PREFAZIONE
di Marco Cimmino
L’operazione di revisione e ristampa de “L’ultima colonia” di Alberto Rosselli potrebbe dare, a chi non conoscesse l’autore, l’idea di un lavoro, di semplice restauro di un’opera, tutto sommato un po’ obsoleta e, comunque, eccentrica, rispetto alle rotte solitamente battute dalla storia militare. E sarebbe un errore di valutazione madornale. In Italia si scrivono molti libri di storia e, massime, sul Novecento e sui due conflitti mondiali: sovente, si tratta di opere, queste sì eccentriche, dedicate a temi monografici estremamente circoscritti o, addirittura, a cimeli memoriali di famiglia. Assai più spesso, però, si tratta di lavori superflui, su temi abusati o ovvi, in cui non ci si discosta di un centimetro da un’opprimente vulgata, che venne tracciata negli anni Ottanta e Novanta da una legione di ricercatori politicamente impegnati, il cui principale obiettivo non era raccontare la storia ma dimostrare al lettore che la guerra è un male. Certo che la guerra è un male: ci mancherebbe! Tuttavia, bisognerebbe, a questo punto, dare la cosa per dato acquisito e cercare, finalmente, di spiegare al pubblico che legge i libri anche la sostanza del conflitto, che, non dimentichiamocelo, è un fenomeno storico come qualunque altro. Anche per questa ragione, la nostra storiografia militare, fatta salva qualche valorosa eccezione, non gode di particolare stima all’estero. L’immediato effetto di questa diffusa disistima consiste in un comune atteggiamento di sottovalutazione dell’importanza del fronte italiano nell’economia della Grande Guerra e, più in generale, in una impressione di antiscientificità della nostra storiografia: tanto da considerare anche saggi di una notevole profondità (mi viene in mente l’opera di Antonio Sema sul fronte isontino) come afflitti da questa sorta di “tabe” italiana. Quando, nel mondo anglosassone, venivano scritte le opere fondamentali di Mosse, di Fussel, di Keegan, solo per citarne alcuni, in Italia eravamo ancora inchiodati ad un’epistemologia strumentale e ad una saggistica in cui si paragonava Garibaldi a Cossutta e che andava a cercare testimonianze sui plotoni d’esecuzione, trascurando la strategia, la tattica e, nonostante qualche titolo accattivante, perfino la mitologia della Grande Guerra. Va da sé che Rosselli non si è mai posto in questa scia: anzi, per la verità, è uno storico che ha sempre cercato di farsela da sé, la propria scia. Raramente, questa operazione si è rivelata in sintonia con le più interessanti avanguardie della storiografia militare come nel caso di questo libro: il che ne fa un’opera tutt’altro che eccentrica o marginale, ma la colloca a pieno diritto nel mainstream della saggistica di questa generazione, per fortuna, a quanto pare, più libera dalle pastoie della correttezza politica. Ci si è, alla fine, resi conto che, a furia di spaccare il capello in quattro su due o tre temi centrali della ricerca storica sulla Grande Guerra, ci si era clamorosamente incartati: la storia basata sul Materialschacht, la storia che parta dalla letteratura, la storia delle classi sociali attraverso la guerra, hanno da tempo esaurito il proprio filone aurifero. L’attenzione dei più avvertiti tra i ricercatori della nuova generazione si è rivolta al concetto di “mondialità” della Grande Guerra. Autori di assoluto valore, come Stevenson e, soprattutto, Hew Strachan, si sono dedicati alla stesura di storie della prima guerra mondiale che tengano conto in maniera rilevante anche del panorama extrauropeo e coloniale, nel tentativo di restituire a quel conflitto il suo carattere autentico, di guerra totale. Insomma, si è sempre parlato di guerra mondiale e, alla fine, ci si è ritrovati a parlare di un fazzoletto di terra che sta tra la Svizzera e il Mare del Nord, tra lo Stelvio e Monfalcone o