LA STORIA NON E’ UN FILM

COVER SV. N.8

LA STORIA NON E’ UN FILM

 di Marco Cimmino

 Il titolo di questo nostro intervento di apertura è un necessario omaggio a Bruno Pampaloni, autore del saggio (La storia non è un film, Settimo Sigillo, Roma, 2009) sul rapporto tra storia e cinema o, meglio, tra storia taroccata e cinema, da cui non si può prescindere, se si affronta questo delicato argomento. Certo, Pampaloni è più esperto del sottoscritto in materia, tuttavia l’ambito del suo lavoro è, in un certo senso, circoscritto. Cercheremo, quindi, nei limiti della nostra poca scienza, di estenderlo e, in un certo senso, di trasformarne i dati in postulati. Il rapporto tra arte e potere e tra potere e storiografia esiste da sempre e perciò si dovrebbe poter trovare un filo conduttore nel rapporto tra cinema e guerra. Speriamo di riuscire a dimostrare che questo rapporto si fonda su molti luoghi comuni, da sfatare e su qualche intreccio d’interessi non sempre chiarissimo al pubblico. Non ci piace l’odore del napalm al mattino: non è, infatti, odore di vittoria, ma soltanto puzza di petrolio bruciato. Allo stesso modo, forse per deformazione professionale, non amiamo molto le frasi storiche, le scene madri, i momenti topici. La storia è, quasi sempre, molto più banale di quanto comunemente si creda: nel bel mezzo di una battaglia, un generale, il più delle volte, suda, sbraita e bestemmia. Gli addii sono brevissimi, e dolorosamente muti. Il momento chiave, lo Schwerpunkt, passa senza che se ne percepisca l’importanza, e sono gli studiosi che, solo in un secondo tempo, lo indicano all’attenzione della gente. Per questa ragione, la storia si presta pochissimo alla spettacolarizzazione: perfino la saggistica risente di questa situazione ed anche gli storici più quotati devono lottare contro la tendenza a rendere gli eventi più esteticamente gradevoli. Eppure, il cinema è da sempre terreno prediletto per la descrizione di guerre, battaglie e rivoluzioni armate. E la cosa si spiega facilmente. Su cento pellicole di guerra che compaiano nelle sale, una percentuale minima descrive avvenimenti militari con qualche richiamo alla realtà, mentre tutte le altre si limitano ad applicare la regola manzoniana della verosimiglianza. Ossia, non descrivono le cose ricostruendole filologicamente, ma si adoperano per rappresentarle come la gente può immaginare che siano: il che equivale all’operazione per cui ne “I promessi sposi”, un filatore ed una contadina brianzoli del XVII secolo parlano la lingua di un avvocato fiorentino del XIX, senza che il lettore ne provi il minimo fastidio. Il primo postulato che dobbiamo porre, circa il rapporto tra guerra e cinematografia, quindi, è che un film di guerra non andrebbe giudicato per come ricostruisca gli episodi storici cui fa riferimento, ma per come sia in grado di suscitare sentimenti e riflessioni nello spettatore. Insomma, un film di guerra è un’opera sostanzialmente epica, e come tale va giudicato. A nessuno, d’altra parte, verrebbe in mente di contestare ad Omero una scarsa adesione alla realtà, per aver descritto dei duelli tra Achei e Troiani in cui intervenivano gli dei accanto ai combattenti. Pertanto, le critiche un tantino sussiegose di taluni nostri colleghi a pellicole di argomento bellico, che a detta loro, non corrispondono strettamente alla realtà dei fatti, risultano decisamente fuori bersaglio: come scrisse di sé Curzio Malaparte, in certi casi non dobbiamo chiederci se una cosa è vera, ma semplicemente se è arte. Questo, naturalmente, vale nel caso in cui un regista non dichiari apertamente il suo intento annalistico, perché, in questo frangente, il discorso che si deve affrontare diventa giocoforza diverso. Qualora un film abbia la pretesa di riprodurre documentaristicamente un evento bellico, state pur sicuri che il suo autore o è in malafede o soffre di ipertrofia dell’ego. Spesso, di entrambi. Ma facciamo un esempio, tanto per sgombrare il campo da equivoci: Ne “La notte di San Lorenzo”dei fratelli Taviani, si descrive, senza alcun filtro dubitativo, un episodio della seconda guerra mondiale, in cui numerosi civili fiorentini perirono per un’esplosione, dopo essersi rifugiati nella chiesa di San Miniato. I Taviani, in ossequio alla vulgata, che vorrebbe i cattivi tutti da una parte ed i buoni dall’altra, spiegano allo spettatore che la strage fu determinata da una perfida azione dinamitarda tedesca. La cosa ci potrebbe stare: in quel conflitto, si assistette a numerosi eccidi causati da ordigni, messi a bella posta in luoghi affollati di civili, e collocati dai vari contendenti. Notorio è l’episodio delle mine, messe dai partigiani sulla spiaggia di Fiume, quelle che uccisero decine di bagnanti. Peccato che la strage di San Miniato venne determinata da una granata di medio calibro statunitense, che colpì, accidentalmente, la chiesa. Il fatto è, ormai, acclarato, con tanto di ammissione di responsabilità da parte americana. Nonostante questo, il film dei Taviani viene riproposto tranquillamente al pubblico, specialmente, quello studentesco, come se si trattasse di un documentario e non di una clamorosa contraffazione della storia; per intenderci, è come se si proiettasse una pellicola in cui si raccontasse che Auschwitz era un campo di sterminio britannico. Per converso, quando Spike Lee ha girato il suo “Miracolo a Sant’Anna”, con intenti dichiaratamente narrativi e fantastici, è stato subissato di critiche per aver stravolto la storia della celebre strage nazista, adombrando responsabilità dei partigiani nell’averla scatenata. Da una parte, dunque, c’è l’invenzione spacciata per realtà, dall’altra, viceversa, l’accusa di irrealtà blasfema nei confronti di una storia che non voleva essere altro che una favola. Quindi, di fronte alla cinematografia di guerra, è bene tenere gli occhi aperti ed essere sempre molto scettici, nei confronti dei soggetti a tema; non dimenticarsi mai, che, nel bene o nel male, quali che siano le dichiarazioni del regista, si è sempre di fronte ad un’opera di fantasia.

