La prima commemorazione del convegno di Peschiera ebbe luogo l’8 novembre 1923 per iniziativa del Comitato di Torino dell’Associazione Monarchica Italiana (A.M.I.), il cui tangibile ricordo è immortalato nella lapide collocata sulla facciata esterna dell’edificio storico (la seconda fu posta dieci anni dopo all’interno della Sala). Nel bel fascicolo approntato per quella cerimonia fanno spicco due documenti che erano già stati pubblicati l’anno precedente, il 4 novembre 1922, su “l’Arena di Verona”: una lettera del Generale Luigi Segato (durante il primo conflitto mondiale aveva comandato il XII corpo d’armata) e la relazione ad essa allegata, a firma diVittorio EmanueleOrlando all’epoca Presidente del consiglio, che tratta del convegno dell’8 novembre 1917. Da quel racconto (che sarebbe servito al Generale Segato per il suo volume “L’Italia nella Guerra Mondiale”, pubblicato nel 1935), ampliato dalle testimonianze dei presenti. (Lloyd George, Bissolati e Ugo Ojetti) e dalla vasta bibliografia che parla di quella giornata prende spunto la presente trattazione. Si tralasciano qui le implicazioni di ordine morale, politico e militare che portarono alla ritirata di Caporetto per porre l’attenzione sui rapidi eventi che portarono alla duplice decisione di fermare l’Esercito italiano sulla linea del Piave, sostituendone i vertici, nonché alle modalità con cui furono predisposti gli aiuti militari alleati destinati all’Italia. La nostra ritirata dell’autunno del 1917, a causa delle sue vaste proporzioni, mise in serio allarme gli alleati (Francia e Inghilterra) che si orientarono ad intervenire in nostro aiuto: l’eventuale, totale nostra disfatta avrebbe infatti consentito agli austro-ungarici di convogliare tutte le loro forze sul settore occidentale, con conseguenze facilmente immaginabili, tenuto conto che anche la Russia era ormai fuori dal conflitto a causa dei noti fatti rivoluzionari. Il 30 ottobre, giungeva in Italia il comandante in capo delle forze francesi, generale Foch, accompagnato dal generale Weigand. Quanto agli inglesi, il loro apporto, pur avvallato dal Governo di Sua Maestà, trovò iniziale opposizione da parte del Capo di Stato Maggiore generale Robertson e ancor più da parte del generale Haig, comandante delle truppe inglesi in Francia. Ma le pressioni del Primo ministro francese Painlevé e l’intervento del premier Lloyd George sbloccarono la situazione. Il 31 ottobre anche Robertson giunse in Italia, a Treviso, e insieme a Foch ebbe un incontro con il generale Cadorna al quale, con poco tatto, i due consegnarono un breve scritto con suggerimenti ed esortazioni. La sostituzione dal Comando di Cadorna era da giorni all’attenzione del Re il quale, il 4 novembre, nei presso di Rovigo, conversando con il ministro della Guerra, generale Alfieri, fece per primo il nome del sostituto di Cadorna, cioè Armando Diaz. Questa decisione il re la prese “nel tratto compreso tra il ponte della ferrovia e quello della strada provinciale per Monselice”, come precisa il secondo Aiutante di campo del Re Vittorio Solaro Dal Borgo nel suo libro-diario. Sebbene i il giorno prima si fosse pensato di affidare l’incarico al Duca d’Aosta, coadiuvato da Diaz e Giardino. La scelta di Diaz fu determinata dal fatto che egli possedeva tutte le qualità ritenute utili e necessarie in quel momento: godeva dell’apprezzamento del ministro Alfieri e di Nitti, possedeva equilibrio e duttilità nelle relazioni fra potere militare e potere politico,manifestava la tendenza ad evitare inutili spargimenti di sangue. Era, insomma, l’opposto del generale Cadorna. Inoltre, Diaz godeva della stima del Re che ne conosceva assai bene il profilo. Diaz aveva partecipato alla campagna di Libia, riportando anche ferite, si era poi rivelato un ottimo segretario del Capo di Stato Maggiore Alberto Pollio prima della guerra e