Contrariamente a quanto sostenuto dalla pubblicistica marxista, i moti rivoluzionari bolscevichi del 1917 non suscitarono mai un completo fascino sui popoli mussulmani dell’Asia centrale facenti parte del vecchio impero zarista. D’altra parte, già molti anni prima dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti tra le varie etnie asiatico-mussulmane e il governo di San Pietroburgo si erano contraddistinti per un’accesa conflittualità riconducibile in buona misura alla non accettazione da parte di queste molteplici ‘minoranze’ del dominio politico-culturale slavo. Per essere più chiari, turkmeni, kazaki, uzbeki, kirghisi e tagiki consideravano i russi – che verso la metà del XIX secolo, dopo lunghe campagne, erano riusciti ad occupare e colonizzare queste vaste regioni – alla stregua di veri e propri invasori, apportatori, tra l’altro, di costumi e di metodi di governo lontani anni luce dalla realtà di gran parte delle comunità centroasiatiche. Dopo la caduta dello zar Nicola II ed in seguito ai moti rivoluzionari bolscevichi, Lenin si affrettò a dichiarare che il nuovo regime marxista si sarebbe fatto garante della “libertà ed autonomia” dei popoli mussulmani facenti parte della nuova variegata entità politica, rinunciando a qualsiasi pretesa egemonica. Promessa che spinse, almeno in un primo momento, i mullah e gran parte della popolazione a schierarsi a fianco delle forze ‘rosse’ a quel tempo in lotta contro gli eserciti controrivoluzionari ‘bianchi’. Pur prendendo per buona la parola di Lenin, nel 1917 i rappresentanti kazaki insistettero, però, per un’immediata proclamazione della Repubblica Autonoma Kazaka, destando le preoccupazioni del leader bolscevico in realtà per nulla intenzionato a concedere la completa libertà ai popoli asiatici. Ciononostante, dalla fine del 1918 a quasi tutto il 1919, le promesse di Lenin favorirono in Asia Centrale la nascita di alcune istituzioni governative mussulmane sostanzialmente filobolsceviche, come ad esempio il Comitato del Governo Provvisorio e il Soviet dei Deputati dei Lavoratori e Contadini di Taskent (Uzbekistan). Quando, però, il 22 dicembre, a Kokand – i leader locali si apprestarono a fondare un primo Governo Provvisorio Musulmano del Turkestan Autonomo conforme alla legge islamica, auspicando nel contempo la reintroduzione del libero commercio e del diritto a possedere appezzamenti terrieri, pascoli e armenti, Lenin impose a tutte le neonate autorità locali kazake, uzbeke, turkmene e tagike di attenersi alle disposizioni rivoluzionarie in materia sociale ed economica e di accettare di esercitare il potere in seno ad esecutivi (soviet) misti russo-asiatici, ma di fatto controllati da Mosca. Proposta, questa, che venne respinta da molti mullah decisi a proseguire nella costituzione di stati islamici federati ma sostanzialmente indipendenti. Obiettivo che essi avrebbero conseguito con tutti i mezzi: proclamando, se necessario, la guerra santa contro i bolscevichi e chiedendo aiuto alle armate ‘bianche’ e alla Gran Bretagna, i cui agenti, nel frattempo, erano giunti dalla Persia per fiancheggiare le forze controrivoluzionarie. Temendo il peggio, Lenin inviò in Turkestan un forte contingente dell’Armata Rossa agli ordini del generale Mikhail Frunze che, approfittando della sostanziale disorganizzazione delle bande armate mussulmane, conquistò rapidamente la grande oasi di Khiva e molti altri centri, eliminando centinaia di capi islamici e ripristinando il potere bolscevico attraverso i soviet. Dopodiché le autorità comuniste avviarono la collettivizzazione di tutte le proprietà, costringendo circa 900.000 tra agricoltori e pastori ad abbandonare le loro tradizionali attività. Fino a quando, nell’aprile del 1919, uno dei leader della milizia mussulmana di Kokand, tale Irgash, organizzò segretamente un grande piano di rivolta. Nonostante le antiche rivalità che dividevano le tribù mussulmane asiatiche, Irgash riuscì a trovare un’intesa di massima con buona parte dei mullah, dando vita al cosiddetto Movimento Indipendentista Basmaco che, verso la fine del ’19, scatenò un’insurrezione armata destinata a durare quasi 15 anni. Per parare il colpo, Lenin diede disposizioni affinché l’apparato propagandistico bolscevico si