EDITORIALE N.7 di STORIA VERITA’

Storia Verità N.7 (Gennaio - Febbraio 2012)

EDITORIALE N.7

di STORIA VERITA’

 

Nella parte monografica di questo numero abbiamo deciso di discettare  dell’ ‘Arte (o filosofia) della Guerra’. Ora, pur sapendo che non esiste una vera e propria filosofia della guerra che si occupi specificatamente di questo mestiere, come accade per esempio per la filosofia della Storia, è comunque vero che possiamo trovare tracce di una riflessione ‘speculativa’ sui conflitti umani nel secondo libro del Della guerra dello stratega tedesco Carl von Clausewitz (1780-1831). Clausewitz rappresenta un’eccezione in quanto lo ‘studio’ della guerra come fenomeno ‘creativo’ anche se drammatico ha spesso ricevuto violente e ipocrite condanne, in quanto la lotta armata è sempre stata giudicata (anche da chi ne ha beneficiato) alla stregua di un fenomeno negativo e comunque privo di una sua filosofia. Numerosi, infatti, sono stati i filosofi che hanno trattato il tema della guerra, tentando di chiarirlo ricorrendo a principi etici e addirittura metafisici. Eraclito  (535 a.C.475 a.C.), precedendo i pensatori romani, considera, ad esempio, la guerra elemento indispensabile per il mantenimento della pace, poiché egli – filosofo puro –  è convinto che l’armonia, l’ordine e la stabilità del mondo si basino sull’equilibrio degli opposti: equilibrio senza il quale neppure esisterebbe l’uomo. Per il presocratico greco è, infatti, pura illusione ipotizzare uno stato di eterna pace tra gli esseri viventi. La concordia la si può raggiungere – secondo Eraclito –  soltanto grazie alla conflittualità che simboleggia la fonte di ogni realtà. Secondo Platone, la guerra è, innanzitutto, uno strumento della politica e, in quanto tale, non può e non deve essere aprioristicamente e frettolosamente condannata alla stregua di un’inutile e selvaggia pratica ‘amorale’ tout court, bensì essa deve venire utilizzata intelligentemente, nei tempi e nelle giuste situazioni, come strumento atto a stabilire, seppure con la forza dei muscoli e delle armi, ordine ed equilibri necessari, ripristinando perfino equità e senso di giustizia, materiali e morali. Pensiero, questo, condiviso dai romani, per i quali la guerra era, come è noto, un mezzo assolutamente indispensabile per il mantenimento della pace e dell’armonia, magari non metafisica, ma almeno politico-sociale ed economica. Per i capitolini, l’impegno costante alla guerra, come prassi preventiva finalizzata alla conservazione della pace, venne sintetizzato con l’espressione si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra). Considerazioni, soprattutto morali, sul significato e l’opportunità della guerra compaiono e si affermarono poi con l’avvento del Cristianesimo. Sebbene per i discepoli del Gesù bellare semper illicitum est, poiché aggredire un figlio di Dio è atto violento e nettamente contrario al messaggio di amore universale di Cristo, per Sant’Agostino, tuttavia, la guerra – che venne condannata senza riserve dai primi Padri della Chiesa  ispirati dal Vangelo – può in taluni casi risultare giustificabile e addirittura necessaria. Anche se ciò può accadere soltanto allorquando essa rientri nei decreti della Provvidenza divina. Ma veniamo all’epoca contemporanea. Il già citato Carl von Clausewitz  è forse il primo ed unico studioso di polemologia a tentare un approccio squisitamente scientifico all’’Arte della Guerra’, isolandola dai connessi e molteplici fenomeni, sociali, politici, morali che solitamente l’accompagnano e la caratterizzano. Secondo von Clausewitz, discettando sul significato di guerra, la prima, intelligente ed opportuna, domanda che l’uomo deve porsi è quella di chiedersi se la guerra rientri in un’attività ‘teoretica’ o ‘pratica’. Per il pragmatico militare tedesco la risposta, lapidaria, è che nella guerra la ‘conoscenza’, cioè il sapere, si accompagna sempre al ‘potere’, cioè all’imposizione di un criterio di comando facente riferimento ad una concezione di Stato. Secondo