L’alta montagna, anche quando non è Himalaya, ma soltanto arco alpino, non va presa sotto gamba. Sopra i tremila metri, la fatica comincia a farsi sentire e, se non hai la gamba buona, son dolori: sbanfi e soffi come un mantice e ti sembra che la strada non finisca mai. Chi scrive, nonostante la sua proverbiale pigrizia, ogni estate è quasi costretto a scarpinare avanti e indietro per forre e vedrette dell’Adamello, avendo casa proprio ai piedi del Caré Alto, che se ne sta lì, in certe mattine terse di luglio, e sembra dirti: ohè, ma allora non vieni? E non c’è volta che, camminando sulla stramaledetta sassonia, che la fa da padrona nelle valli adamelline in quota, oppure pesticciando quel ghiaccio grigio e granuloso, che sembra granita, non gli venga da pensare: ma chi me l’ha fatto fare? Invariabilmente, in quella circostanza, dopo i moccoli di prammatica, lo scrivente pensa allo scrittore, anzi, allo scrittor degli scrittori, il Gadda Carlo Emilio, e alle sue pagine memorabili sulla fatica della naja scarpona, tra il Brizio e il Garibaldi, tra il Matarot e le Lobbie. Di quando, in servizio di corvée sul Pian di Neve, cadde come un mulo “fottuto di fatica” e rischiò seriamente il congelamento agli arti: aveva fatto due turni di rifornimento munizioni sul ghiacciaio, senza soste né rancio, e crollò disteso a dormire. I suoi alpinacci nemmeno se ne accorsero, e continuarono con il loro passo caratteristico, con le teste quasi insaccate nelle spalle. Ed egli rimase lì, come se gli avessero dato una legnata, mentre shrapnel ansimanti salivano da Val Genova, ad interrompere brevemente il silenzio bluastro della vedretta. Fu quello il primo accenno che leggemmo, della Grande Guerra del capitano Gadda, e ci rimase nella mente, perché tanto prossimo alle nostre pittoresche madonne e alla nostra stessa caparbietà, di fronte all’inadeguatezza alla fatica. Gadda, però, non era affatto inadeguato: caparbio sì, anzi ostinatissimo, ma allenato e pronto. Aveva passato molte domeniche, col fratello, i cugini, gli amici del “Parini”, sui Corni di Canzo, in Grigna, sul Mottarone, ed aveva marciato in ordine chiuso con il Battaglione Negrotto, nei giorni dell’interventismo, tra Sarajevo e il Patto di Londra, quando aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo: morte a Giolitti evviva la guerra! La guerra era venuta, con un mezzo coup d’état, trescato da re Vittorio, da Salandra e da Sonnino alle spalle del Parlamento: la guerra era venuta e i Gadda ci andarono, volontari. Carlo (l’Emilio venne aggiunto in tempi più letterari), classe ’93 ed Enrico, di due anni più giovane, partirono al pari di tanti giovani della buona borghesia milanese, cui tanto dovette la causa patriottica tra Risorgimento e Vittorio Veneto. D’altronde, in casa Gadda il patriottismo era di casa: si può dire che i ragazzi l’avessero respirato: a parte il ministro, Giuseppe Gadda, zio dello scrittore, tutti, anche dalla parte materna dei Lehr, erano stati ferventi patrioti, ostili (i Lehr venivano dall’Ungheria) a Franz Josef e all’aquila bicipite. L’intervento e il volontarismo furono, per così dire, scelte obbligate. Carlo, data la stazza, fu prima arruolato nei granatieri, ma poi, su sua richiesta, fece il corso ufficiali negli alpini, e alla penna rimase fedele per tutta la sua vita militare. Come prima nomina lo mandarono al deposito del 5° reggimento, a Edolo, dove, almeno stando alla sua testimonianza diretta, non si trovò tanto bene: era troppo serio e ingenuo, e non gradiva gli scherzi e l’atmosfera un po’ volgare della cappella. Leggendo le prime pagine del suo “Giornale di campagna”, si resta colpiti dalla sua difficoltà ad ingranare con i commilitoni, che, probabilmente, lo consideravano un poveraccio, quello che oggi si direbbe un “imbranato”. Proverbiale è lo scherzo con cui lo costrinsero a girare per il paese camuno col berretto da fante, facendogli credere che il cappello alpino potesse essere indossato solo dopo l’arrivo della nomina a ufficiale: scherzo che gli costò un rabbuffo dai superiori e molta bile masticata ed affidata alle pagine del diario, che poi divenne il celebre “Giornale di guerra e di prigionia”, e che avrebbe visto la luce soltanto molti decenni più tardi. Da Edolo, Gadda, bramoso