Un libro di Primo Siena sulla perestroika dell’ultimo Mussolini

 

La perestroika dell’ultimo Mussolini

Un libro di Primo Siena sulla perestroika dell’ultimo Mussolini

di Giuseppe Parlato

I movimenti che hanno segnato la storia della destra italiana sembrano avere un tratto in comune: la scarsità di intellettuali al proprio interno. Questo è quello che appare a una superficiale analisi della situazione della destra e questo è quello che normalmente si dice della destra. Erede di un fascismo dipinto tutto muscoli e zero cervello, il Movimento sociale non segue sorte migliore. E’ stato identificato come un movimento semi terrorista (se non terrorista del tutto) nel quale i dirigenti e i militanti sono esattamente quali appaiono nel famoso film Vogliamo i colonnelli, tra velleità golpiste e folklorismi nostalgici.

Del resto, sebbene non si possa dire che intellettuali in questo partito non ce ne siano mai stati, è vero invece che il loro ruolo nel Movimento sociale è stato spesso sacrificato alla ragion politica: non è un caso che personaggi come Giano Accame, Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi, Gaetano Rasi, Giuseppe Tricoli, Marco Tarchi, Marcello Veneziani – sono per citare i più noti – si sono trovati spesso in difficoltà nel partito, se non addirittura costretti ad andarsene.

Il caso di Primo Siena, modenese trapiantato a Verona, classe 1927, è sicuramente emblematico.

Giovanissimo riuscì a militare nella Rsi arruolandosi nel 1° battaglione volontari bersaglieri “Benito Mussolini” e combattendo sul confine orientale; prigioniero nei terribili lager jugoslavi, fu rimpatriato nel novembre 1945 e aderì, dopo una breve permanenza nell’ “Uomo Qualunque”, nel marzo 1947 al Movimento Sociale italiano.

Il suo ruolo nella Fiamma veronese fu attivistico, come si conveniva a un giovane di vent’anni, ma sempre mirato a realizzare una sintesi fra pensiero e azione. Fautore della socializzazione e delle istanze sociali della sinistra neofascista, passò poi ai “figli del Sole”, gli evoliani, per poi trovare una sintesi tra Evola e Gentile nella tradizione cattolica.

Un percorso, quello di Siena, che ha pochi imitatori nel Msi: difficilmente un evoliano diventava gentiliano (in genere succedeva il contrario) e ancora più difficilmente dalla tradizione paganeggiante si riusciva a giungere a quella cattolica, soprattutto attraverso la lezione del filosofo di Castelvetrano.

Siena, all’indomani della caduta del fascismo – al di là del naturale e ovvio spirito di rivalsa che diede corpo a una nostalgia che non abbandonò mai questa comunità umana – cercò soprattutto di comprendere, in primo luogo, come si poteva essere “fascisti in democrazia”. Si trattava praticamente di un ossimoro: il fascismo era nato grazie alla crisi del sistema liberale e ben presto aveva fatto tranquillamente a meno di elezioni e di parlamenti.

Ora invece i fascisti dovevano decidere se partecipare al gioco politico, e quindi accettare le regole della democrazia, ovvero continuare un’azione clandestina ed eversiva mirante a rovesciare il sistema politico per riprendere il potere con la forza. Non scelsero quest’ultima opzione, forse anche perché non avevano la forza sufficiente per sostenerla. Sta di fatto che Siena non si accontentò del sentimento comune del neofascismo, quello secondo il quale era opportuno “approfittare” della democrazia che permetteva qualche risicato spazio di libertà, per proporre un modello politico che, per quanto ben poco meditato nella base e nel vertice, era comunque agli antipodi del sistema democratico.

Siena cercò di impostare una prospettiva politica che conciliasse i valori espressi dal fascismo con il clima del dopoguerra. Non era cosa assolutamente facile, anche perché Siena era ben convinto che non esistesse un solo fascismo dal punto di vista culturale (e le divisioni interne del Msi anni Cinquanta e Sessanta lo stavano a dimostrare), ma parecchie interpretazioni del fascismo: sinistra sociale, rivoluzionari antiborghesi, moderati di destra, cattolici, ghibellini, conservatori, reazionari, ecc. Fra tutti, Mussolini, che cercava di mediare senza proporre, come per i totalitarismi europei dell’epoca, un solo modello “ufficiale”, ma diverse opzioni di fascismo che faceva prevalere o decadere sulla base delle esigenze della sua visione pragmatica della politica.

