Una piccola Hollywood cresce, all’ombra del Ponte sul Bosforo. La realizzazione del sogno del premier turco Erdogan di rivitalizzare i fasti dell’Impero ottomano esige un’intensa mobilitazione culturale, che non può prescindere dall’uso di quella che Mussolini sapientemente definì “l’arma più forte dello Stato”, ossia il cinema.
Il primo grande risultato di questo laboratorio cinematografico turco di propaganda politica è Fetih 1453, la storia mitizzata dell’assedio di Costantinopoli del 1453, quando l’ultimo avamposto dell’Impero bizantino venne annientato dalle orde turche ottomane guidate dal sultano Maometto II.
L’intervento del governo spiega come la modesta casa cinematografica turca Aksoy Film Production sia riuscita a recuperare 17 milioni di dollari, ingente cifra servita per dare alla luce, dopo una lunga gestazione, questo kolossal. Uscito nelle sale turche nel febbraio scorso, il film del regista Faruk Aksoy ha raccolto immediati apprezzamenti: sale gremite, applausi fragorosi e grandi acclamazioni da parte della critica, evidentemente avida di poter di nuovo celebrare il passato ottomano e islamico della sua storia nazionale. All’infuori dei confini turchi, tuttavia, il manifesto agiografico ottomano non è stato propriamente accolto dallo stesso favore goduto in patria. Le prime voci di dissenso sono giunte già a febbraio dalla Grecia, diretta interessata dagli episodi storici raccontati nel film. La sensibilità ellenica è stata turbata dall’esaltazione e dall’edulcorazione che la pellicola fa dell’inizio dell’apogeo ottomano, macchiato in realtà dal sangue di migliaia di bizantini estirpati da Costantinopoli.
Le polemiche non si sono però esaurite al confine greco. La diffusione di Fetih 1453 si è incagliata proprio presso quei luoghi impervi – al di là dei massicci libanesi – che in passato causarono diversi dispiaceri all’esercito ottomano. In programma dallo scorso 27 settembre, la presenza del film turco nelle sale di Beirut è durata appena una settimana, il 5 ottobre Fetih 1453 è stato infatti ufficialmente tolto dal cartellone di tutti i cinema del Paese dei cedri. Una scelta dettata dalle persistenti pressioni che la comunità cristiana del Libano aveva fin da subito esercitato invocando il boicottaggio del film, considerato pieno di falsità storiche che incitano allo scontro interconfessionale. Il partito al-Machreq, formazione dei giovani cristiani ortodossi, e altre associazioni cristiane il 29 settembre hanno portato in strada centinaia di dimostranti per manifestare contro l’uscita del film. Rodrigue Khoury, leader di al-Machreq, ha definito la pellicola turca “un atto di falsificazione e di terrorismo”. Non meno severo il giudizio di padre Abdo Abu Kasem, direttore del Centro cattolico per l’Informazione di Beirut, il quale ha affermato che “le falsità mostrate dagli autori di Fetih 1453 denigrano la religione cristiana, presentata come fede corrotta”. Il sacerdote ha inoltre definito intollerabile il racconto mellifluo dell’ingresso di Maometto II nella basilica di Santa Sofia, che in realtà comportò l’uccisione di oltre tremila cristiani e la trasformazione della chiesa in moschea. Insomma, padre Kasem ha condiviso la scelta di proibire la visione del film in Libano, giacché “rischiava di sollevare un conflitto tra comunità cristiane e musulmane nel Paese”.
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