Conventio ad celandum
La storia, forse, ha la tendenza a ripetersi, ma, per certo, se lo fa, utilizza strumenti sempre diversi. Anche per questo, il lavoro dello storico si trova, spesso, a pencolare tra una mera attività archivistica e qualcosa di molto simile ad un’inchiesta giudiziaria: scoprire il bandolo della matassa, l’elemento determinante di un fenomeno storico dipende dal possesso di tutte le tessere del mosaico. E nemmeno questo, spesso, è sufficiente. La cosa assume proporzioni addirittura macroscopiche quando la materia dell’indagine storica sia assai remota, priva di fonti documentali dirette oppure assai ben camuffata, com’è il caso di cui oggi ci troviamo ad occuparci. Non si aspetti il lettore che chi scrive possieda certezze matematiche: in una materia protoplastica come questa, l’esperienza ci insegna che la certezza puzza di bruciato. Tuttavia, vi sono alcuni elementi di giudizio, che, come speriamo si evincerà con sufficiente chiarezza, ci permettono di azzardare un’ipotesi: per nulla suggestiva, purtroppo, anzi inquietante. Eppure perfettamente in linea con innumerevoli altre dimostrazioni di cinica realpolitik che caratterizzarono quel periodo controverso, noto ai più come Guerra Civile italiana. Quando si affronta un argomento legato a quei tremendi venti mesi di guerra fratricida una premessa diventa inevitabile: nessuno ha mai tentato di raccontarci la verità tutta intera. Anzi, vi è stata per decenni un’autentica conventio ad celandum, da parte non tanto di una singola parte politica, quanto da tutti coloro che, a prescindere dal proprio schieramento all’epoca dei fatti, avessero qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi. Si può facilmente immaginare quale sia stato il risultato di simile politica di occultamento: dapprima un silenzio generalizzato e, col passare del tempo, una riscoperta, un po’ sensazionalista, di tutto ciò che riguardasse quel periodo. Fatte salve le verità più drammaticamente eclatanti e con gli inevitabili eccessi che una simile situazione può aver generato. Oggi, grazie all’approdo alle grandi case editrici di opere di successo sulla nostra Guerra Civile, l’argomento ha perduto il proprio carattere di tabù: il rischio, però, è che, proprio la sua nuova popolarità ne provochi una sorta di banalizzazione, sostituendo a quella che Renzo de Felice chiamò “vulgata resistenziale” una nuova vulgata, la “vulgata vulgare”, per così dire. Così, ci ritroveremmo, a un dipresso, con una Guerra Civile depotenziata storicamente, laddove, viceversa, è nostra convinzione che essa andrebbe sviscerata in tutta la sua tragica potenza esemplare. Uno dei lati più controversi e meno analizzati sistematicamente di quel periodo è quello che riguarda la resa delle forze della Rsi, nei giorni immediatamente successivi alla data canonica del 25 aprile. Questo non tanto perchè non si conoscano abbastanza approfonditamente le condizioni operative e le modalità di resa dei singoli reparti repubblicani, quanto perchè nessuno si è mai preso la briga di creare una sorta di sinossi delle casistiche armistiziali, cercandone un comune denominatore, quando questo fosse ipotizzabile. E’ precisamente questo il tema del presente intervento: la speranza è quella di riuscire a riconoscere una sorta di “galateo”negli episodi in cui reparti in armi di militi saloini si siano arresi a forze partigiane del CLN. Anche se, come vedremo, il termine “galateo” va applicato in figura di ossimoro a questo genere di trattative diplomatiche.
Scatta la trappola.