Siena cercò, quindi, un modello che potesse, da un lato, evitare l’inquinamento della dottrina fascista con altri modelli incompatibili, e dall’altro evitare l’arroccamento su posizioni “altre” dalla politica, velleitarie quanto falsamente coerenti ed identitarie. Nascevano così due tra le più  importanti riviste del neofascismo, “Cantiere” e “Carattere”, che dimostrarono una inusuale vivacità culturale. La prima riuscì addirittura a proporre nell’ambiente un po’ semplicistico della cultura neofascista (dove campeggiava il solo Gentile, ma semplicemente perché era morto ucciso dai partigiani in Rsi), nientemeno che una discussione su Emmanuel Mounier, il teorico del personalismo che fino alla guerra di Spagna aveva speso più di una parola a favore del fascismo sociale, mentre dopo manifestò una posizione fortemente antifascista, che tuttavia non gli impedì contatti con Pétain. “Cantiere” durò meno di tre anni, dal 1950 al 1953; due anni dopo, Siena riprendeva con “Carattere”, la rivista diretta insieme con Gaetano Rasi, l’animatore, negli anni Settanta e per oltre vent’anni, della “Rivista di studi corporativi”. “Carattere”, che durò per otto anni, fino al 1963, svolse una importante funzione politico-culturale all’interno di quel filone di pensiero che poneva il cattolicesimo come nuovo riferimento culturale per la destra del Msi. Per Siena, infatti, se si voleva uscire dal paganesimo evoliano o dalle nostalgie dittatoriali o totalitarie che erano tutt’altro che assenti nell’ambiente missino, occorreva ancorarsi profondamente al messaggio cattolico. Vi era, in questa scelta, la consapevolezza, in primo luogo, che il cattolicesimo  aveva gli stessi nemici del fascismo: il liberalismo individualista e il collettivismo; inoltre aveva una visione spiritualistica della vita; infine la dottrina sociale cristiana, attraverso il corporativismo, poneva la questione dei corpi intermedi, del valore delle categorie, della necessità che lo Stato fosse presente ma non sovrastante, come certe teorie di Ugo Spirito raccomandavano. Insomma, non era la stessa cosa del fascismo, ma per certi versi vi era più di un punto in comune. Naturalmente, tutto ciò faceva agio sul  fatto che i collaboratori delle due riviste, a cominciare da Primo Siena, erano effettivamente dei cattolici, e non solo per visione politica. Il filone cui si è accennato, quello dei cattolici che negli anni Cinquanta e Sessanta così interpretarono il loro essere fascisti in democrazia, non è mai stato studiato davvero: occorrerebbe parlare del gruppo dei cattolici che gravitavano in questo ambiente, prevalentemente ligure, da Giano Accame a Piero Vassallo, da Roberto Melchionda a Fausto Belfiori, da Gianfranco Legitimo a Fausto Gianfranceschi, da Sergio Pessot a Franco Accame, il cugino di Giano. Questo gruppo aveva in Ernesto De Marzio un punto di riferimento politico e il deputato pugliese aveva dato a questo gruppo altre possibilità di emergere culturalmente: la rivista “Dialoghi” di Nicola Francesco Cimmino, i Centri di Vita Italiana di Gianfranceschi e Accame, fino all’Istituto Nazionale di Studi Politici ed Economici di Nino Tripodi. Erano, tutte queste esperienze, appoggiate dal segretario del Msi, Arturo Michelini, il quale aveva individuato strategicamente questo filone cattolico e nazionale come il più intelligente modo per uscire dal nostalgismo fascista e per inserirsi nel gioco politico. Naturalmente, condizione perché ciò avvenisse era l’accettazione sincera e consapevole delle regole della democrazia; Siena fu tra i primi ad affrontare questo delicato e tutt’altro che scontato problema, sostenendo l’accettazione della democrazia come metodo ma non come finalità: era la posizione della dottrina sociale cristiana, di quella linea culturale che ebbe da mons. Ronca a Luigi Gedda, da Nino Badano a Gianni Baget Bozzo esponenti di evidente prestigio.

Questa lunga premessa biografica su Primo Siena è indispensabile per comprendere appieno il libro che Siena ci presenta oggi. Perché, in realtà, al di là dei contenuti – che sono variamente interpretabili e dei quali comunque si dirà appresso – questo libro costituisce un punto nodale (non dico d’arrivo, perché nei percorsi intellettuali non vi sono stazioni d’arrivo ma solo di transito) della riflessione di Primo Siena.

La domanda più semplice e più evidente che sorge spontanea – e che Siena sicuramente si è posto – in merito al percorso di un neofascismo che individua il cattolicesimo come “nuovo assoluto” rispetto ai miti del regime è questa: ma se il neofascismo deve ricorrere al cattolicesimo per “assimilare” il fascismo nella storia d’Italia, allora vuol dire che vi è comunque una cesura tra fascismo e neofascismo in ordine alla prospettiva culturale. Il fascismo non si poneva il cattolicesimo come punto d’arrivo. In questo caso allora il neofascismo di Siena e dei suoi amici risulterà qualcosa di diverso dal fascismo originario.