Detto ciò, conviene aggiungere che la cinematografia, almeno in Italia, si dedicò assai precocemente alla spettacolarizzazione, sia documentaria che apologetica, della guerra. Il primo conflitto cui si dedicarono metri di pellicola fu quello italo-turco, di cui esistono diversi spezzoni, soprattutto dedicati allo sbarco delle truppe: già in questo caso, tra l’altro, furono girate alcune scene di simulazione di combattimenti, ad evidente scopo propagandistico. D’altronde, l’ingombro e la scarsa efficienza delle macchine da presa rendeva assai problematica la ripresa dal vivo di azioni militari. Fu nella Grande Guerra che il cinema e il combattimento celebrarono il proprio matrimonio, almeno a livello di presa diretta e di documentario. Uno dei primi cineasti italiani, già fotografo ufficiale della guerra di Libia, il milanese Luca Comerio, fu l’autore di una bellissima pellicola dedicata alla Guerra Bianca in Adamello, che, recentemente restaurata, rappresenta un documento eccezionale sui combattimenti del 1916 che videro protagonisti gli alpini italiani. Paradossalmente, a fronte di una notevole mole di filmati a carattere documentario, la Grande Guerra originò, invece, un numero relativamente modesto di pellicole di carattere narrativo o epico. Evidentemente, lo scoppio di un conflitto ancora più vasto e spettacolare, vent’anni dopo, ha focalizzato l’attenzione sulla seconda guerra mondiale, a scapito della prima. Senza contare che, su scala mondiale, la maggior parte dei film di successo provengono dagli Stati Uniti, che ebbero un ruolo del tutto marginale nella Grande Guerra e che, viceversa, furono tra i protagonisti dello scontro con le forze dell’Asse. Tra le pellicole hollywoodiane, dedicate al primo conflitto, che hanno lasciato un segno, dobbiamo ricordare “Orizzonti di gloria” e “Il sergente York”, “Giovani aquile” e “Gli anni spezzati”, ma non molto altro. Di questi quattro film, due parlano di soldati americani, uno degli Anzac (Corpo australiano impiegato nella campagna di Gallipoli) e soltanto uno ha come protagonista un colonnello francese. Dunque, possiamo certamente dire che un altro limite della cinematografia di guerra è la sua dipendenza da Hollywood e dagli stilemi tipici del cinema americano. Come vedremo, questa caratteristica ha determinato tutta una serie di luoghi comuni che, se hanno permesso una certa “riconoscibilità” stilistica delle pellicole, non hanno reso un buon servizio alla storia. Vale la pena di concentrarsi su alcuni di questi luoghi comuni, che aiuteranno il lettore a destreggiarsi tra i principali capolavori del genere.