Pur azzardando una disamina piuttosto sbrigativa e senza approfondire l’enorme casistica a disposizione, crediamo che colpisca la curiosità dello studioso soprattutto un aspetto di queste rese: la clamorosa differenza tra le modalità di contatto tra le parti e la conclusione, quasi sempre drammatica, della trattativa. Sintetizzando all’estremo, possiamo dire che i meccanismi d’ingaggio, di contatto e di resa siano quasi sempre molto simili, così come il precipitare della situazione, una volta disarmate le truppe fasciste. Solitamente, quando i comandanti dei singoli reparti si resero conto dell’ineluttabilità della resa, essi cercarono di mantenere compatto il gruppo, allo scopo evidente di difendersi meglio, e si rivolsero a quelle figure del territorio che dessero qualche garanzia di un’efficace possibilità di mediazione tra le parti. Per solito, questa mansione fu affidata ai parroci e ai curati, che, proprio per la loro posizione, sovente avevano mantenuto rapporti equidistanti (almeno sulla carta) tra Salò e i partigiani. Va inoltre sottolineato che essi avevano svolto attività di mediazione in occasione di rastrellamenti, rappresaglie e trattative attuate nel corso del conflitto. Per la verità, le figure di sacerdoti, nell’ambito della Guerra Civile, non furono tutte limpide icone di martiri, come l’agiografia tende a tramandare: molti di loro possono essere accusati, quanto meno, di atteggiamenti alla Don Abbondio, quando non di doppiogiochismo tout court. Questo, senza nulla togliere ai tantissimi preti eroici che spesso si sacrificarono per difendere i propri parrocchiani o per rivendicare i diritti dei prigionieri. Tuttavia, in un buon numero di casi, questi sacerdoti parvero assecondare la strategia dei partigiani, cui interessava, in primis, disarmare i soldati repubblicani, che spesso avevano ancora notevoli capacità combattive. Al contempo quei preti si disinteressarono del rispetto delle clausole di resa, che avevano permesso questa operazione di disarmo. In definitiva, essi furono spesso i garanti di un tradimento degli accordi, che, come si vedrà, avveniva con sconcertante frequenza, e con modi e tempi la cui omogeneità non può non farci riflettere sull’esistenza di una specie di protocollo segreto tra i membri del CLN di diversa matrice politica. Per maggiore chiarezza cerchiamo di ricapitolare. Prima di tutto i responsabili dei reparti saloini avviavano un contatto con il sacerdote di turno. Questi li metteva in relazione con un rappresentante del CLN (per solito, un ufficiale di carriera, badogliano) che curava la stipula delle regole armistiziali, comprendenti l’onore delle armi e le normali garanzie stabilite dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Ovviamente, la figura di un ufficiale del regio esercito dava maggiore autorevolezza a questi accordi, che erano quasi sempre scritti (anche se, poi, il documento di resa veniva fatto destramente sparire), oltre a garantire un comportamento rispettoso del diritto internazionale militare e di quel accordo tra gentiluomini che ha quasi sempre caratterizzato la diplomazia tra i belligeranti. Insomma, i comandanti repubblicani si sentivano rassicurati circa il destino dei propri uomini, quando la resa veniva trattata da ufficiali regolari e con la benedizione delle autorità ecclesiastiche: peccato che, spesso, questo apparato si sia rivelato una semplice facciata, dietro la quale erano in agguato uomini animati da sentimenti assai meno civili. Infatti, una volta garantitale l’impossibilità di nuocere, la truppa repubblicana veniva consegnata a qualche reparto garibaldino, che, dopo le sevizie di rito e il consueto bagno di folla inferocita, provvedeva a passare il reparto per le armi. Con tanti saluti per la convenzione di Ginevra e per le clausole, scritte o verbali, di resa. La cosa si è ripetuta, più o meno con le stesse modalità, in quasi tutte le peggiori stragi dell’aprile 1945. A cominciare da quella che riguardò la cosiddetta “colonna Vanna”, che si arrese in Valtellina nel pomeriggio del 28 aprile, grazie alla mediazione del vescovo di Sondrio, che ottenne condizioni di resa onorevoli per chiunque non si fosse macchiato di delitti efferati. Per la verità, anzi, anche le regole generali di resa per l’intera provincia, erano state sancite per iscritto in un documento controfirmato dalle massime autorità partigiane e fasciste, con la garanzia del vescovo. Fu il generale Onori a comunicare alle truppe repubblicane le modalità di resa, e il maggiore Vanna credette alle buone intenzioni del CLN, ordinando ai suoi di deporre le armi. Di costoro, più di cento vennero trucidati dai partigiani comunisti. Lo stesso accadde a Graglia, dove un reparto del 2°RAU si arrese ai partigiani la sera del 27 aprile, dopo che il viceparroco di Cigliano aveva prestato la sua opera di intermediario e aveva assicurato ai repubblicani il rispetto delle leggi di guerra: onore