Breve storia della radio italiana, perno del regime fascista, ma anche laboratorio sperimentale di eccellenza e banco di prova per le successive sperimentazioni di settore non solo a livello nazionale, ma internazionale.
Quando nella seconda metà degli anni ’70 gli studiosi incominciarono ad interessarsi alla storia del Ventennio fascista, con un atteggiamento più equo e disposto a mettere in luce anche gli esiti di modernizzazione raggiunti dal regime sia sul piano economico che culturale, ci si rese conto che la precedente storiografia non aveva adeguatamente esaminato l’indagine nel settore della “comunicazione di massa”, vale a dire, del trasferimento e diffusione dell’informazione e della cultura ad un vasto quanto eterogeneo pubblico, disseminato su un ampio territorio. In poche parole, soltanto trent’anni fa o poco più gli storici si resero conto che non molti fra loro, e con risultati non del tutto esaustivi, avevano studiato a dovere il materiale degli archivi della Rai per scoprire i progenitori della concessionaria radio-tv, e per ricercare le ragioni e il successo del suo monopolio culturale. Poco, insomma, avevano fatto per riportare alla luce, e agli onori della cronaca, la vicenda dell’EIAR, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche e, prima ancora, quella dell’URI, l’Unione Radiofonica Italiana. Grazie agli studi di Franco Monteleone (Padova, 1976), Antonio Papa (Napoli, 1978) e Alberto Monticone (Brescia, 1978), e al mosaico storiografico sul fascismo si è però potuto aggiungere nuovi, indispensabili tasselli necessari per ricostruire l’intera storia della radio: uno strumento che, come è noto, fornì anche un fondamentale contributo al consolidamento dell’immaginario fascista, pilastro su cui era poggiato il consenso popolare al regime e al partito.
Le prime norme sulla radio-comunicazione
Per meglio comprendere lo sviluppo della tecnologia e delle normative sulla radiofonia, occorre fare un passo indietro. La prima legge sul settore radiofonico, la n.395, risale al lontano 1910 e fu opera dell’allora ministro delle Poste Augusto Ciuffelli. Si ispirava, più che altro, ad esigenze di carattere
militare e sicurezza nazionale, e l’esercizio delle radiocomunicazioni era compreso nella sfera dei servizi pubblici, con notevoli restrizioni circa le concessioni ai privati. I legislatori non avevano fatto distinzioni fra le tecniche di radiotelegrafia “da-punto-a-punto” e quelle radiofoniche cosiddette “circolari”, nel senso della diffusione di massa. Una distinzione che andava fatta, ma non se ne ebbe il tempo poiché lo scoppio della prima guerra mondiale troncò ogni possibilità di regolamentare, per via parlamentare, l’uso della nascente tecnologia radio e discuterne le potenzialità. Dopo la Grande Guerra, a
partire dagli anni ’20 si passa dallo sfruttamento commerciale della sola “radiotelegrafia” alla creazione delle prime società di “radiodiffusione”, il cosiddetto broadcasting . Fin dall’inizio si definironoi due modelli di organizzazione nazionale della comunicazione di massa che sarebbero rimasti validi per tutto il secolo: da un lato, il monopolio pubblico (Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia); dall’altro lato, il sistema privato del network in USA. In
Italia, la debolezza dell’industria culturale (che non aveva risolto quello che definiamo un analogic divide), un benessere non ancora diffuso oltre i confini della minoritaria classe borghese urbanizzata e, infine, uno spirito imprenditoriale disposto a scommettere nell’ampio settore delle comunicazione (non soltanto sulla radio) solo dietro opportune garanzie politiche, furono i solo dietro opportune garanzie politiche, furono i principali fattori che portarono le scelte economiche e i provvedimenti legislativi di fronte alla necessità di affrontare il problema: bisognava infatti decidere quale struttura e quali regole dare al nuovo settore. Una questione urgente, già rimandata diverse volte.
Ancora nel 1922 “l’Italia è l’unica delle grandi potenze che non abbia ancora un completo e organizzato servizio pubblico radiotelegrafico internazionale
regolato e controllato da un grande ente” così scriveva l’avvocato Filippo Bonacci al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giacomo Acerbo. Non tutti sanno che l’avvocato Bonacci era il portavoce di Guglielmo Marconi, l’uomo che ha “inventato” la radio.