Va da sé che, allontanandoci all’indietro nel tempo, al cinema capita, inevitabilmente, ciò che già accadde alla storiografia antica: più l’evento che si descrive è remoto e più si sconfina nella mitologia. Le pellicole documentarie non possono risalire ad avvenimenti accaduti prima del XX secolo; per tutto il resto ci si deve accontentare del mito, dell’epos o, se si preferisce, della saga cinematografica. E’ evidente che, stando così le cose, le differenze tra un film di mera fantasia, come “Il Signore degli Anelli” ed uno, invece, ispirato a fatti realmente accaduti, come “Le crociate” siano meno delle somiglianze. Se, al posto degli orchi che assediano Minas Tirith, mettiamo le truppe del Saladino, che fanno lo stesso con Gerusalemme, ci accorgiamo che, in fondo, poco cambia, tra la Terra di Mezzo e la Palestina del XII secolo. E questo, come si diceva, non è necessariamente un male: il cinema è un’arte, non una scienza, e come tale va esaminato. Così, non ci rimane che dare un’occhiata, a volo d’uccello, a come il cinema abbia rappresentato, almeno nelle pellicole più popolari dei tempi recenti, le varie ere della storia.

Cominciamo dal mondo greco e latino, che ha rappresentato, a fasi alterne, una notevole fonte d’ispirazione per il cinema. La scarsa storicità dei Colossal degli anni Cinquanta e Sessanta è addirittura proverbiale. Dalla guerra servile di Spartaco a quelle puniche, da Troia al fiume Isso, lo smaliziato spettatore ridacchia sulle scene di massa in cui la comparsa indossa un  moderno orologio o armature inverosimilmente sgargianti. Eppure, coll’aumentare degli effetti speciali e con l’evolversi del gusto, non si deve credere che, da un punto di vista strutturale, la cinematografia storica classica abbia modificato granché il proprio standard qualitativo. Prendiamo alcune tra le più fortunate pellicole degli ultimi anni, che, peraltro, dopo l’enorme successo de “Il gladiatore” di Ridley Scott, hanno visto un notevolissimo rifiorire del genere epico-storico. Il primo film di guerra di cui ci occuperemo è “Troy”. In Italia si è voluto mantenere il titolo inglese, forse per non dare adito a facili calembour, ma la sostanza non cambia, ed è quella di un film western sulla guerra di Troia. Alla fine, il duello tra Achille ed Ettore rappresenta la classica sfida all’OK Corral, mentre Brad Pitt interpreta un guerriero ninja, più che un principe acheo. Il campo di battaglia è piuttosto esiguo, mentre le mura della città dardanica ricordano più Ninive che l’Asia Minore. Il particolare più hollywoodiano, in ogni caso, riguarda la durata del conflitto. Per evidenti esigenze di copione, eventi spalmati su dieci anni sono stati concentrati in pochi giorni. Al di là del dato filologico, questo fatto ha completamente falsato il senso di quel conflitto, che fu lungo e logorante, e rappresentò lo scontro finale di due civiltà. Un brutto film, insomma, per descrivere la guerra più famosa di tutti i tempi.

Il secondo film, per certi versi ancora più paradigmatico è “300”, in cui, sotto le specie di un fumettone, si racconta un episodio della seconda guerra persiana: la celeberrima battaglia delle Termopili. Lì, la fantasia ha preso del tutto il sopravvento. L’esercito del re dei Re è una congerie di esseri semimostruosi e lo stesso Serse è rappresentato come una sorta di grottesco androgino dall’aspetto negroide. Dall’altra parte stanno gli spartiati, i trecento di re Leonida, che, nella realtà, non erano affatto trecento, e nemmeno erano tutti spartani. Efialte, l’orrido traditore spartano, ricorda il Quasimodo di Walt Disney, mentre l’unico sopravvissuto, seppure senza un occhio, è lo stesso attore che interpreta Faramir ne “Il Signore degli Anelli”, a riprova di una sorprendente reciprocità tra temi epici. Tutto, in questo film, è storicamente insensato. Tutto è, per così dire, epicamente puro. Può piacere o non piacere, naturalmente, ma, perlomeno, la storia è presa solo a pretesto e non si cerca di gabellare l’opera per un film storico. In un certo senso, “300” è la metafora del corretto rapporto tra la storia e il cinema, così come “La notte di San Lorenzo”, di cui abbiamo scritto poco sopra, ne incarna, piuttosto quello scorretto.

