La presenza in Giappone di immigrati di origine israelitica risale ad un periodo relativamente recente, cioè alla seconda metà del XIX secolo. I primi ebrei a mettere piede sul suolo nipponico furono infatti alcuni marinai facenti parte della spedizione navale statunitense del 1853 al comando del commodoro Matthew Perry, inviata dal governo di Washington per costringere i giapponesi ad aprire i loro porti al commercio occidentale. Si dovette comunque attendere il 1861 per avere notizie del primo emigrante ebreo, l’americano Alexander Marks, stabilitosi a Yokohama. Avviata una florida attività commerciale, Marks convinse una cinquantina tra famiglie ebraiche statunitensi, inglesi e polacche a trasferirsi prima a Yokohama e poi a Kobe dove, verso la fine del XIX secolo, sorse una primo nucleo seguito poco dopo da un secondo, formato da israeliti a maggioranza sefardita, ed un terzo, a Nagasaki, a componente askenazita russo-slava.. Tra il 1865 e il 1900, la comunità crebbe per forza economica ed influenza politica, contribuendo non poco alla modernizzazione del paese. Risale però al 1904, e non in Giappone bensì a Londra, il primo incontro ufficiale tra autorità nipponiche ed esponenti della grande famiglia ebraica internazionale. A quel tempo, trovandosi in guerra con la Russia zarista, Tokyo aveva inviato nella capitale inglese il governatore della Banca Centrale con lo scopo di ottenere i prestiti necessari allo sforzo bellico. Durante la sua permanenza a Londra, il rappresentante non riuscì però ad ottenere alcun aiuto, ma in compenso ebbe l’occasione di conoscere il famoso banchiere ebreo americano di origine russa Jacob Schiff, la cui avversione nei confronti dei suoi compatrioti cristiano-ortodossi – promotori di frequenti e sanguinosi pogrom – era a dire poco marcata. Schiff offrì al Giappone oltre 200 milioni di sterline, cifra colossale che consentì ai nipponici di saldare con rapidità una buona parte delle forniture militari ordinate in Europa. Dopo la positiva conclusione del conflitto, le autorità del Sol Levante invitarono Jacob Schiff a Tokyo, riservandogli un’accoglienza trionfale ed incoraggiando al tempo stesso l’afflusso di nuovi emigranti semiti. Di lì a poco si trasferirono in Giappone alcune centinaia di ebrei, tra i quali il musicista berlinese Joseph Rosenstock che nel 1936 assunse la direzione dell’Orchestra Filarmonica di Tokyo, e l’inglese Arthur Waley che divenne il più importante traduttore di testi di letteratura giapponese e cinese. Sempre nella seconda metà degli anni ’30, altri ebrei si stabilirono nella Cina occupata dai nipponici, in particolare nell’area di Shanghai, Hankow e di Harbin dove per altro esistevano già antichissime comunità composte da elementi giunti dal Medioriente in epoca romana. Pur facendo parte dell’Asse, tra il 1935 e il 1945 il Giappone riuscì sempre ad eludere i tentativi tedeschi di introdurre nel Paese misure legislative anti-ebraiche. E nel 1938 alcuni membri dell’esecutivo arrivarono ad ipotizzare la costituzione in Manciuria (paese vassallo del Sol Levante) di un piccolo stato autonomo ebraico, non riuscendo tuttavia a tradurlo in realtà. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale si venne a sapere che nel 1940 i vertici dell’intelligence di Tokyo avevano proposto di avvicinare i leader della potente lobby ebraica statunitense per convincerli a fare pressioni su Washington affinché gli Stati Uniti lasciassero al Giappone mano libera in Asia. Questo piano segreto, chiamato in codice “Progetto Fugu”, non conobbe però alcuno sviluppo concreto. A proposito dei non facili rapporti intercorsi, tra il 1939 e il 1945, tra Giappone e Germania – potenze che pur essendo legate da un patto di mutua assistenza economico-militare, durante la guerra rimasero