IL PANTURANISMO
L’ANIMA ETNICO IDEOLOGICA DELLA TURCHIA NAZIONALISTA
di Alberto Rosselli
Prima di affrontare il tema inerente le strette connessioni tra impulsi nazionalisti turchi (passati ed attuali) e ideologia panturanista, occorre spiegare, brevemente, i molteplici significati del termine Turan, l’ antico nome con il quale i persiani chiamavano la regione asiatico-centrale.
Il filologo e orientalista tedesco Friedrich Max Müller (1823–1900), considerato da molti come il “padre della storia delle religioni”, dedicò gran parte dei suoi studi alla classificazione e alla comparazione delle dottrine, con particolare riferimento a quelle ariane e indiane. Al termine di lunghe ricerche, Müller giunse a teorizzare che era stato agli albori della storia dell’uomo che aveva avuto inizio il processo di intima connessione fra linguaggio, religione e nazionalità.
Partendo da questo presupposto, lo studioso tedesco creò una “classificazione genetica” delle religioni, criterio secondo il quale era possibile – almeno così egli sosteneva – fornire una solida base scientifica da cui partire per ulteriori e più approfondite analisi in materia. Di qui la classificazione delle tre grandi razze asiatiche ed europee: la turaniana (comprendente i popoli uralo-altaici), la semita e l’ariana, alle quali sarebbero corrisposte altrettante grandi famiglie linguistiche.
Secondo Müller, durante il periodo protostorico ciascuna di queste tre razze avrebbe formato un unico popolo che tuttavia, con il passare del tempo, si sarebbe frammentato in molti nuclei aventi altrettanti distinti idiomi. Ciononostante, lo studioso era convinto che, attraverso un’accurata ricerca, sarebbe stato possibile ritrovare l’unità etnico-culturale e religiosa delle origini. La principale caratteristica della metodologia di ricerca adottata da Müller risiedeva nell’analisi comparativa delle lingue, dalle quali egli cercò di estrapolare ed esporre similitudini di tipo religioso: il tutto attraverso l’identificazione di termini, ma anche credenze mitologiche comuni e alle varie etnie prese in esame.
A questo proposito, va ricordato che Max Müller riuscì ad ottenere i risultati migliori studiando la razza semita, mentre al contrario egli incontrò grossi ostacoli nel suo approccio con i popoli turanici, per i quali dovette accontentarsi di ipotizzare soltanto una “probabile” origine comune. I limiti del criterio classificatorio e comparativo adottato da Müller furono in seguito individuati in alcuni errori di base, primo fra tutti quello di avere dimenticato di prendere in considerazione l’elemento “storico” quale importante parametro di analisi dello sviluppo della cultura dei popoli. Tutto ciò a dimostrazione di quanto sia sempre stato difficile (e sia complicato ancora oggi) stabilire con esattezza l’origine dei popoli turanici e le eventuali analogie o differenze con altri gruppi.
In epoca contemporanea, il termine Turan (da cui deriva turanismo e panturanismo) oltre a designare peculiarità linguistiche ed etniche tipiche di popolazioni centro-asiatiche ha anche assunto un significato “ideologico”.
Nei testi sacri zorastriani iraniani dell’Avesta, l’aggettivo turya fa riferimento agli avversari dello zoroastrismo, anche se apparentemente non esisterebbero marcate differenze etniche tra i turya e gli arya citati nelle suddette scritture. Alcuni linguisti fanno derivare Turan dalla radice indo-iraniana tura (forte, veloce), mentre altri la collegano all’antico termine iraniano tor (scuro, nero). La somiglianza tra le parole turya e türk viene considerata accidentale dalla maggioranza degli studiosi che dubitano circa il fatto che turya stia ad indicare, in epoca pre sassadine, il popolo turco. Nel poema epico medio persiano Shahnameh, il termine turan (“terra dei Turya”, al pari di Eran, cioè Iran,“terra degli Arya”) fa riferimento ai popoli confinanti con la Persia orientale, cioè agli abitanti dell’impero kushano, entità statuale del I–III secolo d.C. i cui confini si estendevano dall’attuale Tagikistan al Mar Caspio, all’Afghanistan e alla valle del Gange.