Il Terzo film è “Alexander”. Qui, va detto, si arriva a vertici a dir poco grotteschi. Alessandro Magno, si sa, era un geniale stratega, un logistico, un assediatore di città, un esperto di macchine da guerra. Nella pellicola, è un giovanottone dalla sessualità ambigua, preda dei propri demoni e delle proprie idiosincrasie. “Alexander” è un film stupido, non perché non tenga debito conto della realtà storica, che, come abbiamo detto, non è un elemento necessario alla cinematografia di guerra, ma perché guarda la storia dal buco della serratura, con un taglio da parrucchiere pettegole. E che di tutte le prurigini e le remore politicamente corrette, che affliggono la società d’oltreoceano, reca lo stigma. E’ strabiliante, ad esempio, la clausola che impone al cinema statunitense la presenza, tra i protagonisti, di almeno un attore di colore: una specie di Quote Rosa in versione razziale. Così, si arriva ad Heimdall, il guardiano del Ponte dell’Arcobaleno che unisce Asgard a Midgard nella mitologia scandinava, l’insonne eroe norreno, che, nel recente “Il mitico Thor”, incredibilmente, è interpretato da Idris Elba, bravissimo attore, ma inequivocabilmente africano. Qui non si tratta di mito o di arte; si tratta di semplice cattivo gusto. Il cattivo gusto degli americani, appunto, in materia di politically correctness.