successivamente di Cadorna. Solerte Capo reparto operazioni all’inizio del conflitto e ufficiale brillante in guerra, sia al comando prima dalla 49a Divisione, sia quando gli venne affidato quello del XXII Corpo d’armata. Diaz era stato sempre amato da tutti: dal semplice fante fino ad arrivare agli alti vertici militari Si narra che, durante un’ispezione regia alle linee, Diaz abbia fatto attendere Vittorio Emanuele. “Prima vengono le truppe e l’azione e poi Sua Maestà”. Ma torniamo agli eventi. Il giorno 5 giunsero all’Hotel Kursaal di Rapallo i capi politici e militari dell’Intesa: oggetto della conferenza, la critica situazione militare italiana. I lavori ebbero inizio alle 10,15. rappresentavano l’Italia il Presidente V.E, Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino; il premier inglese Lloyd Gorge, accompagnato dal Consigliere militare generale, il sudafricano Jan Christiaan Smuts e dal Segretario del Gabinetto di guerra Maurice Hankey. Per la Francia era invece presente Paul Painlevé in compagnia del ministro della Guerra Franklin-Bouillon e del consigliere militare Maggiore Jacques Heibronner, L’intervento di apertura Lloyd George si in concentrò sul “dovere” degli Alleati di venire incontro all’Italia, anche nell’interesse di Francia e Inghilterra. Quanto agli aiuti, i francesi avrebbero fornito 10 ottime divisioni, sei francesi e quattro inglesi, ma a condizione di un cambio dei vertici militari italiani e dell’organizzazione del Comando Supremo. Identiche le considerazioni francesi, espresse da Painlevé. Dopo la conferenza, verso le 19,00, gli inglesi e i francesi questa volta con i rispettivi rappresentanti militari, si riunirono da soli per esporre quanto deciso dai politici e per definire i dettagli operativi del trasferimento in Italia delle degli aiuti. Al termine della sessione, emerse il problema di “come dimissionare” il generale Luigi Cadorna. Sir Hankey prese in disparte il Capo di gabinetto di Sonnino, conte Aldovrandi Marescotti,informandolo che presto a Parigi si sarebbe istituito il Consiglio superiore interalleato: organismo del quale Cadorna avrebbe potuto fare parte quale rappresentante dell’Italia. Dopodiché la conferenza di Rapallo terminò i suoi lavori pur rimanendo in piedi una non semplice questione, e cioè quella relativa al futuro attestamento delle truppe italiane dopo la loro tragica ritirata. Si accennò ad una linea sull’Adige, sul Mincio e addirittura sul Po. Soluzioni estreme molto mal viste da Vittorio Emanuele. Occorreva dunque un secondo, risolutivo incontro. Si convenne quindi di riunirsi l’8 novembre a Peschiera. Il 7, le delegazioni partirono alla volta della località del Garda, dove giunsero la mattina successiva dopo un viaggio estenuante. La giornata era triste e uggiosa; pioveva da giorni e la cittadina era in parte allagata. Alla stazione non vi erano macchine ad accogliere gli ospiti. Gli inglesi, giunti per primi, non scesero dal treno rimanendo nei vagoni “a lavorare” in attesa che si organizzassero i trasporti; mentre i francesi, che più prudentemente si erano fatti seguire dalle loro macchine, ne misero a disposizione una che andò ad affiancare quella del re che, già arrivato sul posto, stava intrattenendosi a colloquio con Orlando e Bissolati. Lo scrittore Rudyard Kipling, presente all’evento, così descrisse il sovrano: “Nessun equipaggiamento o seguito speciale lo distingue da qualsiasi generale in tenuta di guerra, fino al semplice nastrino che indica il numero delle battaglie al fronte. Egli incede sobrio, leale, pronto, con una rigida semplicità tra i suoi soldati e tra i molti pericoli della guerra”. Da poco egli aveva rifiutato la Medaglia d’Oro proposta dal Consiglio dei ministri dicendo: “Non ho conquistato alcuna quota difficile; vinto nessuna battaglia, non ho affondato alcuna corazzata; compiuto alcuna gesta