A partire dall’inizio del XX secolo, la parola Turanvenne sempre più spesso utilizzata dagli occidentali e dai turchi per indicare genericamente l’area geografica corrispondente all’Asia Centrale. Gli etnologi e i linguisti europei dell’epoca romantica (in particolare quelli tedeschi, ungheresi e slovacchi) erano soliti utilizzare il termine turaniano per designare popolazioni che parlavano linguaggi uralo-altaici. Anche se, attualmente, questa accezione non viene ancora completamente condivisa dalla comunità accademica. Anche se a livello popolare è tuttavia diffusa la teoria secondo la quale sarebbe da attribuire un’origine comune agli idiomi utilizzati dalle popolazioni turche, mongoliche e ugri.
Le scoperte effettuate in questi ultimi anni grazie agli studi sul DNA hanno fornito una nuovateoria circa il significato etnico di Turan. Secondo i lavori pubblicati nell’aprile del 2004 dall’American Journal of Human Genetics, almeno il 70% di finnici, il 49% di sami, il 53% di udmurt, il 35% di lettoni, il 41% di lituani, il 20% degli evenchi della Siberia orientale, l’80% di yakut, il 47% dei buryat, il 40% di chukchi e circa il 60% di inuit occidentali porterebbero nel loro corredo cromosomico il così chiamato aploide N3, peculiarità che dimostrerebbe l’appartenenza ad un unico ceppo risalente a circa mille generazioni fa.
Per quanto concerne le interpretazioni date dagli studiosi europei, le parole turan e turaniano designerebbero, infine, anche una particolare “mentalità” (indice evidentemente caratteriale e ‘culturale’), cioè quella nomade, tipica delle popolazioni centro-asiatiche. Un’interpretazione in sintonia con quella zoroastriana di turja che non è principalmente una designazione linguistica o etnica, ma piuttosto un appellativo con il quale – come già accennato – venivano chiamati gli infedeli, cioè i popoli nemici di Zoroastro.
Secondo quanto riportato nel 1868 da J. W. Jackson in The Iran and Turan sulla Anthropological Review, dietro la “mentalità” turaniana si celerebbe addirittura un ancestrale e congenito ‘istinto’ di tipo razzista. “Il turaniano – sostiene infatti Jackson – è la personificazione del potere materiale; esso rappresenta l’individuo muscolare. Tutta la società turaniana è d’altra parte fondata sul mito della forza. Pur non essendo un selvaggio in senso lato, il turaniano è comunque un ‘barbaro’. E pur non vivendo alla giornata come una bestia, esso non possiede né le doti morali né quelle intellettuali che caratterizzano altri gruppi etnici [affermazione secondo il nostro parere piuttosto forte oltre che arbitraria, soprattutto se pronunciata da uno studioso dichiaratamente antirazzista come Jackson. N.d.A.]”. “Il turaniano – prosegue lo studioso – sarebbe in grado di applicarsi con profitto sul lavoro e di accumulare risorse, ma risulterebbe tuttvia incapace di elaborare concetti superiori [non ben chiariti, N.d.A.], come è d’uso invece per l’uomo caucasico. Esso risulta carente a livello sentimentale ed etico ed è più incline all’acquisizione della conoscenza pratica che non all’elaborazione di idee».
Detto questo, in questi ultimi anni, anche in Europa (Ungheria, in Finlandia ed Estonia), il panturanismo è stato riscoperto e abbracciato come dottrina positiva, soprattutto da alcuni partiti nazionalisti. Non di rado, infatti, il termine turaniano viene usato per indicare una forma di più vasto e omnicomprensivo nazionalismo pan-altaico, un movimento transnazionale che includerebbe popoli apparentemente dissimili, ma che discendono da un comune ceppo, come appunto i baltici, gli ungheresi, i turchi, i manciuriani, i giapponesi, i coreani e, ovviamente, i popoli dell’Asia Centrale.
Il panturanismo venne formulato come dottrina nella seconda metà del XIX secolo in Europa dall’orientalista, linguista, etnologo ed esploratore ebreo ungherese Arminius Vambery (1832-1913). Docente di lingue orientali dal 1865 al 1905 presso l’Università di Budapest, Vambery pubblicò numerosi testi nei quali riportò anche le sue esperienze di studio compiute in Asia. Va ricordato che il movimento turaniano (inteso anche come raggruppamento etnico) – in lingua turca Tûran cemiyti, e in lingua tartara Turan cämğiäte – era nato invece nel1839 in seno al popolo tartaro.