Spostandosi al Medioevo, non è che le cose migliorino granché. Alcuni luoghi comuni permangono anche in pellicole di buon livello, e l’Età di Mezzo viene quasi sempre proposta attraverso il filtro, non sempre utile, della lettura romantica: ai protagonisti vengono attribuiti sentimenti ed idee assolutamente moderni, che, frequentemente, travalicano il pur elasticissimo concetto di verosimile. Per intenderci, è bizzarro assistere a dialoghi gonfi di implicazioni psicologiche, da parte di personaggi vissuti secoli prima di Freud. Ebbene, per solito, i protagonisti dei film sul Medioevo funzionano proprio in questo modo. Qualcosa direi anche dell’equipaggiamento, della tattica e del combattimento. Con la lodevole eccezione di alcune opere, più rispettose dell’ambito storico, come “Braveheart” o “Il tredicesimo guerriero”(che, guarda caso, sono opere di epica assoluta), per solito, i guerrieri medievali hanno un unico modello, come vestiario ed equipaggiamento. I soldati inglesi del XIV e XV secolo, quelli della Guerra dei Cent’Anni, di Crecy e di Agincourt, indossano armature complete, elmi a celata mobile o bacinetti, brandiscono spade ad una mano e sono eleganti e colorati. Tutti, nessuno escluso, combattono a cavallo, da “Beowulf” a “King Arthur”: questo, anche se, fino ai Normanni, si combatteva quasi sempre a piedi. Il perché di questa scelta è presto detto: lo spettacolo è più garantito da una carica di cavalleria multicolore e scintillante di acciai, piuttosto che da uno scontro selvaggio tra guerrieri armati alla buona, con scudi rotondi di legno e cotte di maglia piuttosto approssimative. La spada è oggetto enormemente più cinematografico dell’ascia o, ancor più, del bastone. Inoltre, cosa che aveva già capito, nel 1916, Manfred Von Richtofen, un elemento essenziale del campo di battaglia, dal punto di vista epico, è il riconoscimento del campione nemico. Naturalmente, in un modo di combattere individualistico come quello medievale, questa idea esisteva da sempre, ma Richtofen l’applicò ai moderni criteri di spettacolarità, e fece dipingere gli aerei della sua Staffel a tinte sgargianti, diverse per ogni pilota. E’ esattamente questo il meccanismo cinematografico, nel riprodurre gli scontri di cavalleria, il campione (ossia il divo che lo interpreta), deve essere immediatamente riconoscibile. Questo accade, sia pure con intenti parodistici, perfino in opere come “Il destino di un cavaliere”, in cui, al di là dell’ironia che anima molti aspetti del film, vi è più onestà intellettuale che in tante pellicole con pretese di maggior storicità. Non fanno testo autentici capolavori, come “Excalibur” di Boorman o “Macbeth” di Polansky, poiché la loro perfezione filologica non riguarda la storia, ma la letteratura, che è già una manipolazione della storia, in partenza: sono il calco esattissimo di un falso d’autore, insomma. Quel che vorremmo si trasmettesse al lettore è il fatto che non si ha nulla contro le opere cinematografiche storiche che strapazzino la verità storica: l’importante è, però, saperlo. La cosa che, a nostro parere, distingue un buon film sulla guerra da uno pessimo non consiste nel numero esatto di morti, di frecce o di cannoni, bensì nel riuscire o meno a trasmettere le sensazioni di quella guerra, lo Stimmung di quell’epoca oppure, paradossalmente, tutt’altre sensazioni e tutt’altro Stimmung, ma con l’efficacia strabiliante con cui una metafora sostituisce la denotazione. Mostrare, in definitiva, una guerra, come epitome di tutte le guerre: della guerra, come, forse, avrebbe felicemente chiosato Von Clausevitz. Questo aspetto non marginale della storiografia, che prende il nome di “Storia culturale”, rappresenta la nuova frontiera degli studi polemologici, dopo decenni di annalisti impegnati nell’accumulare dati sulle punte di lancia e sui carri di fieno. La corrente ha cominciato a rifluire tra la fine degli anni Settanta del Novecento e quella degli Ottanta, con le opere di una nuova scuola di storiografi anglosassoni, molto brillanti, come Paul Fussell (The Great War and Modern Memory. Oxford University Press, 1975),  John Keegan (The Face of Battle, London, Jonathan Cape, 1976) o George Mosse (Fallen soldiers: reshaping the memory of the World Wars, Oxford University Press, 1989). L’impostazione data allo studio della guerra da questi acuti studiosi ha permesso di dare una lettura della storia che tenga conto anche dei fenomeni culturali, epistemologici, sociali, antropologici, e della loro forte implicazione nell’elaborazione della memoria storica. Il cinema è uno di questi fenomeni. La sua eccezionale popolarità e la sua diffusione ne fanno uno strumento ideale per creare (e, come si è visto, manipolare) la percezione degli eventi storici. Per questo motivo e non per altri, sosteniamo essere di gran lunga più onesti quei film che non fanno mistero della propria scarsa scientificità, rispetto a quelli che, pur funzionando allo stesso modo, illudono lo spettatore di essere di fronte alla storia con la esse maiuscola, alla storia vera. Quasi sempre, purtroppo, la storia vera non esiste; esistono, invece, differenti percezioni del medesimo evento, perfino da chi l’abbia vissuto in prima persona, figuriamoci per chi lo debba raccontare a distanza di anni, decenni o secoli.