mettesse in moto ancor prima dell’Armata Rossa, attraverso una massiccia campagna tesa a discreditare e di minimizzare la portata della Rivolta Basmaca. Il Movimento dei Basmachi – nel quale, nel frattempo, erano confluiti molti volontari islamici provenienti dalla Persia, dall’Afghanistan e dalla Turchia e perfino elementi delle locali comunità russe cristiano-ortodosse, menscevichi, monarchici, socialisti e anarchici perseguitati dai ‘rossi’ – venne dipinto alla stregua di un esercito di malfattori sanguinari e reazionari (basmaco, o bäsmä´chē, significa in lingua uzbeka più o meno brigante) dediti a rapinare i pacifici dehkan (contadini) filo-comunisti delle repubbliche asiatiche. Ciononostante, agli inizi del 1920, il Movimento prese ad ingrossare le sue file, accogliendo anche ex-prigionieri cechi, ungheresi e polacchi fuggiti – in seguito al crollo zarista – dai campi di concentramento russi e, addirittura, alcune centinaia di volontari cinesi mussulmani del Sinkiang. Il Movimento Basmaco si rivelò, quindi, un fenomeno per nulla monocorde, ma al contrario politicamente trasversale, multilingue, multietnico e multireligioso. Nonostante il pesante intervento da parte dell’Armata Rossa del generale Frunze, il mobile, anche se indisciplinato, esercito basmaco, composto da circa 30.000 guerriglieri a cavallo, riuscì a controbattere con successo le prime offensive bolsceviche, mantenendo il controllo della regione del Fergana occidentale e del Bukhara Orientale: area corrispondente grosso modo all’odierno Tagikistan. Ma nell’autunno del 1920, eliminate in Crimea le ultime sacche di resistenza ‘bianca’ del generale Pyotr Nikolayevich Wrangel, Mosca poté stornare in Asia Centrale un quantitativo di truppe ancora maggiore, costringendo le formazioni ribelli ad abbandonare i centri abitati e le pianure e a rifugiarsi nelle zone montagnose del Tagikistan. Nelle regioni riconquistate, le autorità del Cremlino concessero alle popolazioni locali – almeno fino a tutto il 1920 – una moderata autonomia, assicurando un minimo afflusso di coloni slavi: promesse che, tuttavia, sul finire del 1920, Lenin si rimangiò. Tale era la situazione in Asia Centrale quando apparve sulla scena Enver Pascià (1881 -1922), un uomo proveniente da lontano che, per qualche tempo, sarebbe stato capace di ridare speranza alle popolazioni mussulmane. Ex-leader del Partito dei Giovani Turchi, nel novembre del 1918, dopo la resa dell’Impero Ottomano, Enver era stato costretto a fuggire a Berlino per scampare alla condanna a morte inflittagli da una corte di Costantinopoli quale corresponsabile della disastrosa guerra combattuta a fianco degli Imperi Centrali. Alla fine del 1919, Enver preferì tuttavia trasferirsi a Mosca, dietro invito di Lenin, che gli promise di aiutarlo a tornare in patria e a riprendere il potere a condizione che si impegnasse ad appoggiarlo nella difficile opera di “pacificazione” delle regioni centro-asiatiche. Pur detestando sia il bolscevismo ateo sia la Russia, tradizionale avversario della Turchia, Enver fece finta di accettare di buon grado la proposta. E nel 1921, Lenin lo inviò in Uzbekistan, a Bukhara, per cercare di trovare un primo accordo con i locali mullah. Ma fu proprio qui che Enver riuscì a contattare segretamente alcuni esponenti del Movimento Basmaco ai quali offrì un’intesa del tutto diversa, cioè la creazione di una federazione autonoma di stati mussulmani facenti riferimento ad un governo centrale turkmeno a forte componente etnica turca. Enver voleva infatti rilanciare l’idea di un movimento ‘panturanista’ che, utilizzando il collante islamico, avrebbe consentito la creazione di un vasto stato comprendente non soltanto le regioni cento-asiatiche, ma anche quelle caucasiche e la penisola anatolica. Non senza difficoltà, egli riuscì nel suo intento, grazie soprattutto al suo forte carisma e alla sua eloquenza, ma poco tempo dopo la polizia bolscevica scoprì le sue manovre sotterranee, costringendolo a fuggire. Raggiunte le regioni orientali uzbeke, Enver prese in breve tempo le redini della rivolta basmaca, ottenendo dai mullah la nomina di “rappresentante in terra del profeta Maometto” e comandante in campo delle forze basmache facenti riferimento all’ideale panturanico.