di guerra aerea”. Il luogo prescelto per l’incontro segreto era all’epoca una piccola aula al primo piano della locale scuola elementare che durante la guerra era diventata sede di un comando di battaglione, nell’area delle fortificazioni del noto Quadrilatero. “Il Re si ferma sulla porta – riferisce Ugo Ojetti – sbottona il pastrano, ci guarda uno a uno, con quella impercettibile scossa del capo che gli è propria, salutati quelli che riconosce e par che li conti”. In realtà li contò, tanto è vero che nel suo diario scrisse di “undici” (lui escluso) partecipanti, invitandoli in una sala riscaldata da una stufa tirolese e con al centro un tavolo ricoperto da un panno verde. Sala che verrà poi illustrata dalla famosa cartolina commemorativa del pittore Sinibaio Tordi. Per l’Italia erano presenti, oltre al re, il presidente del consiglio V.E. Orlando, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il ministro della Guerra, generale Vittorio Alfieri e il ministro per l’Assistenza alle truppe combattenti Leonida Bissolati. Con il premier inglese David Lloyd George erano il Consigliere militare generale Jan Christisan Smuts, il Capo di Sato Maggiore generale William Robert Robertson e dell’Esercito Henry Hughes Wilson. La delegazione francese era guidata dal primo ministro Paul Prudent Painlevé accompagnato dal ministro Henry Franklin-Bouillon e dal Capo di Stato Maggiore, generale Ferdinand Foch. Prima dei colloqui, che durarono circa tre ore, Vittorio Emanuele disse ai suoi che sulla situazione militare desiderava esporre e discutere da solo; secondo le memorie di Orlando, egli fu il “principalissimo oratore”, essendo stato oltretutto riconosciuto Presidente del convegno. Non fu stilata una relazione ufficiale, ma la cronaca dell’avvenimento risulta documentata dalle testimonianze dei partecipanti, tra cui la citata lettera del presidente Orlando al generale Segato. Il re d’Italia si era prefisso due obiettivi, non del tutto perseguiti a Rapallo: riconquistare la fiducia degli alleati nei riguardi dell’esercito italiano, di cui stimava il valore, e fare accettare la sua proposta di una linea di resistenza sul Piave. Quanto al cambio dei vertici militari, il re aveva già anticipato gli alleati di avere deciso la sostituzione di Cadorna con Armando Diaz. Parlando in inglese e traducendo poi per i francesi, il sovrano tenne testa a tutti vincendo la sua naturale ritrosia a mettersi in mostra. Sottolineò (come già Lloyd George a Rapallo) che qualora gli austro-germanici non fossero stati subito fermati, la minaccia dei crollo avrebbe coinvolto – con l’Italia – anche la Francia e l’Inghilterra. Il destino dell’Italia, in sintesi, condizionava quello degli alleati. Lloyd George fu colpito “dalla calma e dalla forza” del sovrano, che si disse pronto ad abdicare in favore del piccolo Umberto pur di non firmare una pace “vergognosa”. Il premier inglese così continua parlando del re: “Con la sua maschia eloquenza egli dissipò tutti i dubbi, troncò tutte le titubanze. In una situazione molto precaria si può dire che egli sia stato il salvatore della causa degli italiani e degli alleati”. Con incrollabile fermezza,Vittorio Emanuele sottolineò che la sconfitta non era irrimediabile e che tutto non era perduto: la linea del Piave poteva già contare su 400 cannoni d’assedio e su 600 pezzi da campagna già schierati sulla riva destra del fiume. Di fronte alle perplessità alleate di schierare i loro uomini su tale linea il re precisò che “è questo un compito che gli italiani sapranno svolgere da soli. Il mio popolo non vuole chiudere la sua guerra con una sconfitta, ma con la vittoria. Questo di oggi è soltanto un momentaneo smarrimento di cui il mio popolo avràla rivincita. Statene certi, come lo sono io” (i rinforzi alleati, infatti, entreranno in azione solo nelle azioni belliche del dicembre ’17 sul