tra la Masuria e i Carpazi. Al massimo, ci si è spinti ad analizzare la guerra navale nell’Atlantico, in qualche capitoletto accessorio. Invece, la Grande Guerra venne combattuta in quattro continenti e, se pure le forze schierate furono molto modeste, rispetto ai milioni di uomini impegnati in Francia o in Galizia, essa ebbe un’importanza notevole e, in certi casi, decisiva, per le linee di approvvigionamento, per la logistica globale del conflitto e, nel caso di cui si parla in questo libro, anche per i suoi effetti psicologici, durante e, addirittura, dopo la fine delle ostilità. Per questa ragione, la scelta di Rosselli di riproporre, con ampie revisioni, il suo libro sulla guerra anglo-tedesca nell’ Africa sudorientale è del tutto comprensibile: si tratta di un lavoro di settore, attento e documentato, che, quando godette della sua prima pubblicazione, passò sotto un colpevole silenzio, da parte di un mondo accademico tutto concentrato sulla solita vulgata. Perché, va detto, esistono molteplici vulgate: non si deve credere che la “vulgata resistenziale” denunciata dal De Felice, sia la sola ad affliggere atenei e ricerche storiografiche. Ogni fenomeno della storia moderna e contemporanea possiede, qui in Italia, la sua brava vulgata: viene, per così dire, addomesticato ai fini di una sua decisiva spendibilità politica. Fu naturale, ai tempi, che il saggio di uno storico come Alberto Rosselli, intellettuale del tutto non allineato con questo sistema, e dedicato ad un argomento estraneo al mondo della ricerca italiana, non ricevesse l’attenzione che meritava. E’ brutto dirlo, ma è la verità. Questa nuova edizione, pur coi limiti oggettivi di un’opera di nicchia e di una materia che incontra i favori del botteghino assai meno di altre (Dan Brown, con la sua fantastoria usa e getta, fa scuola, in questo senso), è un libro di godibilissima lettura e di profonda scienza: c’è da scommettere che, se raggiungesse il grande pubblico, potrebbe ottenere un notevole successo. Il punto è sempre quello: arrivare alla gente. La storiografia gode di un formidabile impianto di filtraggio: filtraggio all’origine, quando le università selezionano i ricercatori secondo criteri di omogeneizzazione, e filtraggio alla fine, quando la distribuzione snobba le opere che non abbiano un certo imprimatur. Così è la vita, almeno nel nostro Paese. Chi scrive nutre la speranza che questa ed altre fatiche di Alberto Rosselli possano godere del meritato successo, perché si tratta di lavori intelligenti, chiari, illuminati: ma sa bene che è una cosa un po’ difficile. Venendo, ora, alla materia di questa breve prefazione, “L’ultima colonia”, l’opera di Rosselli procede, con encomiabile organicità, alla descrizione e, molto più, alla spiegazione di uno scampolo di Grande Guerra che, in qualche modo, potrebbe assurgere a simbolo di due concetti contrapposti di tattica militare: da un parte, infatti, i protagonisti furono i soldati, metropolitani ed indigeni, delle truppe germaniche del Tanganika (Tanzania), comandati dal celeberrimo colonnello Lettow-Vorbeck, grossomodo dell’entità di una divisione (circa 3.000 europei ed 11.000 indigeni), mentre, dall’altra, si contrappose loro un’intera (sebbene assai composita) armata britannica, di più di 150.000 uomini. Le ragioni dei successi di Lettow-Vorbeck vengono analizzate con scrupolo, ma Rosselli fa anche qualcosa d’altro: cerca di entrare nel ventre di questa guerra, così lontana, geograficamente e psicologicamente, da quella che si combatteva nelle Fiandre e, com’è nel suo costume, di restituirci uno Stimmung, lo spirito di un evento. Sarebbe semplice, per qualunque storico militare, riassumere il senso di questa battaglia, che si protrasse, con alterne vicende, dal 1914 a oltre la fine della guerra (quando Lettow-Vorbeck si arrese, l’armistizio