Secondola dottrina Vambery, la “nazione” turca non poteva essere limitata entro i confini anatolici in quanto la preponderante maggioranza dei popoli centro-asiatici era turcofona poiché vantava la stessa origine di quella anatolica proveniente anch’essa dall’antico Turan, area geografica e linguistica di cui abbiamo già parlato. Ragione per cui, secondo lo studioso magiaro “i popoli turchi avrebbero avuto diritto di formare una grande entità politica compresa tra i Monti Altai e il Bosforo”.
Ma a questo punto occorre però rammentare che, secondo diversi studiosi, Vambery – che fu agente al servizio del governo britannico impegnato, a partire dalla metà del XIX secolo, nel tentativo di bloccare un’espansione russa in direzione dell’Afghanistan, della Persia e dei Dardanelli (mossa che rientrava nel ‘Grande Gioco’) – avrebbe avuto per così dire i suoi interessi nel sostenere la tesi panturanista. Tesi che, nel 1894, venne anche ripresa dall’orientalista e linguista francese David Léon Cahun (1841-1900), in occasione della sua partecipazione e consulenza alla stesura dell’importante trattato di cooperazione economica e militare franco-russo del 18 agosto 1892.
Tra la seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX, il panturanismo si sviluppò ulteriormente trasformandosi in una vera e propria corrente di pensiero che trovò molti adepti non soltanto in “Tartaria” o in Anatolia, ma anche – come si è accennato – tra talune popolazioni europee e asiatiche che vantavano antiche radici turaniane. Nel 1910, nacquela Società Turaniana Ungheresee nel 1920 l’Alleanza Turaniana d’Ungheria, seguita poi, nel 1921, dall’Alleanza Nazionale Turaniana giapponese (divenuta nel 1930 Società Turaniana Giapponese). Fino ad arrivare – come abbiamo avuto già modo di spiegare – ai giorni nostri, con la nascita spontanea di movimenti turaniani bulgari, prussiani, estoni e finlandesi.
Come si è visto, a differenza del panturchismo, il panturanismo non comporterebbe l’unità delle sole genti che risiedono entro i confini dell’attuale Turchia, ma quella di tutti i popoli turco-altaici. E proprio per questa ragione non pochi studiosi sono soliti sovrapporre il termine panturanico a quello panaltaico.
Tra i più noti sostenitori della teoria panturanica vi furono Ahmet Ağaoğlu (1869-1939, uomo politico, giornalista e scrittore turco), Yūsuf Akçuraoğlu (1879-1933, scrittore, pubblicista e uomo politico turco) e la scrittrice turca Khalide Edip Adïvar (1883-1964).
All’inizio del Novecento, Ahmet Ağaoğlu, uno dei capi del movimento nazionalista turco, fondò i giornali Vita e La giusta via, pubblicò numerose opere sulla riforma della società e dello stato turchi, e in seguito fece parte del Comitato Unione e Progresso e del Movimento dei Giovani Turchi, diventando poi membro della Grande Assemblea Nazionale. Insieme con Yūsuf Akçuraoğlu, un tartaro-turco del Volga, egli si batté per l’ideale panturanico, ma le sue speranze rimasero disattese dopo la morte del leader ottomano Enver Pascià (1922) di cui parleremo più avanti.
Yūsuf Akçuraoğlu, emigrò ancora fanciullo a Istanbul dove studiò presso la locale Scuoladi Guerra. Esiliato a causa della sua attività politica giudicata sovversiva, aderì anch’egli al movimento dei Giovani Turchi. Rientrato in Russia, egli continuò a fare propaganda proselitismo fra le comunità tartare della regione di Kazan e della Crimea. Nel 1903, pubblicò l’opuscolo I tre modi della politica, un’opera ritenuta fondamentale per la comprensione del movimento panturanico. Nel 1908, in seguito alla concessione della costituzione da parte del sultano turco Abdul Hamid II, entrò a fare parte della Grande Assemblea Nazionale. Khalide Edip Adïvar concretizzò invece il suo impegno politico soprattutto attraverso la narrativa. Il romanzo Il nuovo Turan (1912), ispirato al dibattito sul panturchismo o panturanismo, fu uno dei primi e più significativi esempi di letteratura politica del primo Novecento. Nell’autunno del 1918, alla caduta dell’impero ottomano, dopo una breve adesione alla Lega Wilsoniana, Khalide Edip Adïvar si unì al movimento nazionalista capeggiato da Kemal Atatürk che ella seguì in Anatolia in concomitanza con lo scoppio del conflitto greco-turca del 1920-1922. Esperienza che in seguito ella descrisse nel romanzo La camicia di fuoco (1923).
