Tratto, con diverse modifiche, dal romanzo “I mangiatori di morte” di Michael Crichton (1942-2008), questo film del 1999 ripercorre il viaggio, realmente avvenuto, dell’ambasciatore e cronista arabo-persiano Ahmad ibn Fadlan (877-960) da Baghdad fino al regno dei Bulgari del Volga (oggi in territorio russo, non lontano dai monti Urali). Nella realtà l’ambasciata del Califfo si rivelò un fallimento, ma permise a Fadlan di lasciarci in eredità un manoscritto di notevole interesse storico ed antropologico, nel quale descrisse ampiamente anche i Rus’, ovvero quei vichinghi (per lo più svedesi) che partendo dal Mar Baltico si inoltrarono lungo i fiumi dell’Europa orientale, fino a raggiungere il Mar Nero e dando un contributo decisivo alla nascita del primo Stato russo, chiamato appunto Rus’ di Kiev.
Il film, naturalmente, semplifica molto la storia e la rende più spettacolare. Fadlan, interpretato da un Antonio Banderas notevole oltre che credibile nella parte dell’arabo di classe elevata, viene inviato come ambasciatore del Califfo nelle terre dell’estremo Nord insieme al suo anziano mentore Melchisidek, ovvero un Omar Sharif (1932-2015) la cui brevità della comparsata nulla toglie al lustro dell’attore consumato. Giunta nelle attuali pianure russo-ucraine, la carovana viene attaccata da nomadi tartari, i quali però, alla vista di una nave vichinga in navigazione lungo un fiume vicino, preferiscono darsi alla fuga ed evitare lo scontro. Dubbiosi se essere stati fortunati od essere passati dalla padella alla brace, i due maomettani vengono condotti da Buliwyf, il capo dei normanni avente le fattezze di Vladimir Kulich: attore sottovalutato che, al netto di una prestanza fisica da vero vichingo, riesce a dare una tale profondità al suo personaggio da renderlo il meglio riuscito del film.
Nell’accampamento, il protagonista ha un primo approccio con la cultura pagana vichinga, che al raffinato uomo di corte appare brutale, ma anche sincera e virile. Il mattino dopo l’incontro giunge un altro ambasciatore, ovvero un ragazzo normanno, figlio di un re del Nord amico di Buliwyf a cui chiede aiuto. Indecisi sul da farsi i vichinghi si affidano alla divinazione di un’anziana sacerdotessa, la quale dichiara che 13 guerrieri devono andare in soccorso di re Hroðgar. A quel punto scatta la prima scena davvero epica del film, in cui una serie di guerrieri, ovviamente Buliwyf per primo, si offrono volontari, sulle note di un’efficace colonna sonora composta da Jerry Goldsmith (1929-2004). Fatto sta che sul finire della scena la sacerdotessa dichiara che il tredicesimo guerriero non debba essere normanno. Essendo Melchisidek troppo anziano per combattere, Fadlan/Banderas viene quindi arruolato a forza. Da qui inizia un lungo viaggio verso la Scandinavia, nel quale la regia diventa un pochino scontata (per esempio con l’irrealistica capacità dell’arabo d’apprendere la lingua norrena) e debole verso i ricatti del “politicamente corretto”, mostrando l’ambasciatore islamico come un uomo mite e di cultura, contrapposto ai nordici tutti “spada, birra e cazzotti” (questa scivolata ‘progressista’, nel complesso niente di grave, fece infuriare addirittura Oriana Fallaci, che esagerando fece a pezzi il film nel suo libro La rabbia e l’orgoglio).
Ma torniamo alla nostra avventura. Giunti finalmente alla corte di re Hroðgar, i tredici guerrieri si trovano subito al centro degli intrighi di corte, oltre che al vero nemico. Questi è costituito dai Wendol, una popolazione estremamente selvaggia e cannibale che vive nel profondo delle foreste, da cui lancia attacchi di una ferocia inaudita contro i villaggi norreni. Siamo ormai nella parte “viva” dell’avventura, in cui si vedono duelli, battaglie e scene d’eroismo. Nota estremamente positiva in un film del genere sono i combattimenti, ricostruiti in maniera realistica e senza azioni volanti alla Matrix o scene fumettistiche alla 300.
Dopo una serie di scontri estremamente cruenti, che vedono falciati i ranghi dei vichinghi e leggermente ferito Fadlan, si giunge alla battaglia finale. In questa scena si raggiunge un livello di epicità davvero coinvolgente, quando, subito prima dello scontro, Buliwyf (già morente perché graffiato da un’arma avvelenata) inizia a recitare la preghiera funebre vichinga, seguito in coro da tutti i suoi compagni e sostenuto dall’immancabile colonna sonora. Tale è il trasporto emotivo delle parole pronunciate (e riportate nello scritto del vero Fadlan) da meritarne la lettura: “Ecco là io vedo mio padre…ecco là io vedo mia madre e le mie sorelle e i miei fratelli…ecco là io vedo tutti i miei parenti defunti, dal principio alla fine. Ecco, ora chiamano me, mi invitano a prendere posto in mezzo a loro nella sala del Valhalla…dove l’impavido può vivere per sempre.”
Finita la preghiera, i vichinghi si lanciano contro i Wendol, il cui capo viene ucciso da Buliwyf in un combattimento di violenza brutale. Rimasti senza guida i nemici fuggono e la vittoria va ai normanni, mentre Buliwyf si siede e muore in posizione regale, con a fianco il fedele mastino dal pelo rosso che piange vicino al suo padrone, dopo aver passato mezzo film a ringhiare ed azzannarne i nemici.
Con il trionfo del Bene sul Male, l’eroe defunto (chiaramente ispirato al Sigfrido nibelungico) riceve un solenne funerale vichingo, con tanto di barca in fiamme, mentre il giovane arabo, divenuto uomo grazie alla sua avventura nelle terre pagane, inizia il lungo viaggio di ritorno verso casa.
Una nota a parte. film di pregio e degno d’essere visto, Il 13° Guerriero passerà probabilmente alla storia più che altro per il suo colossale fiasco d’incassi. Costato 160 milioni di dollari, ne incassò solo 60.7 al botteghino, classificandosi primo (al netto dell’inflazione) nell’infelice graduatoria dei disastri commerciali cinematografici di tutti i tempi. Dimostrazione che non sempre un buon prodotto fa riesce a fare cassa.
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