Clausewitz, se si parla di krieg (guerra) occorre tenere d’acconto sia l’episteme, il puro sapere, sia la techné, cioè il sapere applicato alla pratica: “L’arte e la Scienza sono indissolubili e non possono venire scisse”. Non solo. Lo stesso ‘pensiero’ può definirsi ‘creatività’ (“Ogni pensiero solo è già arte”). Sempre secondo Clausewitz, “nel momento in cui svaniscono gli assiomi che rappresentano il risultato dell’evidenza, laddove inizia un giudizio, là comincia anche l’arte”. Detto questo, riflette von Clausewitz, definire ‘arte’ la guerra appare in ogni caso azzardato, poiché sia la scienza che le arti tendono a modificare  oggetti senza vita, mentre “la guerra agisce, invece, sopra un oggetto vivente e reagente”. La prova provata di quanto non sia possibile ricondurre alla guerra l’arte o la scienza poggerebbe su una semplice osservazione: allorquando, nel tempo, la scienza ha tentato di stabilire leggi scientifiche applicabili agli esseri umani, essa ha sempre fallito poiché l’uomo è un essere troppo complesso, limitato e governato da passioni. “È dunque facile – prosegue  Clausewitz – osservare come lo schematismo di idee proprio delle arti e delle scienze non possa applicarsi ad un’attività del genere (cioè la guerra), e risulta altrettanto evidente anche il perché tutte le ricerche ed i tentativi continui per giungere a leggi analoghe a quelle che si riferiscono al mondo dei corpi inerti, abbiano dovuto necessariamente produrre errori durevoli. Anche se sono state precisamente le arti meccaniche quelle che si sono volute, di solito, prendere a modello”. Dunque, stando al pensatore tedesco, anche il metodo delle scienze esatte non potrebbe essere applicato alle scienze storiche e sociali. Sebald Rudolf Steinmetz (18621940,) sociologo e filosofo olandese autore di una Die Philosophie des Krieges (1907), riprende il tentativo di Klausewitz di elaborare una filosofia della guerra, questa volta ispirata al darwinismo: “Ogni guerra è una necessità, al pari di ogni altro fenomeno, così com’è necessario tutto ciò che accade. Dato il mondo intero così com’era, ogni singola guerra era inevitabile”. Ma allora cosa è la guerra e perché la si fa? La guerra è, noi crediamo, ineluttabilità sociologica, ricerca di identità e predominio, passione istintiva e carnale (l’uomo è condizionato dalle passioni, abbiamo detto); situazione estrema che induce all’inventiva (dunque, allora, all’arte’, ndr), percezione acuta e romantica (i conflitti non si riducono sempre a banali contese economiche, come sostengono i marxisti, ma nascono anche da differenziazioni etniche, religiose, culturali) nei confronti di un destino scritto dalle stelle. La guerra – e questo è il suo aspetto infantile – è, infatti, assimilabile alle pulsioni suscitate dall’amore giovanile: pulsioni vissute però più intensamente, e crudelmente. Del resto, soltanto la vittoria, cioè il ‘prevalere’ di un’idea sacra o ritenuta tale, può dare un senso alla banale tragicità della vita, al suo insito dolore annegato nell’incertezza e contaminato dalla sindrome dell’anonimato esistenziale, dal cancro della ‘non appartenenza ad un gruppo’. La guerra viene, infatti, frettolosamente condannata da chi non ha compreso il senso della vita e quello dello Stato, poiché è proprio la guerra l’unico evento capace di eguagliare, distinguere e compattare i cittadini nel culto della cultura di appartenenza e di virtù quali l’onore, la dedizione, la fedeltà e la fratellanza. Si, la fratellanza. Crudele, orrida e selettiva, come la vita, la guerra, a parere nostro, è un’arte, un’arte anomala, ma irrinunciabile, dalla quale può scaturire perfino – se indotta da ragionevoli e nobili cause –  un vero senso di giustizia: quel senso di equità che, purtroppo, una pace prolungata e che basa le sue uniche ragioni sull’ipocrisia, sull’egoismo e su  discutibili e immorali equilibrismi e convenienze, non è certo in grado di conseguire.

Alberto Rosselli

 

 

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