Già a partire dai primi del Novecento, la Germania del kaiser Guglielmo II cercò di strumentalizzare il panturanismo soprattutto in funzione antibritannica: politica che Berlino perseguì poi con ulteriore determinazione con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Per la precisione, tra il 1914 e il 1918, la Germania utilizzò ampiamente sia la retorica panturanista che quella panislamica per minare la solidità dell’impero coloniale inglese, senza tuttavia ottenere i risultati sperati, tra questi anche una generale sollevazione dei sudditi musulmani dell’impero britannico. Il 14 novembre 1914, il sultano di Costantinopoli, nella sua veste di Califfo, proclamò infatti la Guerra Santa(Jihad) contro tutti i Paesi ostili alla Turchia. Ma questa sua solenne dichiarazione non impressionò né gli inglesi, né i più accorti osservatori tedeschi. In una sua corrispondenza privata, l’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, Hans von Wangenheim, si dichiarò infatti molto scettico, osservando che “la Jihad avrebbe convinto soltanto una piccola parte dei mussulmani sparsi per il mondo a schierarsi con gli imperi centrali”. Profezia destinata a rivelarsi esatta.
Il panturanismo e il Movimento dei ‘Giovani Turchi’
All’inizio del XX secolo, il panturanismo, inteso come ideologia nazionalista, venne abbracciato dal Movimento dei Giovani Turchi impegnato nell’opera di modernizzazione e rafforzamento dell’ormai traballante impero ottomano. L’intento dei Giovani Turchi e di altre sette nazionaliste ottomane era quello di ‘occidentalizzare’ e ridare compattezza etnico-religiosa e politica all’impero e – contrariamente a quanto era stato tentato dai sultani tra il XIV e il XVII secolo – di estenderne nuovamente i confini in parte ad ovest, cioè verso i Balcani e l’Europa, ma anche in direzione delle regioni centro-asiatiche del mitico Turan.
A questo proposito, lo scienziato della politica Samuel Huntington, nel suo noto libro, Lo scontro delle civiltà, avvalora e giustifica di fatto questa ambizione, indicando proprio nella Turchia “il possibile stato-guida del mondo islamico, soprattutto centro-asiatico”. Eventualità, questa, che se dovesse verificarsi, potrebbe allontanare l’Anatolia dal Vecchio Continente. Pur continuando a rivolgersi principalmente all’Europa, il primo ministro turco Erdogan sembrerebbe intenzionato a giocare una difficile partita su due tavoli, per preservare gli interessi filo-occidentali di parte dell’élite di governo, per non scontentare il “ventre” islamico del Paese e per non mettersi contro l’esercito, custode del laicismo ataturkista. Da una parte egli desidera, infatti, continuare a puntare su Bruxelles, mentre dall’altra egli lavora per trasformare il suo paese in un nuovo “califfato panturanico” moderno (si consideri il sostegno da lui dato nel maggio 2007 alla candidatura presidenziale di un elemento legato all’ala religiosa governativa, il ministro degli Esteri Abdullah Gul, fortemente avversato dai militari), ma al contempo sensibile nei confronti delle revanches del variegato mosaico islamico mediorientale.
Come ha bene illustrato il professore Alessandro Grossato, docente di Storia ed istituzioni dell’Asia Meridionale presso l’Università di Trieste e Gorizia, oggi come oggi, soprattutto in vista dei nuovi accordi internazionali per la creazione di grandi oleodotti che dovrebbero dirottare l’oro nero dall’Asia Centrale all’Anatolia, la Turchia potrebbe accelerare ulteriormente un processo di penetrazione anche politica e ideologica in quest’area strategica, giocando magari sui disaccordi esistenti tra le altre potenze (Cina, Russia, Stati Uniti): ipotesi che, tuttavia, Erdogan – attualmente impegnato nella difficile lotta per non essere scalzato dai militari laicisti – sembra essere intenzionato a ‘mimetizzare’.
Pur vantando origini relativamente antiche, il panturanismo rappresenta ancora oggi un fondamentale aspetto dell’ideologia del Milliyetçi Hareket Partisi (o MHP, Movimento di Azione Nazionale), e specialmente della fazione ultranazionalista dei Bozkurtlar (i Lupi Grigi) denominazione che si rifà ad una antica leggenda, quella della lupa Asena, considerata il simbolo dell’antico popolo altaico. Acceso sostenitore dell’ideale panturanico è anche un altro gruppo ultranazionalista e xenofobo, il Nizami Alem (l’Ordine dell’Universo), noto per avere fornito sostegno in funzione anti-russa agli indipendentisti ceceni e per essere legato alle organizzazioni fondamentaliste islamiche libanesi.
