necessario, in quanto avrebbe quasi certamente significato la sua morte). Durante tali incredibili minuti, il russo poté comunicare con la base, tramite una radio ed un apparecchio Morse. Sebbene, successivamente, il regime comunista abbia inventato di sana pianta dichiarazioni propagandistiche ed anti religiose da parte di Gagarin, in realtà il pilota si limitò a cercare di descrivere la bellezza della Terra vista dall’alto. Paccottiglia di regime a parte, completata l’orbita, iniziò il rientro. La Vostok rientrò nell’atmosfera sfruttando i retrorazzi ed affrontando l’attrito dell’aria, che trasformò la capsula sferica del cosmonauta in una palla di fuoco. Il modulo orbitale, dal canto suo, era stato sganciato e si disintegrò nel rientro. A 7.000 metri dal suolo, come convenuto, Gagarin si eiettò, raggiungendo infine la superficie in paracadute a circa 25 km dalla città di Engels, nella Russia europea meridionale. La missione aveva avuto successo, per la prima volta l’uomo aveva superato la barriera naturale suprema del pianeta stesso che ci ha donato la vita, avventurandosi nel Cosmo, una dimensione di cui ancora oggi stentiamo a comprendere le immani dimensioni spazio-temporali. Per Gagarin la gloria, giustamente, fu assoluta. Il suo eroismo, e quello dell’immensa squadra che rese possibile l’avventura, fu sapientemente usata dal regime comunista. La potenza dell’Unione Sovietica visse uno dei suoi momenti più felici. Ma la scossa fu salutare anche per gli USA. Consapevoli della disfatta mediatico-scientifica subita, gli americani profusero il meglio di se stessi nel raggiungimento del terzo e più grande obbiettivo della gara: portare l’uomo sulla Luna. In tale competizione avrebbero trionfato, mettendo per sempre la parola fine all’iniziale superiorità sovietica nelle esplorazioni spaziali. Per Gagarin invece non ci sarebbero stati altri voli in orbita. Tale era la sua fama mondiale che, logicamente, il regime non lo avrebbe più messo a repentaglio. Da quel momento la sua vita si sarebbe divisa tra le cerimonie ufficiali e le consulenze per le missioni successive, il tutto allietato da una moglie devota e due bambine. Ma il destino, beffardo, avrebbe privato presto l’umanità di uno dei suoi più grandi figli. Il 27 marzo 1968, infatti, durante un banale volo di routine, perse il controllo del suo caccia MIG-15 e si schiantò al suolo. Voci maligne mormorarono che si fosse trattato di un sabotaggio, voluto dalle alte sfere sovietiche e finalizzato a celebrare solennemente un’icona morta, piuttosto che condividere l’amore del popolo con un eroe vivente. Probabilmente fu solo un tragico incidente. Comunque sia, nei suoi soli trentaquattro anni di vita, Jurij Alekseevič Gagarin fu la prova in carne ed ossa del genio della Civiltà europea, ovvero quella Civiltà che (pur con le varie declinazioni ideologico-religiose) ha saputo prendere possesso di tutta quell’area che va dalla California a Vladivostok, superando sfide apparentemente impossibili, solcando gli oceani, attraversando i continenti ed, infine, affacciarsi allo Spazio, la Frontiera suprema posta di fronte a noi. Gagarin, il cosmonauta di ventisette anni figlio di una contadina e di un falegname, è un piccolo, grandioso tassello di una ‘comune epopea’. E come tale lo ricorderemo per sempre.
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