Con questo libro, Siena cerca di fare quadrare i conti. Il neofascismo, inventandosi cattolico, non si allontana dal fascismo perché nel fascismo, in particolare nell’ultimo Mussolini, vi è chiara una evoluzione in senso democratico e cattolico. Una perestroika, appunto.

L’interpretazione che Siena dà della Repubblica Sociale può essere variamente condivisa e discussa. Personalmente non tutto mi convince alla stessa maniera, ma nel complesso la “provocazione” è assai stimolante e merita una analisi.

Secondo Siena, nella Repubblica Sociale vi sono pulsioni e spinte verso una inarrestabile evoluzione del fascismo, da fenomeno dittatoriale a democrazia organica. Il termine, che lo stesso Siena utilizza spesso, è di per sé ambiguo, come ogni aggettivazione del termine “democrazia”. La democrazia organica è quella delle esperienze austriache alla Dollfuss o di quelle salazariane in Portogallo, o di quelle spagnole franchiste: si tratta di una adesione alla dottrina sociale cristiana, secondo la quale la democrazia liberale è insufficiente a realizzare una effettiva e consapevole partecipazione per cui è necessario integrarla con alcuni accorgimenti non solo tecnici: ad esempio, il voto differenziato, il ruolo politico dei corpi intermedi, la rappresentanza specifica – almeno affiancata a quella politica – delle categorie: un corporativismo, insomma, che, uscito dal cono d’ombra della dittatura, possa rappresentare una diversa democrazia, appunto “organica”, dove organico sta a significare un organismo nel quale tutto sia finalizzato a un obiettivo etico e nazionale.

La domanda è se Mussolini in Rsi volesse effettivamente questo. Forse sì, per certi versi. Effettivamente la puntuale analisi dei progetti costituzionali, ai quali Siena dà giustamente una determinante importanza in ordine al lascito del capo del fascismo verso il futuro, porta indubbiamente verso questo tipo di considerazioni, anche se un forte antisemitismo e il ruolo non chiarito dei vari organi dello Stato non dà l’idea di un percorso effettivamente concluso. Ma forse la nostra sensibilità oggi è diversa e stupisce vedere la singolare rassomiglianza dei progetti fascisti della Rsi con quelli dell’azionista Galimberti. Occorre tuttavia tenere presente che Mussolini propone (e ci crede) la Costituente nella quale vi sono timidi ma evidenti aperture al pluralismo politico; ma la Costituente affonda poco dopo la nascita della Rsi, travolta, come l’esercito e come la socializzazione, dalla situazione politica interna , dalla guerra civile e soprattutto dalla diffidenza tedesca. Questo “dettaglio”, in realtà, costituisce un punto a favore della tesi di Siena: Mussolini avrebbe potuto benissimo non imbarcarsi nei logoranti tentativi di varare la Costituente e procedere a una gestione di emergenza; invece, la Costituente e i progetti costituzionali appaiono come una sorta di testamento politico.

Il ruolo cattolico della Rsi è segnalato attraverso il movimento “Crociata Italica” di don Tullio Calcagno: si tratta di un’analisi corretta e interessante, nella quale l’unico punto di domanda è dato dall’effettivo ruolo di questo movimento, tra il politico e l’ecclesiale, in merito al quale la gerarchia ecclesiastica si è sempre posta in termini assolutamente negativi.

Una delle domande che si possono porre a Primo Siena consiste nel chiedersi se l’evoluzione che l’Autore descrive si sarebbe realizzata anche se Mussolini non fosse stato “costretto” dagli eventi e dai tedeschi ad andare a Salò. Questi elementi, che Siena individua e attorno ai quali costruisce la sua interpretazione del fascismo, fanno parte di una naturale evoluzione già iniziata durante il regime ovvero sono il frutto della drammatica e per certi versi disperata contingenza di Salò?

E’ indubbio che la Rsi abbia costituito un momento di forte ed accesa critica nei confronti del regime e di certi atteggiamenti cesaristici e dittatoriali; sicuramente, l’esito di vent’anni di regime a fronte della dissoluzione dello spirito pubblico l’8 settembre poneva sicuramente ai giovani che scelsero Salò qualche problema nel formulare un giudizio complessivo sul fascismo. Che in Rsi si discutesse di più che negli anni precedenti e che tali discussioni fossero anche fortemente corrosive e dirette verso le istituzioni e lo stesso duce è altrettanto fuor di dubbio. Lo ammette lo stesso Mussolini in una lettera a Clara Petacci, allorché nota come i giornalisti in Rsi si permettono toni e critiche che neppure gli antifascisti dopo il 25 luglio si sarebbero permessi.