era scattato da due settimane e egli venne salutato, al suo arrivo a Berlino, come un trionfatore), risolvendola in un mero scontro di tattiche: ogni battaglia, anche la più diluita nel tempo, ha il suo Schwerpunkt e, in fondo, basta individuarlo per spiegarne il senso. Questa, tra tedeschi ed inglesi, però, non fu soltanto una battaglia: fu uno scontro di sistemi, di esperienze e di intelligenze. E una della ragioni dei successi germanici consistette proprio nel sistema: i britannici affidavano i comandi subalterni delle loro truppe coloniali (che erano professionali, va ricordato) a dei funzionari, che, spesso, incarnavano il carattere burocratico e pedante tipico del colonialismo inglese. Lettow-Vorbeck era un soldato: uno Junker che si era fatto le ossa in mezzo mondo, facendo la guerra. Da una parte, insomma, c’era la burocrazia e, dall’altra, c’erano l’addestramento e la capacità di adattarsi al campo di battaglia: un campo di battaglia enorme ed ambientalmente variegato e complesso. C’erano i “diavoli della foresta”, capaci di marciare per decine di chilometri in un territorio impossibile. D’altronde, questa diversa mentalità era già apparsa molto chiaramente durante il conflitto boero del 1899, quando le truppe di Smuts e di Botha tennero in scacco per anni i celebrati reggimenti di sua maestà, con una guerra fatta di rapidi spostamenti, di agguati, di sorprese e di taglio delle linee di rifornimento. Non a caso, Lettow-Vorbeck partecipò come osservatore (e, forse, come suggeritore) a quel conflitto, dal quale apprese gli elementi chiave della sua tattica militare, fondata sulla guerriglia. E, sempre non a caso, gli Inglesi, durante la guerra, dopo una serie di insuccessi, mandarono proprio Smuts a contrastare l’avversario in Tanganika. La logistica è l’elemento chiave della condotta di una guerra: interromperla significa accecare, affamare, disorientare e, infine, sconfiggere il nemico. Questo facevano i boeri e questo fece Lettow-Vorbeck: questo, su scala enormemente più vasta, stava cercando di fare l’impero britannico alla Germania, con il blocco navale; e la guerra in Africa ne fu una diretta conseguenza. Le note vicende del Koenigsberg, di cui Rosselli, in questo libro, ci dà puntuale notizia, si collocano, a loro volta, in questo contesto: nella lotta per mantenere o togliere gli attracchi africani alle navi da trasporto e da guerra. Suez era fuori portata, per la Germania, e la vecchia rotta circumafricana era l’unico modo per ottenere rifornimenti: di qui l’importanza vitale di mantenere una rete costiera e di non perdere una testa di ponte nell’Africa subequatoriale. Bisognerebbe dire che, probabilmente, 14.000 uomini per perseguire questo obiettivo erano troppo pochi: si tenga però presente che i contatti tra quelle truppe e la Madrepatria furono, salvo un paio di casi fortunati, del tutto impossibili. Lettow-Vorbeck fu solo, a condurre la sua lunghissima campagna. Dunque, molte sono le cose da comprendere e di cui tener debito conto: a partire dalla politica coloniale e dalla corsa all’Africa, in cui la Germania guglielmina giunse buon’ultima. Proprio da questo snodo, prende le mosse questo libro: opportunamente, Rosselli ci introduce gradualmente nel centro della questione, dipingendo, con tratto rapido ed efficace, un mondo, un’epoca scomparsa, che è l’epoca delle grandi colonie africane. Non si tratta di un merito da poco: le rotte coloniali della seconda metà del XIX secolo e dei primi anni del XX seguirono linee complicate, costellate di crisi internazionali e di trattati, la cui conseguenza più evidente sono quei confini subsahariani che paiono tracciati con la squadra, indipendentemente da etnie e popoli: molte catastrofi recenti sono derivate da quella caotica spartizione del bottino. Poi, l’autore procede seguendo i