In occasione della «Giornata del ricordo» che commemora i massacri delle foibe e l’esodo dei giuliani-dalmati mi sarebbe piaciuto rivedere le fotografie del nostro (?) presidente Sandro Pertini che, ai funerali di Tito, con aria affranta, toccava la bara del suo compagno. Firmato: sig. Caimati.
Baciava, caro Caimati: Pertini non si limitò a posare la mano sul feretro in segno di cordoglio. Lo baciò e così facendo baciò anche la bandiera jugoslava nella quale era avvolto. A dire la verità Pertini era solito sbaciucchiare bandiere e casse da morto e quindi quello che schioccò a Belgrado, in occasione dei funerali di Tito, potrebbe considerarsi normale routine. Siccome però non era la prima volta che con parole, gesti e fatti concreti l’allora presidente della Repubblica mostrava benevolenza nei confronti di chi, per ordine o per mano, aveva contribuito alla mattanza in Friuli e Venezia Giulia, viene da pensare il contrario. Non va infatti dimenticato che appena eletto presidente, si era nel 1978, Pertini concesse la grazia a quel Mario Toffanin, nome di battaglia «Giacca», che nel 1954 la Corte di Assise di Lucca condannò all’ergastolo (in contumacia, perché Botteghe Oscure riuscì a farlo riparare in Jugoslavia). Quel Toffanin che da capo partigiano della Brigata Osoppo si era aggregato, dandogli manforte, al IX Corpus titino responsabile delle foibe e che fu protagonista della strage di Porzûs. E che oltre all’ergastolo per i fatti di Porzûs avrebbe dovuto scontare anche trent’anni per sequestro di persona, rapina aggravata, estorsione e concorso in omicidio aggravato e continuato. Un criminale fatto e finito, dunque, al quale lo Stato, grazie alla famigerata «legge Mosca», elargiva persino la pensione.
Sandro Pertini gode di generale stima e talvolta, per fortuna solo talvolta, viene anche portato ad esempio. Con tutto il rispetto per i suoi ammiratori, resto però del parere che fu un mediocre presidente, assai poco indicato a rappresentare l’Italia e gl’italiani. Sul suo antifascismo ci si leva il cappello, ci mancherebbe altro; però me lo tengo ben calcato in testa alle sue gesta di antifascista a fascismo morto e sepolto. Quale fosse la caratura del suo reducismo antifascista è indicato chiaramente dal bacio al catafalco di Tito e dalla grazia a Toffanin, gesti che non possono non essere interpretati se non come espressione di consenso a quella particolare guerra partigiana, condotta con i metodi da macellaio, della Brigata Osoppo e del IX Corpus. Oltre tutto, che il condono della pena concesso a Toffanin non costituisse un misericordioso e circoscritto gesto di clemenza è confermato dal fatto che il beneficiato non ne approfittò per tornare in Italia dopo un quarto di secolo di latitanza. Restò in Jugoslavia (seguitando a percepire la pensione) fino alla morte, avvenuta nel gennaio del 1999.
(tratto da: Il Giornale, 16.2.2008)
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Con massacri delle foibe si intendono gli eccidi perpetrati per motivi etnici e/o politici ai danni della popolazione italiana di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, durante ed immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, per lo più compiuti dall’ Esercito popolare di liberazione iugoslavo. Negli eccidi furono coinvolti prevalentemente cittadini di etnia italiana e, in misura minore e con diverse motivazioni, anche cittadini italiani di etnia slovena e croata. Il nome deriva dagli inghiottitoi di natura carsica dove furono gettati e, successivamente, rinvenuti i cadaveri di centinaia di vittime, localmente chiamati appunto “foibe”. Per estensione i termini “foibe” ed il neologismo “infoibare” sono in seguito diventati sinonimi degli eccidi, che in realtà furono, in massima parte, perpetrati in modo diverso. Nonostante la ricerca accademica abbia, fin dagli anni ’90, sufficientemente chiarito gli avvenimenti, nell’opinione pubblica italiana la conoscenza del tema delle foibe continua a essere influenzata da tesi di parte, che pongono l’enfasi sulle responsabilità che fascismo (prof. Mancini Roberto, istituto Nazareno) e comunismo hanno avuto nella vicenda.
Tipologia delle vittime
Tra i caduti figurano non solo personalità legate al Partito nazionale fascista, ma anche ufficiali e funzionari pubblici, parte dell’alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo, tra cui compaiono esponenti di organizzazioni partigiane o anti-fasciste, sloveni e croati anti-comunisti, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini.
Modalità delle esecuzioni
Nelle foibe sono stati gettati cadaveri sia di militari che di civili. In alcuni casi, com’è stato possibile documentare, furono infoibate persone non colpite o solo ferite. Sebbene quest’ultima modalità di esecuzione fosse, come già detto, solo uno dei modi con cui vennero uccise le vittime dei partigiani di Tito, nella cultura popolare divenne il metodo di esecuzione per eccellenza ed un simbolo del massacro. In realtà la maggior parte delle vittime, date per infoibate, sono stati inviate nei campi di concentramento jugoslavi dove molte furono uccise o morirono di stenti o malattia.
Quantificazione delle vittime
Nel dopoguerra e nei decenni immediatamente successivi non furono mai effettuate stime scientifiche del numero delle vittime, che venivano usualmente indicate in 15.000 (e talvolta aumentate fino a 30.000). Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni novanta. Una quantificazione precisa è impossibile a causa di una generale mancanza di documenti. Il governo jugoslavo (e successivamente quello croato) non ha inoltre mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi. Alcuni commentatori ritengono inoltre che una parte della documentazione sia tuttora secretata negli archivi, in particolare dell’ex Partito comunista italiano[. Gli studi effettuati recentemente valutano il numero totale delle vittime (comprensive quindi di quelle morte durante la prigionia o la deportazione) come compreso tra poco meno di 5.000 e 11.000
Testimonianze
Furono poche le persone che riuscirono a salvarsi risalendo dalle foibe comunque tra questi Graziano Udovisi, Giovanni Radeticchio e Vittorio Corsi hanno raccontato la loro tragica esperienza a storici e/o emittenti televisive.
« Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri “facciamo presto, perché si parte subito”. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 k. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c’impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 m. e una profondità di 15 sino la superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai fondo e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole “un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo”, pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo. »
Questa testimonianza, della primavera del 1945, fu pubblicata la prima volta il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana triestina La Prora e poi fu riportata integralmente nell’opuscolo Foibe, la tragedia dell’Istria, edito dal CLN dell’Istria; è stata dopo spesso citata dalla pubblicistica del dopoguerra. Anche questa testimonianza non è passata indenne di fronte alle polemiche politico-storiografiche: recentemente Pol Vice, un saggista che si richiama espressamente all’ideologia rivoluzionaria di Marx, ha pubblicato un saggio critico all’interno del quale sottopone il testo di Udovisi ad una serrata critica, giungendo ad affermare che siamo in presenza di un falso testimone.
Paolo Granzotto
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