Peraltro, in molti fascisti vi fu netta la sensazione che in Repubblica sociale si sarebbe dovuti andare a prescindere dalla stessa figura di Mussolini: “se anche al posto di Mussolini ci fosse stata Greta Garbo, sarebbe stato lo stesso”, commentava in maniera non troppo paradossale Mario Gandini.

Ciò sta a significare che l’esito negativo del conflitto e la fine del regime avevano posto in discussione non soltanto alcuni aspetti del fascismo ma addirittura  lo stesso problema della rappresentanza che il fascismo aveva impostato. Secondo il regime mussoliniano, infatti, la democrazia liberale andava superata da un rapporto “organico” tra popolo e nazione secondo il quale lo Stato avrebbe assimilato progressivamente tutte le componenti popolari in un unico blocco. Il problema era rappresentato dal meccanismo con cui ciò sarebbe avvenuto: ridurlo alla semplice sintesi operata dal duce, in Rsi appariva insufficiente. Per altro, l’esito delle Corporazioni, ridotte a mere commissioni consultive, lo stava a dimostrare.

I fascisti repubblicani, quindi, pensarono che forse si sarebbe dovuto individuare un meccanismo rappresentativo più consono; tuttavia, le resistenze alla possibilità di introdurre timidi esperimenti di pluralismo furono molte e autorevoli. La fine che fecero i giornalisti che sostenevano la necessità del pluralismo è nota: De Agazio fu arrestato e finì per un certo periodo in galera, Borsani, Pettinato, Mirko Giobbe ebbero dei problemi: Mezzasoma e Almirante nel Ministero della Cultura Popolare, Pavolini e Romualdi al partito erano tutt’altro che disponibili ad aprire alla pluralità delle opinioni e ancor meno a vederla istituzionalizzata.

Si può dire, quindi, che in Rsi si scontrarono due concezioni, tra le tante. Una, composta soprattutto da elementi giovani e intellettualmente avanzati, riteneva esaurito il ciclo dittatoriale del fascismo e auspicava di potere tornare alla dinamica della democrazia rappresentativa con accorgimenti tali da non farla ricadere nella democrazia liberale (la “democrazia organica” di cui parla Siena). Dall’altra parte, però, vi era una forte componente – aiutata dai tedeschi – che si opponeva a ogni apertura di libertà, con obiettivi diversi: da chi lo faceva per non irritare l’alleato (Farinacci) a chi riteneva il partito fascista repubblicano un “ordine di credenti e di militanti” e quindi indisponibile al gioco del pluralismo (Pavolini).

Fu un passo aventi rispetto al fascismo, tale da predisporre le condizioni per una piena accettazione dell’idea di libertà e di democrazia, che poi avvenne nel Msi? Non si possono mai dare risposte univoche a livello storico a siffatte domande, non essendo né il fascismo regime, né quello della Rsi e tanto meno il neofascismo del Msi qualcosa di monolitico. Tuttavia, il fatto che in tutti e tre i momenti vi sia sempre stato un acceso dibattito politico, almeno a livello giornalistico, e non vi sia mai stata una vera ortodossia ideologica di partito, da un lato rappresenta il lato debole, a livello culturale,  del fascismo storico italiano, ma dall’altro conferma l’estraneità concettuale alla categoria del totalitarismo e la sua possibilità di adattarsi a situazioni diverse.

Il libro di Primo Siena, condotto con rigore documentario e assoluta e dichiarata consapevolezza di parte (il che, da solo, è già un elemento di garanzia) costituisce un utile strumento di riflessione su una serie di aspetti che la storiografia ha trascurato, preferendo mettere l’accento sugli elementi che avvicinavano l’esperienza repubblicana al rapporto militare e politico con la Germania nazista. Infine, come si è cercato di chiarire all’inizio, questo libro è il punto centrale di un percorso di ricerca non soltanto personale sul ruolo del neofascismo in democrazia e quindi, anche da questo punto di vista, costituisce un elemento di riflessione e di discussione di assoluto interesse nella ricerca storica sul neofascismo.

In ogni caso, d’accordo o meno che si possa essere su tutto quello che Siena propone, occorre sottolineare che raramente un’analisi siffatta proviene da chi ha militato in un movimento per un trentennio; in genere, l’ex militante tende a sopravvalutare il mondo nel quale è vissuto. Siena, che oltre ad essere stato militante è un raffinato intellettuale, sa bene che la prospettiva storica nella quale occorre porsi per uscire dalla memorialistica e dare un contributo alla storia, comporta il famoso “passo indietro”, quel recul che i francesi raccomandano quando si osserva un quadro. Siena mostra ampiamente di averlo fatto e ciò costituisce una lezione di stile e di metodo  per molti giovani che si accingono alla storia mantenendo l’animus del militante.


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