Se dal mondo antico o medievale passiamo a quello moderno, questa stridente differenza, tra opera epica tout court ed opera mistificatoria, diviene enormemente più palmare. Aumentando l’interesse nelle falsificazione, data la posta in gioco, aumentano anche i tentativi di ridisegnare la storia, per renderla più appetibile o, peggio, più funzionale ad una sorta di “supervulgata globale”. Raffinandosi gli strumenti di ottenimento del consenso, si sono, di pari passo, raffinati i linguaggi cinematografici: una volta, bastava far vedere che da una parte c’erano i cattivi, che erano sempre scuri, brutti e, alla fine, perdenti; mentre, dall’altra c’erano gli angeli del bene, dai tratti evidentemente Wasp, pieni di buone intenzioni e che uccidevano malvolentieri, solo perché costretti dalla protervia degli altri. Questo cliché si applicava, indifferentemente, ai nativi americani come ai nazisti, alle spie dell’Est come allo Sceriffo di Nottingham: la sensibilità del pubblico era più ingenua e seguiva meccanismi di immedesimazione più semplici, perciò questo bastava. La Guerra Fredda era descritta attraverso lo sguardo onesto e puro di James Stewart, che pilotava bombardieri strategici come uno scolaro che fa tutti i compiti, perché quello è il dovere dei bravi scolari. I soldati americani in Francia, nel 1944, fumavano sigarette in mezzo alla neve, sospirando per il momento in cui sarebbero tornati a fare il panettiere a Baltimora o lo scaricatore a Chicago: bravi ragazzi, insomma. Happy Days e D-Day a braccetto. Qualche film azzardò altre chiavi di lettura, più psicologiche e meno tassativamente unilaterali: “I giovani leoni” ad esempio, ma si tratta di gocce nel mare. Ad un certo punto, si comprese che alcune guerre americane risultavano decisamente indigeribili all’opinione pubblica, e nacquero così opere cinematografiche come “Apocalypse now” o “Platoon”: film che rivisitavano il Vietnam, la cosiddetta guerra sporca (ma sono mai esistite guerre ‘pulite’?), in chiave revisionista. Ne emergevano i dubbi e le contraddizioni di una generazione di G-men che non capiva più per cosa stesse combattendo. Ma non illudetevi: si trattò soltanto di un tentativo di autoassoluzione, figlio degli anni di Woodstock e delle rivolte studentesche. Questi film non raccontarono la guerra, ma solo la fase di transizione tra un mito ed un altro mito: tra la Guerra Fredda e l’ideologia Neocons, che postula la “difesa degli interessi Usa in qualunque parte del mondo” e che ha generato Desert Storm e la guerra in Afghanistan. Facevano loro da contraltare, all’epoca, quei film in cui la sconfitta in Indocina diventava, a posteriori, una vittoria: la tetralogia di “Rambo” o i film con Chuck Norris intitolati “Missing in action” appartengono , appunto, a questa fase. Sono pellicole più rozze, ma, in un certo senso, più nazionalpopolari; esse esprimono i sentimenti della zona grigia statunitense meglio della sottigliezza psicoanalitica di Coppola. Dal punto di vista della brusca invasione della correttezza politica nella produzione dei film, la cinematografia che, purtroppo e per ragioni spiegabili, ha visto una vera e propria vulgata cinematografica è proprio quella italiana. I danni fatti alla letteratura e alla storiografia dal pensiero unico del secondo dopoguerra, hanno, malauguratamente, riguardato direttamente anche l’arte filmica. Se pellicole come quelle neorealiste operarono una comprensibile condanna senza distinzioni dell’ultimo fascismo e dell’occupazione nazista, una totale mancanza di obiettività non si può giustificare in pellicole girate in un’epoca che avrebbe dovuto essere immune da suggestioni emotive della prima ora. Non vogliamo, con questo, auspicare certo la creazione di film apologetici o giustificazionisti, nei confronti del fascismo e del nazismo, questo sia ben chiaro. Ci limitiamo a deprecare che, anche quando, per esempio, si è cercato di dare voce a posizioni non dichiaratamente comuniste, all’interno della guerra civile, lo si è fatto molto tiepidamente, offrendo sempre ai ‘rossi’ una via d’uscita onorevole. E’ il caso di opere come “Porzŭs” o “Il cuore nel pozzo”, dedicate al massacro del comando della divisione partigiana Osoppo (bianca), da parte dei Garibaldini (rossi), e al dramma delle foibe. Nella narrazione, che vorrebbe essere storicamente attendibile, compare sempre una figura di fantasia: il comunista buono, che riscatta l’immagine del comunismo, altrimenti rappresentato col suo vero volto, crudele e spietato, esattamente come quello dei suoi nemici. Lo stesso dicasi per il racconto cinematografico della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale: soldati scalcinati e privi di qualsivoglia spirito patriottico, come in “Mediterraneo” (pessima pellicola), oppure, poveri diavoli alla ventura, come i fantaccini di “Alamein”. In definitiva, la peggior propaganda britannica sulla mancanza di virtù militari degli Italiani e il più retrivo bagaglio di luoghi comuni sugli “Italiani Karasciò”, si sono riversati sul cinema, in un’orgia di masochismo ed antimilitarismo, un tantino troppo di maniera, per essere verosimili, oltre che offensivi per chi, invece, il suo dovere lo fece fino in fondo, lasciandoci la pelle. Meglio, dunque, “Il mandolino del capitano Corelli”, allora: luogo comune per luogo comune. Insomma, ritornando alla materia di questo intervento, il cinema non è mai stato tanto diverso dalla storia militare come quando ha cercato di seguirla ed interpretarla. Ci sono state, lo ripetiamo, lodevoli eccezioni, ma la massa dei film “impegnati” storicamente non ha fatto un buon servizio alla Storia, che dovrebbe essere, è bene rimarcarlo, ricerca della Verità e non diffusione della buona novella.

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