Effettivamente, negli anni Novanta, il panturanismo ha giuocato un ruolo piuttosto significativo nell’ispirare i primi capi della ribellione cecena contro il governo centrale di Mosca, anche se in seguito questo movimento separatista ha preferito spostarsi su posizioni jihadiste, legandosi ad organizzazioni fondamentaliste più vicine ai talebani afghani e ad Al-Qaida, la già citata e ben nota organizzazione terroristica di Osama Bin Laden. In precedenza, negli anni Settanta, a scoprire e ad utilizzare in funzione antisovietica lo “spirito panturanico” erano stati gli USA, e nella fattispecie l’entourage del presidente statunitense Jimmy Carter che si fece promotore di una crociata sotterranea a favore della rinascita panturanica: scelta dichiaratamente antirussa, poi perseguita da tutti gli altri leader della Casa Bianca, fino ad arrivare a George Bush senior.
È ormai noto come tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso – in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, successivamente, nel contesto della rivolta antimoscovita cecena -la CIAabbia appoggiato in maniera decisa sia i movimenti musulmani panturanici sia quelli jihadisti. E come successivamente la politica filoturanica del presidente George Bush abbia contribuito a rafforzare i legami di amicizia tra Washington e le repubbliche centro-asiatiche, sia in funzione antirussa, sia, questa volta, in funzione antifondamentalista islamica.
A questo proposito, gli americani – stando ai loro convincimenti – avrebbero scelto la carta panturanica (e quindi filoturca) come mezzo per tentare di immunizzare una parte del mondo islamico dal “contagio” di Al-Qaida, impegnata nella lotta armata contro l’Occidente e i governi musulmani apparentemente o realmente filo occidentali (come quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Egitto e Turchia). L’intento di Washington era quello di porre un argine (anche attraverso una politica filo panturanica e filo panturchista) ad un fenomeno politico-religioso che nella sua dimensione in quanto transnazionale sembra ormai avviato verso un’evoluzione globalizzatrice, coinvolgendo non tanto le istituzioni governative, ma soprattutto le masse diseredate del multiforme pianeta islam. Come ha giustamente annotato la studiosa Valeria FioraniPiacentini. “Se si esamina il mondo musulmano nel nuovo contesto neo-fondamentalista, si può evincere che negli anni immediatamente successivi alla fine del bipolarismo USA-URSS la vera minaccia alla sicurezza dell’islam nasceva non tanto dall’esterno – ossia da una possibile aggressione dell’Occidente – quanto dall’interno, ossia dall’islam stesso. (…) Il fenomeno del colonialismo tradizionale si era concluso nel 1991 con la disintegrazione dell’impero sovietico e la nascita delle nuove entità statuali caucasiche e centro-asiatiche. Uno scenario che lasciava intravedere uno scontro a livello di concezioni di statualità fra loro incompatibili all’interno dello stesso pensiero politico-strategico dell’islam. Da un lato si schierarono gli establishment sostenuti da una o altra potenza occidentale; dall’altro, si poneva una fascia d’opposizione non compartecipe al potere ma compartecipe del sapere tecnologico e delle tecnologie più avanzate di questo potere. Nel mezzo, stavano le ondeggianti masse dei diseredati, degli illusi, dei miserabili aggrappati alle certezze del sapere tradizionale”.
L’ingresso nel nuovo millennio ha messo quindi le leadership dei paesi musulmani di fronte alla necessità, non più procrastinabile, di adeguare i propri sistemi di potere a fronte dell’incalzare dei modelli occidentali: una situazione che di fatto li ha però posti fra l’incudine e il martello. L’incudine rappresentata da un islam risorgente e insorgente che ha accesso alle tecnologie del nuovo millennio e che gode del sostegno delle masse, e il martello rappresentato da un processo di modernizzazione secolarizzante imposto dall’esterno, si veda il “modello turco”. In questo contesto, il rischio è rappresentato da una serie di rivoluzioni fondamentaliste a catena. E il tutto nonostante l’esistenza, vedi la Turchia, di modelli istituzionali di stampo “occidentale”.
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