dettami della più classica storiografia militare, dimostrando, una volta di più, la sua formidabile duttilità ed il suo eclettismo: Rosselli scende in campo e descrive, per così dire, l’ordine di battaglia, ossia le forze contrapposte; da questo anche il lettore più sprovveduto può facilmente constatarne la sproporzione e cogliere la statura militare di Lettow-Vorbeck. Esaurita l’approfondita disamina delle truppe e delle dotazioni, il libro passa dalla storia annalistica alla storia narrativa e prende a dipanarsi come un appassionante romanzo di guerra: e da romanzo fu, senza dubbio l’epopea delle Schutztruppen africane, con continui colpi di scena e funamboliche manovre. La maggior parte di questo libro è, dunque, dedicata ad un’analisi capillare, ma mai noiosa, degli avvenimenti e dei vari protagonisti e comprimari della lunghissima campagna: e non è una parte che faccia rimpiangere, per esattezza ed acutezza, il Rosselli storiografo annalista. Anche il sottpscritto, pure essendo, purtroppo, costretto dal mestiere a consultare centinaia di opere specialistiche sulla Grande Guerra, resta ogni volta ammirato, di fronte a questa capacità straordinaria di Rosselli di raccontare, sintetizzando, ma senza mai togliere nulla che non sia degno di ablazione: una lunga frequentazione e collaborazione mi lega all’autore, eppure è sempre con un misto di invidia e di sincera ammirazione che leggo le sue pagine, scorrevoli e, al contempo, dense di storia. Tra tutti i suoi libri, questo “L’ultima colonia” è forse quello che più si avvicina ad un ideale romantico di racconto storico: un Michelet, si parva licet, che, però non concede nulla alla fantasia. Non mancano, naturalmente, gli episodi particolari, in questo racconto: la storia è fatta anche di curiosità e di aneddoti, non soltanto di cicli che si ripetano o di meccanismi automatici. Tra questi, citiamo quello, che ha veramente dell’incredibile, della spedizione di rifornimento e soccorso effettuata dallo Zeppelin L59/17, che avrebbe dovuto percorrere, senza prevedere un ritorno, la distanza tra il campo bulgaro di Jambol e l’Ost-Afrika, circa 7.000 chilometri, trasportando decine di tonnellate di rifornimenti e di armi. Il grande dirigibile venne fermato a metà strada, per la falsa notizia della resa di Lettow-Vorbeck e tornò indietro, dopo aver percorso quasi 3.500 chilometri, nel novembre del 1917: un romanzo nel romanzo, si potrebbe dire. Numerosi sono gli aneddoti che meriterebbero spazio in questa prefazione: nulla, però, si vuole togliere al paicere del lettore nello scoprirli. Con lo spostamento delle Schutztruppen in Mozambico, il conflitto si avviò verso l’epilogo: mentre, in Europa, l’offensiva Hindenburg si arenava definitivamente sui vecchi campi di battaglia del 1914, in Africa, il destino della colonna Lettow-Vorbeck andava delineandosi; e, forse, questo epilogo era previsto fin dall’inizio dal comandante germanico, che non era uno sprovveduto. Il che rende ancora più nobile ed interessante la sua figura. Di nuovo, i tedeschi puntarono verso nord, in questa gara a rimpiattino che aveva caratterizzato tutta la condotta della guerra, tra colpi di mano audacissimi ed agguati feroci, finchè, con qualche giorno di ritardo rispetto al resto del mondo, giunse anche a Lettow-Vorbeck la notizia della cessazione delle ostilità. Come detto, il 25 novembre, il contingente tedesco dell’Ost-Afrika si arrese al generale Edwards e a Van Deventer, il grande avversario di Lettow-Vorbeck: il Kaiser aveva lasciato la Germania già da 17 giorni e da 14 la prima guerra mondiale era finita. Questa scritta da Rosselli, insomma, è la storia di un crepuscolo, di un Goetterdaemmerung: ma si tratta, pur sempre di un bellissimo crepuscolo. E, va da sé, di un bellissimo libro.
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