di pugna e, invece, costretto all’inerzia, salì verso il Tonale e, poi, finalmente, in Adamello. Da novellino e, ancor più, da cittadino senza particolari atout alpinistiche, non venne certamente impiegato in azioni particolarmente rischiose: per quelle c’erano i mascabroni di Nino ed Attilio Calvi, i Sora, i Battanta, gli sciatori del Garibaldi. Gadda fece, comunque, il suo pieno dovere, così com’era nelle sue attitudini: era un ufficiale scrupolosissimo e serio, anche se poco appariscente, come avremo modo di vedere più avanti. Per la verità, egli, ne “Il castello di Udine” scrisse di aver chiesto ad Attilio Calvi di poter far parte del suo reparto sciatori, ma ne ricevette un cortese quanto deciso rifiuto: in quelle pagine, peraltro, Gadda stesso ammette che non sarebbe mai riuscito a stare a pari con quei diavoli scatenati, che, di lì a poco, avrebbero attaccato il Fargorida (e Attilio ci avrebbe lasciato la buccia). Per virtù militari sì, ammise Gadda, ma per capacità fisiche, giammai. L’immagine che lo scrittore ci lasciò dell’agonia dell’eroe bergamasco, in una tenda al Brizio, è quella di un uomo normale, di fronte ad una normale morte: ma che coraggio, ostia, che non riesco nemmeno a respirare! Così era Gadda: affabulava e creava fantastiche baroccherie sul nulla, ma descriveva la vita con un accento di verità e con un’onestà inscalfibili. Tutto il contrario del presunto realismo ad usum delphini dei neorealisti. Tornando alla guerra del Gaddus, egli, dopo l’Adamello, passò ai mitraglieri e lasciò il 5°: lo mandarono sull’Altopiano dei Sette Comuni, sul Monte Fior, sullo Zovetto e il Lémerle, che tanto spesso sarebbero tornati, nelle pagine dei suoi romanzi e racconti. Il suo reparto era tra i tanti che avrebbero dovuto tamponare l’offensiva austriaca del maggio-luglio 1916, nota ai più come “Strafexpedition”. In realtà, l’offensiva stava tamponandosi da sola, come certe onde che arrivano su su sulla battigia, e non hanno più forza, e la sabbia se le beve: tuttavia, su quelle montagnole ai limiti meridionali dell’acrocoro asiaghese, i nostri e i “tognini” se le suonarono di brutto. E ancor più se ne sarebbero suonate un anno e mezzo dopo, quando gli Austriaci, sull’onda del successo di Caporetto, ci riprovarono: va da sé che gli alpini, i bersaglieri, i fanti della “Sassari” erano ancora là ad aspettarli, e non passarono. Fu proprio parlando di quel periodo che Gadda ci lasciò alcuni indizi, importanti per comprendere come fosse stata la sua esperienza di guerra. Innanzi tutto, la sua innata incapacità di mettersi in mostra, che gli fece rimediare soltanto un “bronzino”: ne è rivelatore l’episodio dell’incontro con un capitano che, era stato superiore di Enrico Gadda e che, perciò, aveva chiacchierato amabilmente col fratello, raccontandogli meraviglie del Ricotto e del suo ardimento. Gadda uscì da quel colloquio con l’impressione di aver deluso il proprio interlocutore, che, data la stima per il Gadda più giovane, si aspettava dal maggiore qualcosa di più. Può essere che qui, in nuce, ritroviamo la vecchia “gaddaggine” del complesso dell’indesiderato, del figliolo cui non risere parentes. Tuttavia, qualcosa di vero, in Gadda, c’è sempre, anche sotto i paradossi più sfrenati: egli non aveva la capacità di piacere a prima vista e, certamente, non era un uomo appariscente. Un altro aspetto estremamente significativo del rapporto di Gadda con la guerra emerge più o meno dalle stesse pagine e nello stesso periodo, anche se sarebbe stato ripreso ne “Il Castello di Udine” e nella celebre “Impossibilità di un diario di guerra”: a Gadda la guerra piaceva. Non che non ne vedesse l’orrore, non ne cogliesse l’insensatezza (specialmente quando la si combatteva senza vincerla) o non ne sopportasse le privazioni: ma in guerra si sentiva libero, leggero, scaricato delle responsabilità sociali, personali e familiari. Come Gadda, se non temessimo di scrivere una bestemmia, scriveremmo che, in guerra, era felice. E’ un sentimento che, oggi, può apparire bizzarro, ma che allora era condiviso da molti intellettuali e ne rimase, infatti, traccia in tante pagine della nostra letteratura: si tratta di un sentimento di liberazione dalle pastoie del quotidiano, dalla palude, per