Il 14 febbraio 1922, Enver, alla testa di poche centinaia di cavalleggeri si lanciò alla conquista della città di Dushanbe (l’attuale capitale del Tagikistan), riuscendo ad occuparla e inducendo in tal modo i mullah a proclamare la ‘guerra santa’ contro i bolscevichi. Tra il febbraio e il maggio del ‘22, il condottiero ‘panturanista’ riuscì ad ingrossare le file della sua armata che arrivò a contare circa 50.000 uomini e con tale forza, nella tarda primavera del ’22, pose sotto il suo controllo la maggior parte della regione di Bukhara. Preoccupati per un possibile dilagare della rivolta ad altre regioni, i generali bolscevichi offrirono ad Enver una tregua che questi rigettò. Lenin ordinò allora l’invio in Asia Centrale di un imponente corpo di spedizione, agli ordini del generale Nikolai Kakurin: armata rinforzata da reparti di artiglieria e aviazione dotati di micidiali proiettili e ordigni all’iprite e al fosgene. Nel giugno 1922, Enver subì una pesante sconfitta che indusse poche settimane più tardi molti capi mussulmani ad abbandonare il loro capo che, nel frattempo, assieme a poche centinaia di fedeli, era stato costretto a passare nel Tagikistan orientale e a dirigersi verso l’Afghanistan. La speranza di Enver era quella di trovare ospitalità in questo paese sul quale regnava il sovrano Amanullah che, in precedenza, aveva fornito ai basmachi armi e volontari. Ma Amanullah, che non voleva inimicarsi troppo Mosca, respinse la richiesta di asilo di Enver che, il 4 agosto 1922, assieme ad appena 50 fedelissimi, si era accampato tra i villaggi di Obidaryo ed Ab-i Dara, nei pressi della frontiera tagiko-afghana. Circondato dai reparti a cavallo bolscevichi del colonnello Kulikov, Enver rifiutò di arrendersi e in sella al suo destriero grigio Dervish si lanciò contro il nemico che lo fulminò con una scarica di fucileria. Kulikov fece denudare il cadavere di Enver che venne gettato in un’anonima fossa. Poi il reparto bolscevico abbandonò la zona. Dopo alcuni giorni di ricerche, il mullah di Obidaryo riuscì però a trovare e riesumare il cadavere del leader turco che, nel corso di una solenne cerimonia, fu seppellito sotto un albero di noci, nei pressi dell’abitato di Obidaryo. In seguito alla morte di Enver, Lenin si impegnò a porre fine alla persecuzione antimussulmana in Tagikistan e nelle altre regioni limitrofe, convincendo buona parte dei guerriglieri basmachi fuggiti in Afghanistan e nel Sinkiang a rientrare alle loro terre. Ma la pace durò poco. Nel dicembre del 1927, Stalin riprese improvvisamente le persecuzioni contro i mussulmani delle Repubbliche asiatiche e, tra il 1928 e il 1933, dopo avere eliminato fisicamente 10.000 capitribù, abolì il nomadismo, costringendo decine di migliaia di pastori ed allevatori (circa il 67% dell’intera popolazione delle Repubbliche asiatiche) a lavorare in comuni agricole gestite da funzionari russi. Per allontanare definitivamente il pericolo di un ritorno al nomadismo, Stalin fece abbattere qualcosa come 350.000 cavalli e decine di migliaia di cammelli: iniziativa che mise in ginocchio l’economia locale, spingendo molti tagiki, kirghisi e kazaki a fuggire oltre il confine cinese, nella regione del Tarim.
Nonostante la repressione, nella prima metà degli anni Trenta, in Uzbekistan, alcune sopravvissute bande basmache continuarono a dare battaglia ai ‘rossi’, effettuando ancora 160 tra attacchi ed attentati contro colonne militari e caserme russe. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Movimento Basmaco sembrò ad un tratto risorgere dalle ceneri. Tra il 1939 e il 1944, circa 90 bande, per un totale di 2.000-2.500 combattenti, seguitarono a molestare le più isolate guarnigioni sovietiche del Tagikistan, venendo però completamente annientate dall’Armata Rossa tra il 1945 e il 1947.
BLIBLIOGRAFIA:
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Mustafa Chokay, The Basmachi Movement in Turkestan, ‘The Asiatic Review’, Vol. XXIV 1928
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