Grappa, rimanendo fino ad allora nelle retrovie, in posizione di riserva). In riferimento al rovescio subito, la responsabilità non andava ricercata nei soldati, ma nelle avverse condizioni in cui si era operato: presenza di nebbia, ufficiali inesperti e (aggiungiamo noi, perchè all’epoca ciò non era noto) l’uso massiccio da parte dell’artiglieria austriaca proiettili chimici al fosgene. Ma queste cose erano note a Lloyd George, consapevole del valoroso comportamento degli italiani nei due anni e mezzo di guerre. Le critiche furono quindi dirottate sui comandi. Proprio per questa ragione gli alleati dichiararono di non essere disposti ad affidare le proprie truppe al già per altro ‘epurato’ Cadorna.Vittorio Emanuelechiuse il suo intervento citando un vecchio proverbio italiano: “In guerra si va con un bastone per darle e con un sacco per prenderle!”. L’intervallo del pranzo divise le delegazioni. Gli inglesi e i francesi tornarono al treno ospitando Bissolati e Ometti, mentre il re, sceso al piano terra, condivise con Orlando e Sonnino un modesto pranzo (una fettina di carne fredda e uovo sodo). Sotto il profilo militare, l’apporto alleato fu quello stabilito a Rapallo: sei divisioni francesi, di cui due già in viaggio e quattro che avrebbero costituito la 4a Armata del Generale Fayolle, più altre quattro inglesi comandate dal Generale Plumer. Le rispettive “Missioni militari” avrebbero posto i propri comandi a Padova e dintorni. Nel pomeriggio le delegazioni straniere ripartirono, mentre il re, avvicinandosi ad una finestra, esaminò il messaggio alla nazione preparato dal presidente del consiglio che così iniziava: “Sciagura ha straziato il mio cuore di Italiano e di Re…”: frase catastrofica subito cancellata dal sovrano che, nel finale, volle inserire un nobile appello di incitamento agli italiani. Il messaggio venne diramato il 9 novembre. La sostituzione di Cadorna era stata proposta (o meglio, imposta) dagli alleati a Rapallo il giorno 6. Non rimaneva che trovare la maniera diinformarlo senza ferire il suo orgoglio. La sera del 7, vigilia di Peschiera, verso le ore 19,00 il Sottocapo di Stato Maggiore, generale Carlo Porro, messo a parte della novità, si reca a Palazzo Dolfin Papadopoli di Padova, sede del Comando Supremo. Avvicina il generale Cadorna e parla con lui per circa mezz’ora. Terminato il colloquio, Cadorna non appare molto scosso. Soltanto durante la cena si lascia andare a recriminazioni, minacciando di non rimettere l’incarico e di non accettare il trasferimento a Parigi che reputava una manovra per mascherare l’ingiusto siluramento. Il mattino seguente, alle 7, 30, prima di partire per Peschiera, il re si reca da Cadorna per ufficializzare la decisione; e di fronte alle reiterate rimostranze, il sovrano lascia correre e passa ai saluti. A mezzogiorno tocca al colonnello Rota, del ministero della Guerra, consegnare a Cadorna il dispaccio firmato da Alfieri. Subito dopo, l’ufficiale parte per il Comando del XXII Corpo d’armata, ubicato a Meolo, per la consegna della nomina all’ignaro generale Armando Diaz. Sono le 16,30. Il giorno dopo Diaz scrive alla moglie perinformarla, aggiungendo: “Il peso che grava sulle mie spalle è immenso, assai più pesante di quanto possa immaginare e come base non ho che la mia fede infinita e la fiducia in Dio che prego mi voglia dare forza per affrontare l’arduissimo problema”. “Alle 17,30, un’ora dopo la comunicazione ufficiale, mi sono recato qui a Padova ove veduto varie persone militari e politiche, e poi Cadorna. L’incontro è stato semplice e dignitoso per quanto non facile”. Con il “cambio di consegne” tra i due si era adempiuto alla parte più difficile del convegno di Peschiera. Iniziava l’ultima e più gloriosa pagina di storia patria, quella che porterà alla vittoria finale.
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