su posizioni piuttosto distanti per quanto concerneva le strategie da attuare – va ricordato un episodio decisamente singolare. Alla fine di luglio del 1940, il console generale del Giappone a Kovno (nella Lituania appena occupata dai sovietici con l’assenso della Germania), Senpo Sugihara, offrì il proprio aiuto ai capi della locale comunità ebraica per farli fuggire in Svezia e poi in Giappone. Pur non avendo ottenuto da Tokyo alcun assenso ufficiale a tale iniziativa, l’11 agosto il console iniziò a rilasciare visti di transito giapponesi a tutti gli ebrei lituani che ne avessero fatto richiesta. Tuttavia, il 20 agosto – dietro pressioni di Stalin – l’attività clandestina di Sugihara venne bloccata dallo stesso ministero degli Esteri giapponese che, pochi giorni più tardi, predispose addirittura la chiusura del consolato e il ritiro di Sugihara. Subodorando la fine, questi continuò egualmente a firmare visti di espatrio, riuscendo entro il 31 agosto 1940 a mettere in salvo in Svezia ben 3.500 ebrei lituani. Sugihara venne poi destituito e quando dopo la guerra un giornalista americano lo intervistò chiedendogli perché avesse agito in quel modo, egli si limitò a rispondere con una massima del Bushido: “Anche ad un cacciatore non è consentito di uccidere un uccello che vola da lui per trovare rifugio”. Ma il caso Sugihara non fu l’unico. Nel 1943, Mitsugi Shibata, vice-console giapponese a Shanghai, si adoperò per evitare che il rappresentante locale della Gestapo, Joseph Meisinger, inviato in Cina per ripulire il paese dagli israeliti, si attivasse per catturare ed eliminare i ben 18.000 ebrei che vivevano a quel tempo nella città. Meisinger giunse a Shanghai a bordo di un U-Boat oceanico tedesco tipo ‘Monsun’ proveniente dalla Francia, portando con sé diverse bombole di gas venefico utilizzato nei lager nazisti (materiale che, nel 1945, verrà ritrovato in un deposito nipponico a Pootung). Pochi giorni dopo il suo arrivo, Meisinger incontrò alcuni alti ufficiali del Kempetai (la polizia segreta nipponica) ai quali propose di radunare tutti gli ebrei tedeschi, austriaci e polacchi presenti in Giappone e in Cina in un campo di sterminio da allestire su una delle isole dello Yang Tse. Nei suoi diari, Shibata riferì che da quel momento il Kempetai iniziò ad applicare norme restrittive agli ebrei presenti in territorio cinese occupato. Dopo la guerra, la maggior parte degli ebrei di Shanghai e di Hankow emigrerà in Israele, Stati Uniti, Canada, Australia e Sud America per evitare le persecuzioni anti religiose del nuovo regime comunista di Mao. Ma torniamo a Shibata. Egli cercò di avvertire i membri della comunità ebraica, venendo però scoperto dall’ambasciata tedesca che protestò vigorosamente, costringendo il governo nipponico a sospendere Shibata dal suo incarico. A parte l’episodio di Shanghai e di Hankow (dove i nipponici rinchiusero i membri della locale comunità nel ghetto di Hongkew) tra il 1940 e il 1945, sul territorio nazionale il governo di Tokyo non perseguitò mai gli ebrei, limitandosi a chiudere momentaneamente alcune scuole di musica da questi gestite. D’altra parte, molto tempo prima (il 21 dicembre 1940) il ministro degli Esteri Matsuoka Yosuke aveva dichiarato ai capi della comunità semita di Kobe “di non essere assolutamente intenzionato ad assecondare in alcun modo la politica discriminatoria nazista”. Ma non è tutto. Sempre durante la Seconda Guerra Mondiale, Setsuzo Kotsuji, uomo di cultura e funzionario del ministero degli Esteri, sostenne con vigore i diritti degli immigrati. E nel 1946, pur rimanendo fedele allo scintoismo, egli prese il nome di Abramo, trasferendosi poi a Gerusalemme dove morì, trovando posto nel Giardino dei Giusti.
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