dirla con Giuseppe Antonio Borgese. E proprio in “Rubé” di Borgese questo sentimento è espresso più analiticamente: lo scegliamo ad esempio, perché il critico siciliano non fu né interventista né combattente, il che lo esenta da sospetti di interesse politico o autoincensatorio. La guerra fu, per tanti giovani, un’occasione di emancipazione da una vita grigia: anche per questo, finito il conflitto, molti di loro non riuscirono ad accettare il rientro nella routine quotidiana: e si cercarono altre trincee ed altri conflitti. Anche lì dobbiamo indagare, per comprendere da dove nasca lo squadrismo fascista. Gadda, intanto, aveva lasciato il veneto ed era finito sull’alto Isonzo, nella zona Javorćek e poi sul Krasij Hrib: purtroppo, di quel periodo della sua esperienza militare, raccolto in quello che egli chiamava “Taccuino del ‘17”, non resta testimonianza diretta, se non per i brevi accenni che compaiono qua e là nelle opere dello scrittore milanese. Il taccuino andò perduto quando, il 25 ottobre del 1917, Gadda fu preso prigioniero, durante la battaglia di Caporetto. Egli sarebbe tornato alla sua trincea sul Krasij, durante un tristissimo pellegrinaggio effettuato nel 1919 e che l’avrebbe portato anche a visitare la tomba del fratello, caduto nella primavera dell’anno prima con il suo aeroplano, ma non avrebbe trovato il prezioso quadernetto. Certamente, sappiamo che egli aveva tenuto sempre le sue mitragliatrici Revelli e Saint Etienne ben oliate ed ingrassate, che aveva sempre pagato il calzolaio e la truppa: insomma, che Gadda era sempre stato Gadda. Ma, quanto a notizie importanti, su quel periodo: zero. Abbiamo, viceversa, molte informazioni autobiografiche sulla prigionia, prima a Rastatt e poi a Celle Lager, nello Hannover: i sentimenti dello scrittore, però, vi appaiono assai simili a quelli degli altri ufficiali reclusi. Tra questi, due personaggi che sarebbero stati importanti nel futuro di Gadda e delle patrie lettere: Ugo Betti e Bonaventura Tecchi. Gadda, però, nelle pagine del “Giornale di prigionia”, appare precocemente invecchiato, sfiduciato, quasi lasciatosi andare, come prova la “spumante epopea” del suo radersi, finalmente, tra gli applausi dei commilitoni. Non si tratta più di Gadda e della guerra, ma di Gadda e della vita: l’orrenda fatica del vivere. Di qui derivano altre pagine memorabili del gran lombardo, perché questo Gadda stanco ed accidioso è già il Gonzalo de “La cognizione del dolore”: tra le sue bizze si intravvedono “Le bizze del capitano in congedo”. Pare quasi che il Gadda, a Celle, già presentisse che la sua vita sarebbe stata atrofizzata e strozzata, di lì in poi: la guerra era stata una breve, frenetica, parentesi di fantasticheria eroica. Ora sarebbe subentrata la vita delle responsabilità, della malinconia e del rimpianto, del lavoro e delle mille scocciature: la vita dell’Ingegner fantasia. Proprio dalla morte in guerra dell’adorato fratello, visto, in contrapposizione alla succitata inadeguatezza di Carlo, come prodotto perfetto della famiglia (invece, Enrico era uno scavezzacollo, piuttosto egoista) derivò quel penoso senso di sopravvivenza sbagliata e di errore del destino, che tanta parte ha nella poetica gaddiana. Eppure, chi scrive, che pure ama Gadda in ogni sua piega e in ogni sua rabbia disperata, preferisce pensarlo steso come un mulo stracco sul ghiaccio ruvido del Mandrone, piuttosto che sospeso tra pavimento e soffitto, in un loculo che fa vergogna alla Patria che gli diede i natali, a Primaporta. “Condidit pietas” è scritto sulla lapide. Ma l’anima, la grande anima di Carlo Emilio Gadda, ci piace immaginarla a volare, come un’aquila libera e fiera, sulla gran becca dell’Adamello o sulle tre lobbie, corrucciate di neve e di sasso. Forse aveva ragione, il grande scrittore, concludendo le sue riflessioni sul suo rapporto con la guerra: avrei dovuto lasciarci la pelle. Tutto sommato sarebbe stata la cosa più ragionevole. A Gadda, forse, sarebbe piaciuto sparire così, inghiottito dalla guerra, come l’Emilio protagonista della sua “Madonna dei filosofi”. Ma noi non avremmo avuto la sua arte. Tutto si paga, a questo mondo…
(immagine tratta da http://ondalieve.blogspot.com/)
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.