delle armi e garanzia della vita per tutti. Il tutto venne sancito per iscritto da un documento, controfirmato dal comandante fascista, il maggiore Invrea, e da due capi garibaldini. Ciò nondimeno, tutti i prigionieri vennero brutalmente trucidati, comprese alcune donne, il 2 maggio 1945, dopo un atroce calvario. Lo stesso copione venne applicato quasi pedissequamente nella strage di Rovetta. Qui, il 28 aprile, vennero trucidati 43 giovanissimi militi della “Tagliamento”, dopo che, con i buoni uffici del parroco del paesino seriano, si erano arresi ad un maggiore badogliano, previa assicurazione scritta del rispetto delle solite garanzie armistiziali. I soldati saloini avevano deposto le armi, ma vennero prelevati da un contingente garibaldino, che li passò per le armi contro il muro del cimitero del paese. Ancora: sempre il 28 aprile, a Lecco, i garibaldini, che avevano, di fatto messo da parte il comandante non comunista Bellini delle Stelle, fucilarono sedici ufficiali del battaglione “Perugia” della GNR, che si erano arresi con l’assicurazione di un trattamento onorevole. Moltissimi furono i casi analoghi nei giorni convulsi dell’aprile 1945. Per esempio ad Oderzo, dove, sempre con la mediazione del vescovo, i reparti fascisti deposero le armi dinanzi al CLN sotto la garanzia di un trattamento onorevole: molti saloini furono invece massacrati (30 aprile) dalla sopraggiunta brigata garibaldina “Nannetti”, in spregio di qualunque diritto di guerra e nonostante le vibranti proteste dei partigiani che avevano firmato l’atto di resa. Analoga sorte toccò agli uomini di alcuni reparti repubblicani, che si erano arresi a condizione nelle zone di Conegliano e Vittorio Veneto e che vennero massacrati dai partigiani della brigata “Tollot” (1° maggio 1945).
Una precisa strategia omicida.
L’elenco è lungo e potrebbe continuare. Dopo l’esame di tanti e tanti episodi analoghi l’ipotesi che balena di fronte allo storico è appunto quella che non sia stato il caso a determinare queste analogie, ma che si sia trattato di una specie di gioco delle parti, preordinato tra le diverse componenti del CLN, onde conseguire due importanti risultati. Il primo, come si è detto, era quello di ottenere la resa e la consegna delle armi di truppe ancora assai agguerrite, che avrebbero potuto rappresentare un autentico pericolo per chiunque avesse tentato di disarmarle contro la loro volontà. La garanzia di una resa onorevole, la figura rassicurante di un sacerdote, la parola di un ufficiale regolare rappresentavano il miglior strumento di persuasione per le truppe repubblicane, che versavano in una situazione di dubbio e di amarezza. Una volta ottenuto il disarmo del nemico, tutte le regole venivano allegramente disattese, con la scusa che il popolo aveva diritto alla propria vendetta. Così, si veniva a creare un tragico palleggio di responsabilità tra partigiani di diverso orientamento politico, allo scopo di deviarle e diluirle. Operazione che, alla luce degli eventi successivi, ci pare sia perfettamente riuscita. Il secondo obiettivo, invece, era quello di preservare l’immagine della Resistenza, cancellando le tracce di comportamenti che, anche operando con la massima benevolenza, non può che essere definito barbaro e disonorevole per un combattente degno di questo nome. A tal fine, il depistaggio e la confusione fecero il proprio dovere, impedendo, di fatto, che si potesse realmente risalire ai colpevoli, giustificando gli eventi con la turbolenza e la drammaticità di quel periodo. Laddove, viceversa, chi scrive nutre il profondo convincimento che questo atteggiamento sia stato accuratamente pianificato, ben prima che il precipitare degli eventi lo rendesse di drammatica attualità: ci pare infatti impensabile che i vertici del CLN non si fossero posti il problema del disarmo delle numerose truppe fasciste ancora altamente combattive, che permanevano nel territorio repubblicano nella primavera del 1945. Al loro posto, lo avremmo certamente fatto. Lo svolgersi delle stragi, la loro impressionante somiglianza, le affinità tra i protagonisti delle vicende, non possono non farci sospettare l’esistenza di un piano organico, cinicamente stilato dalle varie forze partigiane, per ottenere il massimo risultato con il minimo rischio. Purtroppo, però, questo genere di documenti è appannaggio pressoché esclusivo di archivi Isrec, Inmli ed affini. Il che significa che lo storico che volesse indagare sistematicamente questo aspetto della Guerra Civile si troverebbe nelle condizioni di chiedere le prove della colpevolezza di un assassino al suo avvocato difensore. Possiamo solo sperare che i tempi cambino, e con essi l’atteggiamento di certi studiosi nei confronti della libera ed indipendente ricerca. Anche se, proprio la Guerra Civile ci insegna che la speranza e la fiducia, in certe situazioni, possono avere esiti disastrosi.
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