Un’inesattezza sul piano storico, e un’occasione che l’Italia si lasciò sfuggire
Marconi fu quel geniale ragazzo che a soli 21 anni, nel 1895, scoprì per primo un modo efficace per trasmettere a distanza segnali elettromagnetici: la Radiotelegrafia, il principio delle future trasmissioni radio e televisive. La scoperta di Marconi, però, ebbe reale applicazione solo dopo che due statunitensi, Fleming e Forest, inventarono due tipi di valvole termoioniche, il diodo nel 1904 e il triodo due anni più tardi. Grazie ai due ricercatori americani, la radiotelegrafia di Marconi diventò la radio come noi oggi la conosciamo, che valse allo scienziato italiano il premio Nobel per la Fisica.
Marconi, di padre bolognese e madre irlandese, era però anche imprenditore, e non trovando fiducia e denaro in Italia portò le sue scoperte altrove, perché la classe dirigente italiana non fu evidentemente lungimirante. Il giovane scienziato si trasferì quindi in Inghilterra dove, il 2 giugno 1896, brevettò, con il
sostegno del Dipartimento Telegrafico del Post Office, il suo “oscillatore antenna-terra” che, precedentemente offerto al governo italiano, era stato
cortesemente rifiutato.
All’età di 22 anni Guglielmo Marconi diventò celebre anche oltreoceano: nel 1912, l’American Marconi Society avrebbe conquistato il monopolio delle comunicazioni marittime. Solo a questo punto Marconi fu ammesso nei “salotti buoni” della politica e degli affari italiani e accolto nel Partito Nazionale Fascista come la più grande personificazione del “genio italiano”. Il Marconi imprenditore aveva comunque intenzione di partecipare allo sviluppo
dell’economia italiana, e ripetute volte aveva affermato la convenienza di investimenti esclusivamente nazionali, specialmente nel settore delle
comunicazioni. Aveva infatti ben presente la portata storica delle proprie invenzioni e soprattutto del potenziale giro di affari che ciò implicava.
Tuttavia, l’unico cospicuo capitale italiano (per altro accumulato in diversi paesi del mondo salvo che in Italia) era proprio il suo. Marconi, però, oltre a potenti amici, aveva anche potenti avversari, fra i quali il ministro delle Poste, Colonna di Cesarò, orientato verso i grandi investitori tedeschi e francesi.
Il “Gruppo Marconi” e gli investitori stranieri
Nel nuovo quadro politico degli anni ’20, le pressioni della “lobby Marconi” si fecero insistenti. Luigi Solari, suo braccio destro, conosciuto come “fascista della prima ora”, nel 1923 inviò un rapporto al Duce nel quale venivano presentati i vantaggi politici di una convenzione tra Marconi e Ministero degli Esteri per la nascita di una radiofonia tutta italiana ma di portata e valore internazionale. Lo stesso Guglielmo Marconi scrisse a Mussolini una lettera sulla necessità di regolamentare la radiofonia come servizio pubblico di interesse nazionale, sotto il controllo dello Stato e, inoltre, sulla necessità di combattere le iniziative del capitale straniero. Con il Regio Decreto n.1067 del 1923 i princìpi di Marconi ebbero ragione, ma non ottennero l’elemento più importante, cioè l’esclusività degli investimenti. Probabilmente fu una mossa oculata del governo italiano che, in un settore nascente come quello della comunicazione, giudicava conveniente non creare un monopolio privato dominante. Si aprì quindi la possibilità per le compagnie straniere di entrare nel mercato italiano. I primi furono i tedeschi della Telefunken e i francesi della Société Generale de Telegraphie Sans Fil, che presentarono richieste ufficiali di concessioni, in
aperta competizione con il gruppo di Guglielmo Marconi, che fece il possibile per guadagnarsi la posizione predominante grazie agli accordi sottoscritti con
il governo italiano nel 1916. Sfortunatamente, tali accordi avevano come scadenza proprio l’anno 1923 ed erano più che fondate le voci secondo cui il governo Mussolini non aveva intenzione di rinnovarli. Un’apposita commissione nominata da Mussolini nel 1922 aveva, infatti, stilato un rapporto nel quale si affermava la non convenienza di un servizio di comunicazione via radio affidato alla gestione di una sola compagnia privata e inoltre, con il Decreto Legge dell’8 febbraio 1923, veniva avviata l’unificazione di tutti i servizi del settore delle comunicazioni, che sarebbero stati gestiti direttamente dallo Stato tramite un organismo creato appositamente. Con la partecipazione di capitali francesi e tedeschi, nel corso dello stesso 1923 nasce l’ente Italo Radio, che segna una pesante sconfitta per Marconi e il proprio gruppo, il quale perde definitivamente la possibilità di arrivare al monopolio. Tuttavia non significava che i giochi erano conclusi, anzi, si aprivano sconfinate possibilità di grandi affari, e i dirigenti del gruppo Marconi non avevano intenzione di mollare. A tale scopo, il gruppo Marconi crea la società Radiofono, in concorrenza con Italo Radio, e con la speranza o, meglio, la segreta convinzione che i rapporti di forza politica ed economica potessero cambiare. Fin dall’inizio le difficoltà furono enormi, ma il panorama sarebbe effettivamente cambiato. Nel 1924, le
amministrazioni di Ferrovie, Poste e Telegrafi, Telefoni e Marina Mercantile furono unificate nel nuovo ministero delle Comunicazioni. Il ministro Colonna di Cesarò fu esautorato e al suo posto subentrò Costanzo Ciano, padre del futuro genero e ministro degli Esteri del Duce. Guglielmo Marconi non avrebbe potuto chiedere di meglio. Ciano e Marconi erano accomunati da comuni trascorsi in Marina, che avevano cementato eccellenti rapporti. Soprattutto, Ciano era convinto che l’innovativo “sistema di trasmissione OC a fascio”, brevettato da Marconi, avesse reso un gran servizio alla Marina durante la prima guerra mondiale. Non solo: Ciano era propenso ad aprire il mercato italiano della comunicazione alla americana Western Electric, piuttosto che alle società franco-tedesche. Marconi era quindi favorito, dal momento che da tempo aveva ottime relazioni con numerose realtà industriali in USA, dove aveva trovato denaro e fiducia sufficienti a sperimentare idee e progetti scientifici fin dagli esordi, quando era solo un giovane, brillante e coraggioso sperimentatore di “cose inaudite”.
Nasce l’Unione Radiofonica Italiana
Nonostante il flop incassato nel tentativo di trasmettere la voce del Duce durante il discorso al Teatro Costanzi di Roma, il 25 marzo 1924, la Radiofono assume un ruolo di primo piano nei progetti di sviluppo del ministero delle Comunicazioni. Il 3 giugno sucessivo il ministro Ciano comunica alla Radiofono e alla SIRAC, società avamposto sul mercato italiano per la commercializzazione degli apparecchi Western Electric, che il governo avrebbe affidato il servizio radiofonico ad una nuova società unificata e, quindi, invitava alla fusione. Il 14 giugno la società di Marconi comunicava di aver raggiunto l’accordo e il 27 agosto 1924 nasceva l’U.R.I. l’Unione Radiofonica Italiana, costituita da Radiofono, azionista di maggioranza e SIRAC. Nel Consiglio d’Amministrazione del nuovo gruppo, presero posto due ingegneri della Western Electric, Solari alla vicepresidenza, ed Enrico Marchesi (ex direttore centrale FIAT) veniva nominato presidente. A questo punto i giochi erano fatti: l’URI, sostanzialmente “bisnonna” della nostra Rai, nasce da una soluzione tra il capitale italiano del gruppo Marconi e capitale americano della Western Electric. Un accordo di compromesso grazie al quale i due partner si divisero il mercato. Dal 1925 al 1943 le stazioni trasmittenti sarebbero state fornite dal Gruppo Marconi, mentre la Western Electric sarebbe stata più interessata alla produzione e vendita di apparecchi radio riceventi. Con Ciano al ministero delle Comunicazioni fu di fatto impossibile per le società francesi e tedesche, che avevano partecipazioni nell’industria dei servizi radiotelegrafici, di espandersi anche nel settore radiofonico. La convenzione del 27 novembre 1924 tra URI e ministero delle Comunicazioni sancisce la nascita della figura giuridica della “Società Concessionaria” oggi molto in voga, e al tempo stesso sanciva la nascita di un vero e proprio “regime radiofonico” nel quale lo Stato concede all’URI l’esclusiva del servizio di radio-audizioni circolari su tutto il territorio nazionale per sei anni. Il 6 ottobre 1924 si inaugura il servizio regolare di trasmissioni radiofoniche e nel dicembre seguente il monopolio URI era di fatto una realtà. Con il passare degli anni, lo Stato avrebbe poi acquisito porzioni sempre maggiori del capitale inizialmente investito dai privati, fino ad ottenere il pacchetto di maggioranza. Ma tutto questo non prima che in Italia fosse terminata un’epoca e ne fosse cominciata un’altra.
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